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Contratto autonomo di garanzia e clausole anatocistiche.

 

Come noto, il contratto autonomo di garanzia si caratterizza per la mancanza dell’elemento della accessorietà rispetto al contratto garantito, la quale è invece tipica del contratto di fidejussione. In altre parole, il garante si impegna a pagare senza sollevare eccezioni in merito alla validità, all’efficacia o, a seconda dei casi, all’adempimento della prestazione del rapporto sottostante (il contratto prevede generalmente clausole come “pagamento a prima richiesta” o “senza eccezioni”).

 

Nel corso del tempo, tuttavia, la giurisprudenza ha mitigato il rigore di tali previsioni contrattuali. Innanzi tutto, ha ammesso che il garante possa agire azionando la c.d. exceptio doli generalis, ovverosia contestando che il creditore abbia escusso la garanzia in modo abusivo o addirittura fraudolento, e ciò laddove il creditore abbia richiesto il pagamento pur essendo consapevole che quello non gli fosse dovuto (cfr. tra le più recenti Cass. 16.11.2007 n. 23786 e Cass. 14.12.2007 n. 26262). Successivamente, la Suprema Corte ha ritenuto ammissibili – da parte del garante – anche le contestazioni di nullità del contratto sottostante per violazione di norme imperative ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c. oppure per illiceità della causa o dell’oggetto ai sensi dell’art. 1418, comma 2 c.c. (cfr. tra le tante Cass. 10.01.2018, n. 371, Cass. SU 18.02.2010, n. 3947, Cass. 3 marzo 2009, n. 5044 e Cass. 24.04.2008 n. 10652).

 

Inoltre, secondo un orientamento che si sta consolidando più di recente, la Corte di Cassazione ha riconosciuto in capo al garante la facoltà di contestare anche la nullità di singole clausole del contratto garantito e, in particolare, quelle che prevedano condizioni anatocistiche (cfr. Cass. 6.09.2021 n. 24011).

 

La pronuncia in questione è di particolare interesse perché – com’è facile comprendere – apre un ampio fronte di contestazioni di carattere tecnico nell’ambito di un contratto che, al contrario, mira proprio ad evitare ogni tipo di contestazione.

 

Ed infatti il Tribunale di Sassari prima e la Corte di Appello di Cagliari poi avevano respinto le eccezioni del garante, affermando che il divieto di anatocismo non è assoluto ma è ammesso al ricorrere di particolari condizioni previste dall’art. 1283 c.c. e dall’art. 120 T.U.B. (nel rispetto delle previsioni dell’art. 2, comma 2, Delibera CICR 9.02.2000, ovverosia la medesima periodicità nella capitalizzazione degli interessi debitori e creditori). Le disposizioni in tema di anatocismo non sarebbero quindi norme imperative e, di conseguenza, le clausole anatocistiche non sarebbero viziate da nullità ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c..

 

La Corte di Cassazione ha censurato però tale principio, affermando al contrario che “ove non ricorrano le particolari condizioni legittimanti previste dall’art. 1283 c.c. (Cass. S.U. n. 21095/2004), la capitalizzazione, fondandosi su un uso negoziale, anziché normativo (il solo che ammette la deroga dell’art. 1283 c.c.), deve ritenersi vietata per violazione di una norma cogente, dettata a tutela di un interesse pubblico” e tale nullità può essere eccepita anche dal garante. Una simile conclusione si giustifica considerando che “se si ammettesse la soluzione contraria, si finirebbe per consentire al creditore di ottenere, per il tramite del garante, un risultato che l’ordinamento vieta”.

 

Il principio appena illustrato acquista ancora maggiore rilevanza se si considerano i rapporti tra il garante e il garantito. Una volta pagato il creditore, infatti, il garante – nel contratto autonomo di garanzia come nella fidejussione – ha un diritto di rivalsa nei confronti del garantito. Ma quest’ultimo non è tenuto a adempiere se il garante non ha preventivamente assolto l’onere di contestare e sollevare tutte le eccezioni possibili nei confronti del creditore.

