LINEE GUIDA OCSE SUI PREZZI DI TRASFERIMENTO: PUBBLICATO L’AGGIORNAMENTO
L’OCSE ha pubblicato la nuova versione delle “Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations”. Il documento consolida gli interventi sulla materia promanati dall’OCSE a partire dal 2018, inserendoli al suo interno e adattando, per coerenza, le parti preesistenti.
In data 20 gennaio 2022, l’OCSE ha pubblicato la nuova edizione delle Linee Guida sui prezzi di trasferimento (“Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations”) che indirizzano le imprese multinazionali e le amministrazioni fiscali in ordine all’applicazione ed interpretazione del “principio di libera concorrenza”.
Dopo la prima pubblicazione “informale” nel 1979, le Linee Guida sono state approvate dal Consiglio OCSE nel 1995. A seguire è stato pubblicato un primo aggiornamento nel 2009 e successive modifiche sono state introdotte nel 2010 e nel 2017.
La nuova edizione delle Linee Guida non tratta nuovi temi ma reca piuttosto un’integrazione delle indicazioni fornite dall’OCSE in merito ai seguenti argomenti:
a) “Transactional Profit Split Method – Profit Split”: le nuove Linee Guida forniscono maggiori indicazioni volte a individuare le situazioni in cui il “Profit Split” possa essere ritenuto il più appropriato attraverso la modifica del Capitolo II, Sezione C e i relativi Allegati II e III, sulla base di quanto già riportato nel report “Revised Guidance on the Transactional Profit Split Method” approvato il 4 giugno 2018;
b) “Hard-to-Value Intangibles”: le nuove Linee Guida incorporano i principi delineati nel documento “The report Guidance for Tax Administrations on the Application of the Approach to Hard-to-Value Intangibles – HTVI” per l’analisi dei beni immateriali di difficile valutazione, pubblicato il 4 giugno 2018. Viene altresì valorizzata la possibilità di accesso alle procedure amichevoli, previste nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni;
c) “Financial Transactions”: le nuove Linee Guida forniscono indicazioni specifiche sulle transazioni finanziarie e sulle questioni ad esse correlate, quali cash pooling, garanzie finanziarie e assicurazioni vincolate; in particolare, è stato incluso un nuovo Capitolo X e all’interno della Sezione D.1.2.1 nel Capitolo I delle nuove Linee Guida, nel quale è stato recepito quanto indicato nel report “Transfer Pricing Guidance on Financial Transactions” pubblicato in data 11 febbraio 2020.
a.salvatore@macchi-gangemi.com
f.dicesare@macchi-gangemi.com
IL RECESSO NELLE TRATTATIVE COMMERCIALI
La violazione delle trattative precontrattuali è argomento che spesso occupa i Tribunali nei contenziosi: solitamente, nei giudizi per l’accertamento della legittimità/illegittimità del recesso dalle trattative lo sforzo difensivo è teso a dimostrare la condotta irreprensibile tenuta dal cliente nella fase formativa dell’accordo – dialogo trasparente, collaborativo ed ispirato al dovere di verità – e ciò al di là del reale contenuto del contratto; così, l’attenzione è spesso incentrata sulla sola valutazione dei comportamenti assunti nella trattativa tralasciando, in molti casi, l’esito concreto della stessa (il contratto in sé) anche perché, in fin dei conti, la responsabilità precontrattuale precede la formazione del contratto ed è utile dare la giusta, se non esclusiva, attenzione a quella fase preparatoria. Non sempre però le decisioni aderiscono ad una simile linea difensiva.
Potremmo considerare il caso di una parte che si rifiuta di sottoscrivere un contratto di collaborazione con un aspirante partner commerciale dopo una lunga trattativa. Il motivo del rifiuto può dipendere dal fatto che il candidato non ha gli standard contrattuali richiesti per entrare in quella specifica rete distributiva; la replica sovente mossa dal partner escluso al titolare della rete è invece quella di avere alzato troppo l’asticella della selezione imponendo condizioni eccessivamente gravose.
