LATEST NEWS & INSIGHTS 17 DICEMBRE 2021

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Quanto sono “pulp” gli NFT? Lo sbarco nel mondo cinematografico degli NFT: il caso “Pulp Fiction”.

 

In data 16 novembre 2021 la società di intrattenimento Miramax di Los Angeles ha convenuto in giudizio avanti la “US District Court for the Central District of California”, Quentin Tarantino per la vendita di non-fungible token (NFT) relativi al film del 1994 “Pulp Fiction” ed associati a scansioni ad alta risoluzione consistenti in “una singola scena iconica, compreso il commento audio personalizzato” insieme a “una manciata di segreti della sceneggiatura e uno sguardo nella mente e nel processo creativo di Quentin Tarantino“.

 

In tale contesto, Miramax ha agito giudizialmente per inadempimento contrattuale, oltre che per violazione dei propri diritti d’autore, di marchio e concorrenza sleale, invocando la tutela risarcitoria unitamente all’emissione di un’inibitoria volta a vietare la vendita degli NFT, oltre che a prevenire potenziali tentativi futuri, da parte di Tarantino, in violazione dei propri diritti esclusivi sulla pellicola.

 

Miramax sostiene che Tarantino aveva precedentemente concesso “tutti i diritti (compresi tutti i diritti d’autore e i marchi d’impresa) nel e sul film… …escludendo solo una serie limitata di ‘diritti riservati’ di Tarantino“, alcuni dei quali strettamente riferiti alla pubblicazione del film.

 

Per quanto concerne l’asserita violazione dei diritti d’autore, Miramax afferma che “Ad eccezione della serie limitata di diritti riservati a Tarantino… …Miramax possiede i diritti d’autore su e per Pulp Fiction (e, ai sensi dell’Accordo sui diritti originale nonché l’accordo di cessione Tarantino-Miramax, ‘tutti i suoi elementi in tutte le fasi di sviluppo e produzione’)…” sostenendo conclusivamente che gli NFT di “Pulp Fiction” devono essere considerati come opere derivate non autorizzate in violazione della Sezione 501 del Copyright Act, 17 U.S.C. §501.

 

Inoltre, Miramax si oppone all’uso da parte di Tarantino del marchio e delle immagini di Pulp Fiction, sostenendo che tale condotta sarebbe suscettibile “di ingannare il pubblico di riferimento nel credere, erroneamente, che gli NFT di Pulp Fiction provengano da, siano associati o affiliati con, o siano altrimenti autorizzati da Miramax” a fronte degli “ampi diritti” della società su Pulp Fiction, ivi compresi “vari diritti di marchio registrati e non registrati sul nome ‘PULP FICTION’“, così come “validi e sussistenti diritti d’autore registrati presso l’U.S. Copyright Office“.

 

Miramax sostiene che la presunta violazione perpetuata da Tarantino potrebbe “indurre altri a credere di avere i diritti per perseguire accordi o offerte simili, quando in realtà Miramax detiene i diritti necessari per sviluppare, commercializzare e vendere NFT relativi alla propria estesa biblioteca cinematografica“.

 

Nel caso di specie, uno dei difensori del regista Tarantino ha rappresentato che la collezione programmata si compone di “7 NFT, ognuno contenente una scansione digitale ad alta risoluzione delle pagine originali di Quentin scritte a mano per una singola scena della sua sceneggiatura di Pulp Fiction“. Posto che essi non memorizzano alcun bene digitale, ma sono piuttosto associati ad uno specifico file, è improbabile che gli NFT di Tarantino possano avere rilevanza dal punto di vista del diritto d’autore, contrariamente ai contenuti digitali a cui essi rimandano.

 

Poiché le opere derivate in questione sono le scansioni delle sceneggiature, non gli NFT, si potrebbe sostenere che la fattispecie in esame, invero, corrisponda più ad una controversia di tipo contrattuale in cui l’attenzione si concentra sulla questione se, tra i diritti riservati dal regista Tarantino all’interno del contratto di cessione concluso a suo tempo con Miramax, fossero ricompresi i diritti di “pubblicazione della sceneggiatura”.

 

A tal proposito, è da notare che l’accordo con Miramax lasciava intatti alcuni “Diritti Riservati” ivi compresa “la pubblicazione a mezzo stampa (compresa, senza limitazione, la pubblicazione di sceneggiature, libri ‘making of’, fumetti e romanzi, anche in formato audio ed elettronico, ove applicabile)“. Ne consegue che Quentin Tarantino potrebbe, dunque, avere il diritto di commercializzare scansioni digitali di alcuni estratti della propria sceneggiatura come NFT, salvo che la condotta descritta finisca col qualificarsi come un atto di merchandising, attività riservata in favore di Miramax nell’ambito dell’intervenuta cessione.