 

È dunque prevedibile che il contenzioso in tema di contratto autonomo di garanzia possa aumentare sensibilmente e che, in quest’ottica, i creditori garantiti cerchino formulazioni contrattuali tali da sterilizzare anche tali contestazioni.

 

 

a.gangemi@macchi-gangemi.com

 

 

 

L’eccessivo formalismo della Corte di Cassazione criticato dalla CEDU.

 

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in una recente sentenza (CEDU, 28.10.2021, ricorso n. 55064/11), ha condannato l’Italia per violazione del diritto di ciascun individuo “a che la sua causa sia esaminata equamente… da un tribunale” (§ 6.1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). Più in particolare, la CEDU ha ritenuto che in un caso la Corte di Cassazione ha applicato il principio della c.d. autosufficienza del ricorso in modo troppo rigido e che la conseguente decisione di inammissibilità del ricorso violi il diritto fondamentale ad un giusto processo.

 

Il principio di autosufficienza del ricorso è stato ricavato dalla Suprema Corte in via interpretativa, partendo dall’analisi del contenuto del ricorso stabilito dall’art. 366 c.p.c. ed arrivando ad affermare che il ricorso – per avere in sé tutti gli elementi necessari per la decisione – deve riportare letteralmente non solo le parti della sentenza che si contestano, ma anche il testo dei documenti o degli atti che si pongono alla base del ricorso, indicandone precisamente i riferimenti del testo (numero del documento, paragrafo, pagina, etc.). Tale principio risponde alla necessità di chiarezza e specificità delle contestazioni e di celerità e completezza di riscontro per i giudici.

 

La CEDU riconosce la meritevolezza degli interessi alla base del principio di autosufficienza, valorizzando tanto la natura e le caratteristiche dei giudizi di legittimità, quanto la necessaria preparazione ed accuratezza degli avvocati ammessi al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori. Tuttavia, ritiene che il rispetto di tali esigenze debba essere valutato con attenzione ed elasticità con riferimento ad ogni singolo caso concreto, e che non si possa trasformare in una “tagliola” che escluda l’esame del ricorso quando, ad un’attenta lettura, tutti i suoi elementi siano effettivamente presenti.

 

La CEDU, in altre parole, non contesta il principio in sé (tant’è che – dei tre ricorsi riuniti oggetto della sua decisione – solo uno viene accolto, mentre negli altri due non si ravvisa alcuna violazione), ma la sua applicazione eccessivamente formalistica.

 

Nel caso specifico (caso “Sutti”) la vicenda traeva origine dalla risoluzione di due contratti di locazione di immobili ad uso commerciale, disposta dal Tribunale di Catania e confermata dalla Corte di Appello, con rigetto della domanda riconvenzionale del conduttore al pagamento dell’indennità di avviamento. Il successivo ricorso in Cassazione è stato dichiarato inammissibile (Cass. 28.02.2011 n. 4977) perché “non rispetta i principi suesposti, in quanto i cinque motivi in cui è articolato sono privi della rubrica indicativa dei vizi lamentati e dei riferimenti alle ipotesi regolate dall’art. 366 c.p.c. e mancano il riferimento e l’indicazione relativi alla documentazione su cui sono basate le argomentazioni a sostegno”.

 

La CEDU, al contrario, ha ritenuto che “la lettura del ricorso per cassazione del ricorrente permetteva di comprendere l’oggetto e lo svolgimento della causa dinanzi alle giurisdizioni di merito, nonché la sostanza dei motivi di ricorso, sia per quanto riguarda la base giuridica degli stessi (il tipo di critica in riferimento ai casi previsti dall’articolo 360 del CPC) che il loro contenuto, attraverso i rinvii ai passaggi della sentenza della corte d’appello e ai documenti pertinenti citati nel ricorso per cassazione stesso” ed ha concluso, pertanto, che la decisione della Corte di Cassazione abbia violato il diritto del ricorrente ad un equo esame da parte dei giudici.