Gli argomenti di discussione principalmente interessano la regola posta dall’art. 1337 c.c. (“Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”) e il relativo onere della prova; a tal riguardo va ricordato che secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale “… non grava su chi recede l’onere della prova che il proprio comportamento corrisponda ai canoni di buona fede e correttezza, ma incombe, viceversa, sull’altra parte l’onere di dimostrare che il recesso esuli dai limiti della buona fede e correttezza postulati dalla norma …” (cfr. Cass. Civ. Sez. II, 03/10/2019 n. 24738 in Giust. Civ. Mass. 2019). Il principio affermato dall’art. 1337 c.c. implica il dovere di negoziare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti, fornendo alla controparte ogni elemento utile e rilevante ai fini della stipulazione del contratto.
Affinché sussista una responsabilità precontrattuale occorre dunque che le trattative tra le parti siano giunte ad un livello tale da ingenerare in una delle parti il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto (cfr. Cass. Civ. Sez. VI, 16.11.2021, n. 34510).
In una recente pronuncia di merito (Trib. Trani sent. n. 91 del 15.01.2022), il giudice, dopo essersi speso in un’attenta disamina della condotta avuta dalle parti per tutta la durata delle trattative, si è poi addentrato in un’analisi delle barriere “d’ingresso” alla rete distributiva, confermando la piena legittimità delle stesse anche alla luce della normativa europea sugli accordi verticali e pratiche concordate nel settore automobilistico (Regolamento UE 461/2010).
Il Tribunale è quindi giunto ad escludere che la trattativa avviata fosse stata finalizzata alla conclusione di un contratto in sé pregiudizievole per l’aspirante partner commerciale, recependo così il pensiero della Corte di Cassazione secondo cui la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative “… assume rilievo non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione … di un contratto invalido o inefficace, ma anche nel caso in cui il contratto concluso sia valido e, tuttavia, risulti pregiudizievole per la parte vittima dell’altrui comportamento scorretto… “ (v. Cass. Civ. Sez. i, 23.03.2016, n. 5762 in Diritto & Giustizia, 2016, 24 marzo).
In sintesi, anche nelle trattative occorre porre la giusta attenzione alla tipologia di contratto che si vuole concludere e agli obblighi che ne derivano, anche per non incorrere in responsabilità di natura precontrattuale.
OPERAZIONI A MEZZO MOBILE WALLET: L’INTERMEDIARIO HA L’ONERE DI PROVARE L’AUTENTICAZIONE FORTE DEL CLIENTE?
In una recente Decisione, il Collegio di Coordinamento dell’Arbitro Bancario e Finanziario è intervenuto per dettare orientamenti in materia di servizi di pagamento ed in particolare con riferimento al soddisfacimento dei requisiti di legge in materia di autenticazione nel caso di operazioni di pagamento effettuate per mezzo di mobile wallet.
La vicenda trae origine dalla divulgazione da parte dell’utente dei dati relativi al proprio conto corrente ed alle sue carte di credito e di debito, in risposta ad una mail di phishing. I dati dell’utente sono stati successivamente utilizzati da un presunto frodatore per la tokenizzazione delle carte dell’utente su mobile wallet all’esito della quale il frodatore ha potuto autorizzare in autonomia le transazioni effettuate. L’ordinanza di rimessione al Collegio di Coordinamento da parte del Collegio di Bari attiene alla verifica dell’Autenticazione forte del Cliente (SCA) richiesta ai sensi dell’articolo 10 – bis, let. b) del D.Lgs 27 gennaio 2010, n. 11 per le operazioni di pagamento effettuate tramite mobile wallet.