 

Proprio per tale motivo Miramax argomenta sul punto che, ai sensi dello US Copyright Act, la distribuzione di un piccolo numero di copie ad un numero ristretto di destinatari non è di solito considerata “pubblicazione” – a meno che non siano imposte limitazioni all’ulteriore distribuzione del contenuto. Anche se, come si può notare dal sito d’aste di Tarantino www.tarantinonfts.com al proprietario degli NFT è concessa persino la libertà di “condividere pubblicamente i segreti con il mondo“, il che sembra essere in contrasto con le obiezioni sollevate da Miramax.

 

Come accennato in precedenza, Miramax ha anche contestato l’uso non autorizzato di immagini da parte di Tarantino sui propri NFT – in particolare, illustrazioni a fumetti dei personaggi interpretati da John Travolta e Samuel L. Jackson. A questo proposito, tuttavia, il famoso regista ha già provveduto alla sostituzione delle illustrazioni animate con una figura senza testa che indossa un costume simile a quelli indossati dagli storici personaggi all’interno del film.

 

Infine, per quanto concerne le asserite violazioni sui diritti di marchio della Miramax, occorre tener presente come, nonostante l’ingente quantità di registrazioni di marchi per “Pulp Fiction” relative a diverse categorie di beni, nessuna di tali registrazioni sembrerebbe ricomprendere espressamente gli NFT.

 

Gli NFT, ovvero Non-Fungible Token che realizzano un processo di identificazione univoca di un prodotto digitale creato sul web, sono ampiamente usati negli ultimi anni nel settore media al fine di trarre profitto al di fuori dei tradizionali schemi di licenza. Il caso Miramax v. Tarantino è uno degli esempi più importanti di cause incentrate sugli NFT che coincide con l’aumento del loro utilizzo nel settore cinematografico dall’inizio di quest’anno.

 

Applicare le normative di Proprietà Intellettuale nate ben prima della nascita di queste tecnologie crea non pochi problemi agli operatori del diritto che dovranno adattare, come nel caso in esame, norme vetuste ad un mondo tecnologico in continua evoluzione.

 

Pertanto, la disputa Miramax contro Tarantino dimostra che i grandi attori dell’industria dell’intrattenimento stanno cominciando a saggiare le opportunità di capitalizzazione sull’onda crescente degli NFT, nel tentativo, tuttavia, di estendere giudizialmente l’applicazione di previsioni contrattuali ormai obsolete, operazione destinata a moltiplicare le incertezze interpretative intorno a queste nuove forme di sfruttamento degli asset digitali. In tale contesto, le implicazioni dal punto di vista della proprietà intellettuale saranno numerose e sicuramente più difficili da risolvere nel prossimo futuro non solo in territorio statunitense ma anche avanti le Corti Specializzate italiane.

 

 

m.baccarelli@macchi-gangemi.com
m.lonero@macchi-gangemi.com

 

 

 

Valute virtuali: strumenti di pagamento o prodotti finanziari?

 

In una recente sentenza, la Suprema Corte (Cassazione penale, sez. II, 10 Novembre 2021, n. 44337) ha stabilito che i bitcoin come le altre valute virtuali non sono di per sé qualificabili come prodotti finanziari ma che, qualora la vendita dei bitcoin integri la proposta di investimento, l’offerente è soggetto a specifiche regole di comportamento.

 

Più in particolare, si applicheranno gli obblighi previsti dagli artt. 91 e ss. del Decreto Legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998 – Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (TUF) con conseguente qualificazione della valuta virtuale come prodotto finanziario ed applicazione del relativo regime (art. 94 e ss. TUF), così da garantire all’investitore una più efficace tutela dell’investimento.

 

La pronuncia ha ad oggetto l’impugnativa dell’ordinanza di convalida del sequestro probatorio afferente ad una piattaforma di Exchange considerata corpo del reato quale: “[…] strumento attraverso il quale vi sono (sono offerti ndA) la pubblicizzazione dell’attività illecita e l’offerta alla clientela, strumenti propedeutici alla messa in circolazione della moneta elettronica”. In particolare, il Tribunale ha ritenuto di estendere il sequestro alla piattaforma di Exchange sulla scorta della classificazione della moneta virtuale come prodotto finanziario in virtù di una equiparazione tra la valuta virtuale e l’oro digitale.