 

Sia consentita una considerazione a margine di questa decisione (e all’indomani dell’approvazione della legge delega per la riforma del processo civile): il problema dell’eccessivo carico dei giudici, in particolare della Cassazione, così come quello dell’eccessiva durata dei processi – problemi che sono alla base dell’applicazione del principio di autosufficienza – sono evidenti a tutti: per risolverli occorre una reale alleanza tra avvocatura e magistratura, ove la prima collabori attivamente, facendo il possibile per limitare il ricorso al processo e, quando questo sia necessario, per agevolare il compito dei giudici; mentre la seconda si mostri solerte nel dare risposte alle istanze di tutela, senza indulgere nella gestione del tempo né sanzionare con provvedimenti restrittivi (se non talvolta punitivi) l’operato dei difensori.

 

 

a.gangemi@macchi-gangemi.com

 

 

 

La valorizzazione delle partecipazioni e dei titoli esteri pervenuti in successione ai fini delle imposte sui redditi.

 

In caso di acquisto per successione delle partecipazioni e dei titoli esteri occorre assumere, come costo rilevante ai fini delle imposte sui redditi, quello sostenuto dal de cuius al momento dell’acquisto. Ciò in quanto il mancato assoggettamento all’imposta sulle successioni fa venir meno il presupposto per una “rivalutazione” della partecipazione ereditata. Così si è espressa l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 675 del 7 ottobre 2021.

 

L’Agenzia delle Entrate, con la predetta risposta a interpello, ha chiarito che, per i titoli esteri (azionari e obbligazionari) pervenuti per successione dal de cuius non residente, il costo fiscalmente riconosciuto ai fini della determinazione delle successive plusvalenze non può essere assunto nel valore normale dei titoli alla data di apertura della successione, ma deve essere invece quantificato nel costo sostenuto dal de cuius.

 

Ad avanzare il dubbio era stato uno degli eredi di un soggetto fiscalmente non residente in Italia alla data del decesso, che aveva ricevuto in eredità parte delle azioni e obbligazioni, tutte depositate all’estero, emesse da società italiane e da società non aventi sede legale in Italia.

 

I predetti titoli venivano trattati come “esenti” dall’imposta sulle successioni ai sensi dell’art. 2, comma 2 del D.Lgs. n. 346/1990, secondo cui, se alla data di apertura della successione il defunto non era residente in Italia, l’imposta sulle successioni è dovuta limitatamente ai beni che si considerano esistenti in Italia (c.d. “extraterritorialità”).

 

L’istante, intenzionato a vendere alcuni dei titoli esteri, chiedeva conferma all’Agenzia delle Entrate circa il criterio da adottare per la determinazione del valore fiscalmente riconosciuto di tali titoli (ovvero, la base di calcolo per la plusvalenza) evidenziando in tal senso che, ai sensi dell’art. 68, comma 6 del TUIR, nel caso di acquisito per successione “si assume come costo il valore definito o, in mancanza, quello dichiarato ai fini dell’imposta di successione, nonché, per i titoli esenti da tale imposta, il valore normale alla data di apertura della successione”.

 

Secondo l’Agenzia delle Entrate, contrariamente a quello che l’art. 68, comma 6 del TUIR sembrerebbe prevedere in linea generale, la possibilità di utilizzare il c.d. “valore normale” è confinata ai casi di esenzione in senso tecnico (ad es. le azioni o quote di società per le quali l’imposta non è dovuta ai sensi dell’art. 3, comma 4-ter del D.Lgs. n. 346/1990 – come peraltro già chiarito dalla stessa Agenzia delle Entrate con le precedenti Risoluzioni n. 120/E del 2001 e Circolare n. 12/E del 2008) – e non si estende anche alle situazioni in cui i beni sono al di fuori del campo di applicazione dell’imposta per carenza del requisito di territorialità.