Il Collegio di Coordinamento ha in primis fatto una ricognizione della normativa applicabile alla materia dei servizi di pagamento con particolare riferimento al D.Lgs 27 gennaio 2010, n. 11 che ha recepito la direttiva 2015/2366/UE (PSD2) ed ai Regulatory Technical Standard (Regolamento Delegato UE 2018/839) che integrano la disciplina della direttiva. Ne consegue che, ai sensi dell’articolo 10 del D.Lgs 27 gennaio 2010, n. 11, qualora l’utente dei servizi di pagamento neghi di aver compiuto un’operazione di pagamento, è onere del prestatore di servizi di pagamento fornire prova che l’operazione è stata correttamente autorizzata. Ai sensi dell’articolo 10 – bis, il fornitore dei servizi di pagamento è tenuto a richiedere la SCA quando l’utente:
a) accede al proprio conto di pagamento online;
b) dispone un’operazione di pagamento;
c) effettua, tramite canali a distanza, un’operazione che può comportare rischi di frode.
Successivamente il Collegio ha chiarito le modalità attraverso le quali è possibile procedere alla tokenizzazione della carta nel mobile wallet:
i) tramite l’app di mobile banking dove è possibile aggiungere direttamente la carta, dato che i dati sono già disponibili;
ii) tramite l’app di mobile wallet con inserimento manuale dei dati. L’operazione di tokenizzazione della carta, essendo operazione compiuta a distanza ed idonea a comportare rischio di frodi ai sensi dell’articolo 10 – bis sopra menzionato, è soggetta all’obbligo di SCA.
Una volta effettuata la tokenizzazione della carta, l’operatività dei pagamenti, ivi compresa, la SCA viene gestita tramite i sistemi tecnici informatici offerti dal wallet provider al fornitore di servizi di pagamento. Le operazioni di pagamento sono soggette a SCA ai sensi dell’articolo 10 – bis, let. b) del D.Lgs 27 gennaio 2010, n. 11. L’European Banking Authority (EBA) ha però precisato che mentre è legittimo che i fornitori di servizi di pagamento esternalizzino la SCA, l’osservanza delle prescrizioni in materia di SCA non può essere esternalizzata dai fornitori di servizi di pagamento, che restano dunque responsabili affinchè avvenga la SCA e la conformità della stessa ai Regulatory Technical Standard del Regolamento UE 2018/839.
Di conseguenza, anche con riferimento ad operazioni di pagamento effettuate a mezzo mobile wallet, soggette ad obbligo di SCA ai sensi dell’articolo 10 – bis, let. b) del D.Lgs 27 gennaio 2010, n. 11, spetta al fornitore del servizio di pagamento la prova della avvenuta SCA non solo per la tokenizzazione delle carte ma anche per le operazioni compiute a mezzo del mobile wallet.
Il principio di diritto espresso dal Collegio di Coordinamento è il seguente: L’utilizzo di un wallet affidato a un terzo gestore per l’esecuzione di operazioni di pagamento non esime l’intermediario, in qualità di prestatore di servizi di pagamento, dall’onere di fornire prova dell’autenticazione forte delle operazioni compiute. La prova non può limitarsi alla fase di c.d. tokenizzazione della carta nel wallet, ma deve riguardare anche la fase esecutiva delle singole operazioni, non potendosi ritenere implicito che le transazioni siano state correttamente autenticate dal fatto che le stesse risultino autorizzate o comunque dalla sola evidenza che siano state effettuate in modalità contactless”.
LE SEZIONI UNITE CHIARISCONO POTERI E LIMITI DEL CTU.
Ancora sulla questione della rilevabilità d’ufficio o meno delle nullità della CTU già affrontata dalla Cassazione (14.04.2021 n. 9811) e più in particolare, sull’acquisizione di elementi di prova che non erano stati prodotti in giudizio dalle parti direttamente ad opera del CTU Cass. 14.04.2021 n. 9811.
Le Sezioni Unite si sono pronunciate delineando un ampio quadro sulla materia: non condividono il nuovo orientamento, confermano in parte l’orientamento tradizionale che affermava la rilevabilità solo su istanza di parte, ma lo approfondiscono e lo precisano ulteriormente.