 

Gli ermellini fanno partire l’analisi dal dato normativo testuale e dalle differenti definizioni della normativa europea e nazionale. Infatti, con la Direttiva 2018/843/UE del 30 Maggio 2018 che modifica la Direttiva Antiriciclaggio, il legislatore europeo fornisce una definizione in negativo di moneta virtuale con il solo obiettivo di regolare i rapporti tra moneta virtuale e moneta corrente: “[…] una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente”.

 

Il legislatore nazionale, invece, detta una disciplina più ampia rispetto a quella del legislatore europeo . Infatti, l’art. 1, lett. qq del d.lgs. 231/2007 come modificato dal d.Lgs. 4 ottobre 2019, n. 125 – in linea con i risultati della Consultazione Pubblica avviata da Consob dal titolo “Le offerte iniziali e gli scambi di cripto-attività” pubblicati in data 2 gennaio 2020 definisce la moneta virtuale come “[…] la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”. La differenza fra le due definizioni starebbe, secondo la Suprema Corte, proprio nella finalità di investimento – censurata nella decisione in oggetto – espressamente prevista dal legislatore nazionale fra i possibili utilizzi della moneta virtuale.

 

Il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte è il seguente: “[…] ove la vendita di bitcoin venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, si ha una attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF (“La CONSOB esercita i poteri previsti dalla presente parte avendo riguardo alla tutela degli investitori nonché all’efficienza e alla trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali”), la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166 comma 1 lett. c) TUF (che punisce chiunque offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento); pertanto, allo stato, può ritenersi il bitcoin un prodotto finanziario qualora acquistato con finalità d’investimento: la valuta virtuale, quando assume la funzione, e cioè la causa concreta, di strumento d’investimento e, quindi, di prodotto finanziario, va disciplinato con le norme in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 ss. T.U.F.), le quali garantiscono attraverso una disciplina unitaria di diritto speciale la tutela dell’investimento.”

 

 

m.divincenzo@macchi-gangemi.com
f.lauro@macchi-gangemi.com

 

 

 

Codice del Consumo 2022: le novità.

 

Il D.Lgs 170/2021 ha apportato importanti modifiche al Codice del Consumo non solo ampliando la disciplina in favore del Consumatore ma anche dirimendo alcune annose questioni che avevano fatto discutere sia dottrina che in giurisprudenza.

 

È stato riformato l’intero Capo I del Titolo III della parte IV del suddetto Codice.

 

Le novità introdotte sono molte ed entreranno in vigore dal 1° gennaio 2022: le nuove disposizioni si applicheranno ai contratti conclusi da quella data.

 

In primo luogo, nello stabilire l’ambito di applicazione delle norme non si fa più menzione ai beni di consumo ma ai beni “in generale” con specifiche definizioni; viene esteso il termine di Venditore al “fornitore di piattaforme” e la nozione di bene ora ricomprende i beni con elementi digitali e gli animali vivi.

 

È stata anche integrata la definizione di produttore, descritto anche come colui che “si presenta come tale apponendo sul bene il suo nome, marchio o segno distintivo” [art. 128 comma 2° lett. d) CdC].

 

Quanto alla conformità dei beni al contratto, i requisiti sono ora elencati dal nuovo art. 129 C.d.C. che distingue tra i requisiti soggettivi, ovvero specifici del bene acquistato dal Consumatore, e quelli oggettivi (distinzione non presente prima) ovvero che caratterizzano qualsiasi bene di un determinato tipo.

 

Relativamente agli obblighi del Venditore, vengono introdotte alcune cause di giustificazione in caso di non rispondenza del bene alle dichiarazioni “pubbliche” (comprese quelle rese dal produttore), nel caso queste:

 

– non siano conosciute dal Venditore al momento della vendita;

– si rivelino corrette alla conclusione del contratto;

– non abbiano influenzato comunque la decisione del Consumatore di acquistare il bene.

 

Per i beni digitali è stabilito l’obbligo per il Consumatore di eseguire gli aggiornamenti richiesti altrimenti il Venditore non sarà considerato responsabile in caso di difetto di conformità del bene. Il Venditore avrà comunque diritto di regresso verso il produttore qualora la mancanza degli aggiornamenti sia a quest’ultimo imputabile.

 

Viene anche rimodulata la disciplina sull’errata installazione dei beni che può essere fonte di responsabilità per il Venditore solo se eseguita da* quest’ultimo o imputabile a carenze/errori nelle istruzioni.