 

Non essendovi però neanche un valore dichiarato ai fini dell’imposta sulle successioni (ovvero, il criterio base per la valorizzazione delle attività finanziarie pervenute mortis causa), l’Agenzia delle Entrate conclude (confermando un precedente orientamento generale fornito con la Circolare n. 91/E del 2001) ritenendo applicabile, in tali circostanze ed ai fini delle imposte sui redditi, il costo effettivamente sostenuto all’epoca del de cuius.

 

 

a.salvatore@macchi-gangemi.com
f.dicesare@macchi-gangemi.com

 

 

 

La conservazione del green pass dei lavoratori ed il green pass rafforzato, nuovi adempimenti per i datori di lavori privati?

 

L’introduzione del green pass nel mondo del lavoro privato ha rappresentato un’importante ed impegnativa novità per i datori di lavoro privati. Le disposizioni volte a regolare il green pass nel mondo di lavoro privato sono state oggetto di recenti interventi da parte del legislatore (L. 165 del 19 novembre 2021 e D.L. 172 del 26 novembre 2021) che hanno da una parte introdotto un green pass rafforzato e dall’altra previsto la possibilità di conservare il green pass dei lavoratori.

 

Il green pass rafforzato

 

Il green pass rafforzato, valido dal 6 dicembre al 15 gennaio, potrà essere ottenuto solo dalle persone guarite o vaccinate. Eventuali limitazioni e restrizioni saranno dunque applicate solo a soggetti non vaccinati, meno del 10% dei soggetti interessati, possessori del green pass “ordinario” da tampone.

 

L’accesso a determinate attività, previste dalla norma di legge, tra le quali eventi sportivi, feste ed attività di ristorazione al chiuso sarà possibile solo in presenza di possesso di green pass rafforzato.

 

Appare evidente che i datori di lavoro privati, presenti nell’elenco delle categorie di attività sottoposte a green pass rafforzato, dovranno integrare le procedure esistenti al fine di predisporre idonee modalità di verifica dei green pass rafforzati.

 

La conservazione del green pass

 

I lavoratori potranno inoltre richiedere ai propri datori di lavoro di conservare copia del green pass ed essere, di conseguenza, per la durata della certificazione consegnata, esentati dai controlli previsti dalla norma di legge.

 

Anche la presente novità comporta inevitabilmente, per i datori di lavori privati, nuovi adempimenti.

 

Il datore di lavoro, tra le molte, dovrà aggiornare l’informativa privacy già predisposta per coprire questi nuovi trattamenti dei dati. Lo stesso datore sarà onerato anche dalla predisposizione di nuove procedure volte a gestire (inclusa la conservazione) le nuove certificazioni, con particolare attenzione all’attuazione di misure di sicurezza ed organizzative idonee a proteggere i dati ricevuti. Infine, in ragione dei trattamenti effettuati, potrebbe essere necessario, per il datore di lavoro diligente, effettuare apposita valutazione d’impatto privacy per gestire la conservazione dei dati.

 

Le predette novità non sembrano esenti da criticità, nello specifico, le disposizioni in tema di conservazione dei green pass sembrano contrastare con le indicazioni rilasciare dal Garante Privacy al Parlamento (rif. 9717878) e con alcune disposizioni del Regolamento EU 2021/953; inoltre le verifiche del green pass rafforzato, nelle attività sottoposte ai nuovi obblighi, potrebbero comportare la duplicazione delle procedure di controllo dei datori.

 

In attesa della predisposizione di idonee procedure aziendali interne e di chiarimenti del Garante privacy appare ragionevole, per il datore di lavoro, rifiutare momentaneamente la gestione dei green pass, qualora la stessa possa esporre la società a sanzioni per non corretto trattamento dei dati.

 

E’ necessario dunque adeguare le procedure alle nuove disposizioni.

 

 

r.demarco@macchi-gangemi.com
f.montanari@macchi-gangemi.com

 

 

DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.

 

 

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