Avevamo già dato conto in una precedente newsletter (cliccare qui) dell’ordinanza che aveva rimesso la questione all’esame delle Sezioni Unite. Il dubbio, che era stato sollevato già da una precedente sentenza (Cass. 6.12.2019 n. 31886), si incentrava sulle seguenti considerazioni:
– l’art. 183 c.p.c. stabilisce per le parti dei termini perentori per il deposito di documenti e la formulazione di istanza istruttorie;
– i documenti prodotti dalle parti oltre tali termini sono inammissibili e la loro tardività può essere rilevata anche d’ufficio;
– l’acquisizione da parte del CTU di documenti o di mezzi di prova non tempestivamente prodotti dalle parti rappresenterebbe un’analoga violazione delle preclusioni stabilite per le parti dall’art. 183 c.p.c. e, allo stesso modo, dovrebbe essere censurabile anche d’ufficio.
Le Sezioni Unite hanno svolto un ampio ragionamento, che prende le mosse dalla funzione del CTU, dal suo rapporto con il giudice e dal suo ruolo all’interno del processo; ne analizzano quindi i poteri ed i relativi limiti e concludono, infine, stabilendo le conseguenze e gli effetti processuali delle irregolarità eventualmente compiute dal CTU.
Innanzi tutto, le Sezioni Unite chiariscono che il CTU è un ausiliario del giudice, che lo supporta in tutti gli ambiti nei quali il giudice non possieda le necessarie competenze tecniche e scientifiche per esaminare adeguatamente il caso a lui assegnato. Di conseguenza, i poteri del CTU derivano direttamente da quelli del giudice e sono finalizzati “al solo scopo di far conoscere al giudice la verità”.
Come il giudice, pertanto, anche il CTU è soggetto ai principi che regolano il processo civile, ovverosia il principio della domanda (in base al quale il giudice si pronuncia solo sulle domande ed eccezioni delle parti) e il principio dispositivo (in base al quale il giudice decide sulla base delle prove fornite e richieste dalle parti). All’interno di tali parametri, tuttavia, residuano ampi poteri istruttori del giudice e, di riflesso, anche del CTU.
Il CTU, pertanto, non è soggetto agli stessi limiti né alle preclusioni processuali cui sono soggette le parti. E ciò è sufficiente a sgombrare il campo dal dubbio sollevato dalla citata sentenza della Corte di Cassazione e dall’ordinanza di rimessione.
Lo snodo successivo riguarda i poteri del CTU. Questi nell’esercizio del mandato ricevuto dal giudice, non può discostarsi dalle allegazioni delle parti né acquisire documenti o altri mezzi di prova che siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda o delle eccezioni volte a confutarla. Può, invece, acquisire documenti o altri mezzi di prova relativi a fatti secondari o ad elementi accessori a quelli, nella misura in cui siano necessari a rispondere ai quesiti posti dal giudice. E ciò indipendentemente dalla produzione delle parti e dai vincoli loro imposti, purché il CTU rispetti il principio del contraddittorio e, quindi, consenta alle parti e ai loro consulenti di esaminare e di confrontarsi sui documenti nuovi.
Laddove, dunque, il CTU acquisisca nuovi documenti nei limiti di cui sopra, rispettando il diritto di difesa nel contraddittorio tra le parti, la sua relazione non sarà viziata da nullità, in caso contrario la relazione sarà viziata da nullità relativa ai sensi dell’art. 157 c.p.c. e dovrà quindi essere eccepita dalle parti lese alla prima occasione utile.
Laddove, invece, il CTU acquisisca nuovi documenti oltre i limiti dei suoi poteri (perché si riferiscono ai fatti principali che fondano le domande o le eccezioni di parte), allora la sua relazione sarà viziata da nullità assoluta, rilevabile anche d’ufficio e, in difetto, censurabile in sede di impugnazione ai sensi dell’art. 161 c.p.c.
È POSSIBILE RITARDARE L’ENTRATA IN ESERCIZIO COMMERCIALE DI UN IMPIANTO INCENTIVATO?
Ai sensi del D.M. 4 luglio 2019 (“Decreto FER”), gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili accedono agli incentivi pubblici attraverso due diverse modalità, a seconda della potenza dell’impianto e del gruppo di appartenenza: (i) l’iscrizione ai registri e (ii) la partecipazione a procedure d’asta.