 

Permane la responsabilità di due anni per il Venditore (sempre dalla consegna), ora estesa anche ai beni digitali, e la prescrizione dell’azione in 26 mesi dalla consegna; invariato anche il termine di regresso per l’azione del Venditore finale nei riguardi di chi lo precede nella catena distributiva (1 anno) come pure la durata della garanzia per i beni usati (sempre non inferiore a 1 anno).

 

È stato, tuttavia, eliminato il termine per il Consumatore di denunciare i vizi entro due mesi dalla scoperta: è da ipotizzare che il termine sia ora nuovamente regolato dal Codice Civile.

 

Anche l’onere della prova subisce, con questa riforma, un importante cambiamento: viene infatti estesa la presunzione di preesistenza del difetto fino ad un anno dalla consegna, anche per i beni digitali.

 

Tra i rimedi accordati al Consumatore si confermano la riduzione del prezzo del bene e la risoluzione del contratto, con delle modifiche però: il Consumatore ha sempre diritto di ridurre il prezzo ma in misura proporzionale alla diminuzione di valore del bene stesso (non si fa più cenno all’uso del bene) e se il difetto di conformità riguarda solo alcuni dei beni consegnati, il contratto può essere risolto solo con riguardo ad essi; in questo caso sarà il Consumatore a dovere restituire il bene a sue spese.

 

È stato infine disposto un richiamo generalizzato alle disposizioni del codice civile in tema di formazione, validità ed efficacia dei contratti, unitamente alle conseguenze della risoluzione del contratto e diritto al risarcimento del danno, aspetto quest’ultimo non affrontato in modo esplicito in precedenza.

 

Sono sicuramente modifiche molto importanti quelle ora illustrate, che vanno ad impattare su vari aspetti del rapporto Consumatore – Venditore: nel 2022 si potranno concretamente valutare i profili di applicazione della nuova normativa.

 

 

e.storari@macchi-gangemi.com
f.montanari@macchi-gangemi.com

 

 

 

Decreto FER 2: ci sono novità nella disciplina dei PPA?

 

L’articolo 28 del c.d. Decreto FER 2, disciplina l’avvio graduale delle contrattazioni di lungo termine di energia rinnovabile (cd. Power Purchase Agreement – PPA), che dovranno affiancarsi agli strumenti di incentivazione per il raggiungimento dell’ambizioso obiettivo nazionale al 2030 previsto dal PNIEC.

 

L’articolo abroga l’art. 18 del Decreto FER 1 e, in sostituzione, prevede che:

 

– il GME realizzi una bacheca informatica per promuovere l’incontro tra le parti potenzialmente interessate alla stipula di PPA

 

– il MITE fornisca indicazioni al GME per lo sviluppato di una piattaforma di mercato per la negoziazione di lungo termine (auspicabile che si tenga conto del processo di Consultazione pubblica del GME n. 01/2020, di cui di seguito)

 

– la Consip definisca gli strumenti di gara per la fornitura di energia da fonti rinnovabili alla pubblica amministrazione attraverso schemi di accordo di PPA. L’adesione agli schemi di accordo si aggiunge alle procedure di acquisto per forniture di energia elettrica da funti rinnovabili definite da Consip, nell’ambito del piano d’azione nazionale sugli acquisti verdi della pubblica amministrazione

 

– ARERA integri le linee guida in materia di gruppi di acquisto (legge n. 124 del 2017) per promuovere l’approvvigionamento mediante PPA, per istituire specifiche regole di comportamento, che i gruppi di acquisto che vi aderiscono devono osservare con lo scopo di garantire ai clienti che partecipano a tali gruppi un’adeguata informazione e assistenza in tutte le fasi delle campagne di acquisto collettivo

 

Per individuare gli elementi che potrebbero caratterizzare la piattaforma, bisogna tuttavia rifarsi all’unico documento sul tema, ossia la proposta di funzionamento della PPA Platform sviluppata dal GME per il decreto FER 1 (Documento di consultazione del GME n. 01/2020) che aveva ricevuto alcune critiche in quanto ritenuta troppo vaga e quindi era stato suggerito di:

 

– definire i requisiti degli operatori

– prevedere ulteriori prodotti

– aumentare la durata dei contratti standard

– riferimento alle Garanzie d’Origine

– dettagliare il ruolo del GME

 

Sempre su questo tema, si segnala che il GSE si è fatto promotore dello studio “Support to elaborate the legislative and regulatory framework to promote Power Purchase Agreements (PPA) in Italy” per l’elaborazione di un quadro di riferimento per favorire il ricorso ai PPA. Tra le proposte individuate, si è suggerito di valutare l’introduzione di un obbligo in capo ai consumatori energivori di certificare l’acquisto di una quota minima percentuale del proprio consumo annuo di energia elettrica attraverso PPA. L’obbligo potrebbe divenire anche condizione necessaria per l’accesso da parte degli stessi consumatori energivori a meccanismi di compensazione degli oneri sostenuti (cd. “agevolazione energivori”).

 

Come si evince, il mercato e i contratti di PPA, ad oggi, non hanno ancora una precisa regolamentazione normativa. Attualmente lo schema contrattuale si basa su un contratto di fornitura di servizi, con off taker professionali. Questi contratti hanno peculiarità e clausole che devono essere trattate con attenzione. Prescindendo dall’analisi delle clausole di strutturazione del prezzo che necessiterebbero di un approfondimento specifico, evidenziamo i seguenti aspetti.

 

– Tipicamente, vengono introdotte clausole per la disciplina degli eventi di forza maggiore, tra cui il change in law: in caso in cui il change in law abbia un impatto rilevante sugli aspetti economici del contratto, una soluzione potrebbe essere data dalla previsione un arbitraggio tecnico (artt. 1349-1322 c.c.) volto a mantenere l’equilibrio contrattuale.

 

– Gli oneri per il rilascio delle garanzie che gli operatori – venditori o acquirenti – sono chiamati a sostenere per la copertura delle proprie esposizioni sono gravosi e spesso, in considerazione anche dell’esteso orizzonte temporale di durata dei contratti, sono previste garanzie di tipo rolling (per frazioni della durata del contratto). Per questo, anche per la futura regolamentazione della piattaforma GME, si è suggerito di introdurre garanzie di tipo rolling.

 

– Permangono in ogni caso difficolta nella “bancabilità” dei contratti, anche in quanto le banche spesso richiedono un rating dell’off taker che, allo stato attuale, pochi soggetti riescono a soddisfare.

 

Il nostro Team Energy proseguirà nella descrizione delle novità introdotte dal Decreto FER 2 con approfondimenti specifici nei prossimi giorni.

 

 

f.bogoni@macchi-gangemi.com
m.rigo@macchi-gangemi.com

 

 

 

Indeducibilità del costo del lavoro relativo al dipendente che riveste anche il ruolo di presidente del Consiglio di Amministrazione o di amministratore unico.

 

Con ordinanza n. 36362 del 23 novembre 2021 la Cassazione si è pronunciata in tema di deducibilità fiscale – in capo alla società di capitali datore di lavoro – delle retribuzioni di due lavoratori dipendenti che della società erano anche soci e rispettivamente presidente del Consiglio di Amministrazione e membro del Consiglio.

 

Con riferimento al presidente del Consiglio di Amministrazione la Cassazione ha confermato il proprio orientamento sull’indeducibilità del compenso, come diretta conseguenza della assenza di subordinazione in capo al dipendente. Secondo la Cassazione, infatti, “in tema di imposte sui redditi sussiste l’assoluta incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa, in quanto il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni che è necessaria perché sia riscontrabile l’essenziale ed indefettibile elemento della subordinazione, con conseguente indeducibilità dal reddito della società del relativo costo da lavoro dipendente”.

 

Con riferimento al dipendente membro del Consiglio di Amministrazione la Cassazione afferma che non esiste una incompatibilità assoluta ma specifica che la sussistenza del vincolo di subordinazione gerarchica – presupposto necessario per la deducibilità ai fini fiscali della retribuzione – deve essere verificata non solo formalmente in base allo statuto e alle delibere societarie ma in concreto in relazione al potere direttivo e a quello disciplinare e, in particolare, allo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita.

 

Il dipendente amministratore deve, dunque, risultare in concreto assoggettato ad un potere disciplinare e di controllo esercitato dagli altri componenti dell’organo cui egli appartiene; in mancanza di siffatto assoggettamento, l’osservanza di un determinato orario di lavoro e la percezione di una regolare retribuzione non sono sufficienti da sole a far ritenere la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato.

 

La sentenza purtroppo non affronta il tema della doppia imposizione che si genera per effetto della eventuale indeducibilità in capo alla società erogante del compenso già assoggettato ad imposta in capo al percettore.

 

 

b.pizzoni@macchi-gangemi.com

 

 

DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.

 

 

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