Gli impianti che risultano ammessi ai registri o in posizione utile nelle graduatorie delle aste possono presentare domanda di accesso agli incentivi entro 30 giorni dal termine massimo per l’entrata in esercizio previsto dal Decreto FER per le differenti fonti energetiche. In caso di superamento del termine per la presentazione della domanda di accesso agli incentivi, la richiesta tardiva (c.d. “fuori tempo”) comporta uno slittamento della data di entrata in esercizio, la riduzione del periodo di diritto all’incentivo nonché l’eventuale riduzione della tariffa o la decadenza dal diritto agli incentivi.
I meccanismi incentivanti (tariffe onnicomprensive, incentivo) sono erogati dal GSE a partire dalla data di entrata in esercizio commerciale, per un periodo specifico per ciascuna tipologia di impianto pari alla vita utile dell’impianto stesso. Ai sensi del D.M. 23 giugno 2016, la data di entrata in esercizio commerciale di un impianto corrisponde alla data comunicata dal produttore al GSE, a decorrere dalla quale ha inizio il periodo di incentivazione; differisce, quindi, dalla data di entrata in esercizio di un impianto, definita nel medesimo Decreto Ministeriale come il momento in cui, al termine dell’intervento di realizzazione delle opere funzionali all’esercizio dell’impianto, si effettua il primo funzionamento dell’impianto in parallelo con il sistema elettrico, così come risultante dal sistema GAUDÌ.
Come confermato anche dal nuovo Regolamento Operativo per l’accesso agli Incentivi del D.M. 4 luglio 2019 pubblicato dal GSE in data 31 gennaio 2022, la data di entrata in esercizio commerciale può essere scelta dall’operatore, purché compresa nei 18 mesi successivi all’entrata in esercizio dell’impianto.
La possibilità di differire la data di entrata in esercizio commerciale di un impianto aggiudicatario dell’incentivo pubblico rappresenta un’importante opportunità per il produttore di energia da fonti rinnovabili, dal momento che permette, per un primo periodo non superiore a 18 mesi, di vendere liberamente l’energia prodotta dall’impianto sul mercato privato attraverso la sottoscrizione di un PPA (Power Purchase Agreement) con un trader privato, ritardando l’inizio dell’incentivazione di cui alla Convenzione con il GSE. Differire l’entrata in esercizio commerciale rispetto all’entrata in esercizio permette all’operatore di non essere assoggettato, per il predetto periodo massimo di 18 mesi, all’obbligo restitutorio del differenziale nel caso in cui il prezzo zonale orario di mercato dell’energia elettrica sia superiore alla tariffa incentivante aggiudicata (art. 7, comma 7, del Decreto FER). In un momento di mercato dell’energia come quello attuale, in cui il prezzo di mercato è (e ci si aspetta che rimanga per il prossimo futuro) nettamente superiore all’incentivo aggiudicato, il differimento dell’inizio del meccanismo incentivante comporta, quindi, un potenziale vantaggio economico per i produttori di energia da fonte rinnovabile.
Ultimo aspetto che giova considerare è quello relativo al finanziamento degli impianti. Infatti, dal momento che la banca che finanzia il progetto si assume, seppur per il solo periodo iniziale non superiore a 18 mesi dall’entrata in esercizio, un rischio legato all’andamento di mercato del prezzo di vendita dell’energia senza il “paracadute” dell’incentivo pubblico, è possibile che la medesima richieda al produttore di applicare determinate condizioni ai PPA sottoscritti per il periodo anteriore all’entrata in esercizio commerciale, in termini di durata del contratto di vendita dell’energia elettrica, rating dell’acquirente, fideiussione a copertura del mancato pagamento dell’energia acquistata, diritto di step-in, etc.
m.patrignani@macchi-gangemi.com
m.dragone@macchi-gangemi.com
DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.
PER VISUALIZZARE LA NEWSLETTER PRECEDENTE DEL 4 FEBBRAIO 2022: