SWAP: “CONFUSIONE FRA OGGETTO O CONTENUTO DEL CONTRATTO, E LE INFORMAZIONI CHE L’INTERMEDIARIO È TENUTO A FORNIRE, PRIMA DELLA CONCLUSIONE DELLO SWAP”.
Il Tribunale di Torino disattende e rimodula i principi enucleati dalle Sezioni Unite in materia di derivati.
Con sentenza n. 673/2022 il Tribunale di Torino recepisce alcuni concetti noti agli operatori in tema di derivati e lungamente fraintesi dalla giurisprudenza che hanno consentito e consentono tutt’oggi un uso fazioso delle azioni risarcitorie promosse da investitori semplicemente scontenti dei propri investimenti.
Nel caso di specie, la società attrice aveva stipulato un interest rate swap (IRS) con decorrenza dal 31 marzo 2011 a copertura del rischio di tasso su un finanziamento ipotecario di durata decennale. La società attrice lamentava, fra l’altro, l’esistenza di un’alea contrattuale che avvantaggiava ab origine l’istituto creditizio, la circostanza che l’indebitamento fosse solo parzialmente correlato allo swap e che la soluzione più efficiente sarebbe stata un’opzione cap sui tassi di interesse che avrebbe coperto la società contro il rischio di rialzo del tasso a fronte del pagamento di un premio iniziale, dandole il diritto di incassare la differenza se positiva fra il parametro di riferimento e un livello prefissato di tasso (cd. strike). La società attrice deduceva, inoltre, che il costo dell’operazione avrebbe dovuto esserle corrisposto come upfront dalla banca per riequilibrare le prestazioni contrattuali.
Il Giudice torinese ha integralmente rigettato le richieste attoree, distillando brillantemente alcuni concetti in tema di derivati, di seguito sintetizzati.
– Finalità di copertura: il Giudice ribadisce come tale finalità sia soddisfatta quando esiste una elevata correlazione fra le caratteristiche tecnico-finanziarie dell’oggetto della copertura e lo swap. Non è necessaria una copertura integrale del rischio per l’intero capitale o per l’intera durata dell’operazione sottostante, ciò in base ad una lucida analisi delle delibere Consob e dei principi contabili in materia.
– Lo swap par non esiste: il Tribunale di Torino riconosce che, una volta valutata la possibilità per le parti contrattuali (in concreto, al momento della stipula del contratto) di maturare differenziali positivi, “è normale che il contratto di IRS esprima un valore negativo iniziale, in ragione del ‘settaggio’ dei parametri e del caricamento sulla struttura contrattuale dei costi di copertura e del margine dell’intermediario”. La banca non è tenuta a versare al cliente il MtM (mark to market, ossia il valore di mercato del derivato ad una certa data, frutto delle stime attese dai pagamenti futuri che le parti si scambieranno) negativo iniziale generato dalla presenza dei costi impliciti.
– Mark to market: a chiare lettere il Tribunale di Torino afferma (a ragione, a parere di chi scrive) che le statuizioni della Suprema Corte in tema di MtM siano “poco controllate”. La Suprema Corte, con sentenza n. 8770/2020, ritiene che il MtM esprima la “misura dell’alea” e che pertanto debba formare oggetto dell’accordo fra le parti. In mancanza di un accordo sull’alea contrattuale, il contratto sarebbe nullo. Il Tribunale di Torino osserva correttamente come la misura dell’alea non sia esterna alle condizioni economiche contrattuali di un contratto swap (nozionale, tasso, spread, eventuali opzioni e quant’altro), ma insita nelle stesse. Su tali condizioni economiche “l’accordo non manca mai”. Correttamente il Tribunale torinese rileva come la mancata comunicazione del MtM rappresenti una violazione degli standard di correttezza e trasparenza ex art. 21 TUF, ma non una causa di nullità del contratto, come sostenuto dalle Sezioni Unite.
– Metodo di pricing: l’elaborazione giurisprudenziale più recente della Suprema Corte (sentenza n. 21830/2021) richiede l’esplicitazione al cliente della “formula matematica” in base alla quale le parti attualizzano i futuri pagamenti in base ai contratti. Il Giudice torinese nota come la comprensione dei modelli matematici per il calcolo del MtM richieda conoscenze evolute e che la normativa Consob non preveda la comunicazione del modello di pricing di difficile comprensione per un operatore non professionale. Nel caso di un derivato IRS plain-vanilla (ovverosia di un derivato semplice che prevede lo scambio di un tasso contro un altro tasso) i risultati del calcolo sono convergenti ed omogenei nonostante i diversi metodo di calcolo. Il CTU nel caso di specie, interrogato sul punto, afferma che il MtM di un IRS plain vanilla è determinabile con metodo di comune e universale utilizzo (discounted cash flow) e che la correttezza del calcolo è verificabile da qualsiasi istituzione che disponga di una piattaforma Bloomberg o Reuters (o altra minore) o che comunque disponga dei dati storici necessari per il calcolo. Il principio enucleato dalla Suprema Corte dovrebbe pertanto trovare applicazione solo nel caso di derivati non-plain vanilla che presentano opzioni o altre componenti esotiche, per i quali non sia possibile ricorrere a quotazioni di mercato.
– Scenari probabilistici: la ‘probabilità’ di guadagno/perdita, in funzione dell’accadimento di eventi favorevoli o avversi al cliente, può essere oggetto di apprezzamenti e simulazioni di rendimento, che l’intermediario è professionalmente organizzato per elaborare, ma nessun intermediario è in grado di garantire che l’oscillazione dei parametri resterà all’interno della fascia di rischio rappresentata. Le dinamiche di fluttuazione di tali parametri (in specie, dei tassi di interesse) sono fuori dalla sfera di controllo degli intermediari, in assenza di una sfera di cristallo. Ad esempio, un derivato concluso a copertura del rialzo dei tassi d’interesse a marzo 2011 ignora che nell’inverno successivo si verificherà in Europa una crisi del debito sovrano, tra cui quello italiano, e che, nell’estate 2012, la Banca Centrale Europea deciderà di difendere l’Euro “whatever it takes”, immettendo liquidità sul mercato con acquisti massivi di titoli di Stato, che manterranno l’Euribor vicino allo zero, fino a spingerlo in territorio negativo. Si tratta, ancora una volta, di informazioni per giunta, incerte, e non dei patti contrattuali.
La normativa Consob raccomandava la comunicazione dell’“analisi di scenario di rendimenti” che vanno collocati nell’ambito dell’informativa da fornire al cliente e non nell’oggetto contrattuale. Nel caso specifico il Giudice ha ritenuto che tale informativa fosse stata resa al cliente.
Infine, il Tribunale, sulla base delle considerazioni del CTU, ha escluso nel caso di specie che un interest rate cap fosse consigliabile; tale scelta, inoltre, era stata prospettata al cliente che aveva preferito stipulare lo swap.
In conclusione, la sentenza in parola ha il pregio di evidenziare alcuni errori in cui è incorsa la giurisprudenza di legittimità nelle pronunce più recenti: gli elementi informativi dei contratti derivati non possono avere, e non è corretto che abbiano, ad opinione di chi scrive, riflessi sulla genesi del contratto, e come tali non possano generare l’annullamento del contratto derivato. Tuttavia, secondo il Giudice torinese, l’inesatto adempimento degli obblighi informativi da parte dell’intermediario dà egualmente titolo al cliente a rifiutare lo strumento proposto o consigliato e a rifiutarne le conseguenze giuridiche (ex art. 1711 c.c. pur riferito al mandato) e quindi ad agire per l’accertamento dell’inefficacia del contratto e la restituzione dei differenziali netti, oltre all’eventuale risarcimento del danno.
m.divincenzo@macchi-gangemi.com
LA CASSAZIONE AFFRONTA LA “RUSSIAN ROULETTE CLAUSE” … E NON DECIDE.
Avevamo già affrontato in una precedente newsletter (del 9.04.2021) la clausola della c.d. “russian roulette”, che può essere contenuta nello statuto sociale o in un patto parasociale. Si tratta – come si è visto – di una clausola “antistallo”, ovverosia volta a precostituire un meccanismo che superi situazioni in cui l’operatività della società potrebbe rimanere bloccata (la fattispecie tipica è quella di due soci al 50% che si trovino in disaccordo, con conseguente impossibilità dii approvare il bilancio o di rinnovare le cariche sociali).
Tale meccanismo, essenzialmente, prevede che un socio possa invitare l’altro a vendergli la propria partecipazione sociale ad un prezzo da lui stabilito, oppure ad acquistare la quota altrui allo stesso prezzo. Attraverso tale meccanismo si dovrebbe uscire dalla situazione di stallo, eliminando il contrasto tra i due soci (in realtà eliminando del tutto la pluralità dei soci) e preservando così le attività della società. Ed è stata in quest’ottica ritenuta valida da alcuni orientamenti notarili. Ma presenta altresì profili di criticità.
Nel precedente contributo della newsletter si era analizzata la sentenza della Corte di Appello di Roma 3.02.2020 n. 782 che, con una motivazione ampia ed argomentata, aveva riconosciuto la validità di una simile clausola.
Erano stati prospettati dalle società appellanti molteplici profili di invalidità della clausola, tra cui:
– per mancanza di un interesse meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c.
– per la determinazione unilaterale e arbitraria del prezzo, in violazione dell’art. 2437-terc. (o art. 2473 c.c. per le s.r.l.) e, più in generale, in violazione del principio dell’equa valorizzazione della partecipazione sociale in ogni caso in cui un socio sia tenuto, in forza di clausole statutarie o pattizie, ad alienare le proprie azioni;
– per violazione del divieto di patto leonino previsto dall’art. 2265 c.c.,
tutti però disattesi dai giudici di secondo grado.
Quella sentenza è stata impugnata ed è venuta ora all’esame della Corte di Cassazione. La Suprema Corte, tuttavia, all’esito della camera di consiglio del 3.02.2022, con ordinanza interlocutoria 29.04.2022 n. 13545, “anche in relazione all’assoluta novità e complessità delle questioni sollevate”, ha ritenuto necessario approfondire la questione, dando incarico all’Ufficio del Massimario di studiare il “quadro normativo, giurisprudenziale e dottrinale, anche statunitense e canadese per quanto possibile” relativo alla clausola in oggetto.
Una simile decisione, pur nel suo carattere di eccezionalità, non è rarissima (è stata adottata circa 90 volte negli ultimi quattro anni). Sorprende, piuttosto, che la causa sia stata chiamata alla camera di consiglio a soli due anni esatti dal deposito della sentenza impugnata. Anche il giudizio di appello, peraltro, era stato piuttosto rapido rispetto ai tempi medi della Corte di Appello di Roma.
Una particolare menzione merita anche l’attenzione posta, nell’ordinanza in esame, alla normativa e alla prassi di ordinamenti stranieri. Anche questo atteggiamento è sempre più frequente da parte della giurisprudenza, che si mostra sensibile ad un contesto normativo di respiro internazionale, sempre più permeabile ad istituti provenienti da altri paesi (e ciò non solo negli ambiti del diritto societario, finanziario o dei contratti di impresa, ma anche della responsabilità civile – si pensi ai c.d. punitive damages – o al diritto di famiglia – si pensi alle proposte avanzate in tema di accordi prematrimoniali).
E tuttavia, alla luce delle evidenti perplessità mostrate dalla Suprema Corte e nelle more degli approfondimenti da questa richiesti, conviene suggerire un approccio molto prudente laddove si intenda introdurre una clausola di questo tipo all’interno di uno statuto sociale o di concordarla in un patto parasociale.
Resta l’auspicio che i tempi rapidi che hanno contrassegnato sinora il giudizio in esame caratterizzino anche gli approfondimenti dell’Ufficio del Massimario e che la Suprema Corte chiarisca presto il proprio orientamento in proposito, fornendo un parametro stabile di riferimento in tutte le situazioni in cui una simile clausola potrebbe trovare applicazione.
NOTIFICAZIONE E SMARRIMENTO DELL’ORIGINALE DELL’AVVISO DI RICEVIMENTO: IL DUPLICATO NON FIRMATO DAL DESTINATARIO HA VALORE?
Se si notifica un atto a mezzo servizio postale e poi l’avviso di ricevimento del plico viene smarrito o distrutto, è comunque possibile provare che la notificazione è andata a buon fine anche se nel duplicato manca la firma del destinatario?
Con una recentissima ordinanza del 02.05.2022 (n° 13798) la Corte di Cassazione, Sezione VI Civile, è intervenuta sulla validità del duplicato dell’avviso di ricevimento della raccomandata, ribadendo un principio che era già stato espresso in passato: tale duplicato è sufficiente per provare la ricezione del plico anche se non riporta la sottoscrizione del soggetto a mani del quale la consegna è stata eseguita.
Il caso concreto: veniva proposta opposizione ad una cartella esattoriale emessa per la violazione al Codice della Strada sia con ricorso innanzi al Prefetto che con atto di citazione davanti al Giudice di Pace; l’opposizione veniva respinta in entrambe le sedi e quindi impugnata innanzi al Tribunale che, nuovamente, rispingeva l’impugnazione.
Le ragioni? Il ricorrente non aveva dato prova del rituale inoltro del ricorso al Prefetto avendo prodotto in giudizio il mero duplicato della cartolina postale di ricezione della raccomandata privo di sottoscrizione del destinatario e come tale non sufficiente a dimostrare l’iniziale tempestiva opposizione.
La parte soccombente impugnava la decisione con ricorso per Cassazione contestando la violazione o falsa applicazione dell’art. 8 DPR N. 655/82.
Per le considerazioni che verranno più oltre svolte è utile riportare qui di seguito il testo di tale norma:
“1. L’agente postale che consegna un oggetto con avviso di ricevimento fa firmare quest’ultimo dal destinatario; se il destinatario rifiuta di firmare, è sufficiente, ai fini della prova dell’avvenuta consegna, che l’agente postale apponga sull’avviso stesso la relativa dichiarazione. 2. L’avviso di ricevimento, così completato, viene rispedito subito all’interessato. 3. In caso di smarrimento dell’avviso l’interessato non ha diritto ad alcuna indennità, ma può richiedere all’Amministrazione che gli venga rilasciato gratuitamente un duplicato dell’avviso stesso firmato dal destinatario o munito della dichiarazione di cui al primo comma.”
Tornando al caso di specie, i Giudici del Supremo Collegio accoglievano l’impugnazione sulla scorta di decisioni già intervenute sull’argomento e proponendo una piena applicazione dell’art. 8 sopra citato.
Questo l’iter argomentativo proposto dalla Corte: viene innanzitutto richiamato un risalente precedente per il quale il duplicato dell’avviso di ricevimento non richiede affatto, per la sua efficacia, la sottoscrizione della persona cui il piego viene consegnato, essendo invece “… essenziale che il duplicato stesso riproduca tutte le indicazioni che debbono essere contenute nell’avviso di ricevimento facendo anche menzione della persona che ha ricevuto il piego …” (così in motivazione con richiamo a Cass. Civ. Sez. 1, 25.10.1956, n. 3920).
Allorché tale duplicato riproduca in modo conforme il contenuto dell’originale, il duplicato medesimo fa piena prova “… in ordine alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che l’agente postale attesta essere avvenuti in sua presenza …” ai sensi dell’art. 2700 c.c. (v. motivazione con richiamo a Cass. Civ. Sez. V, 15.10.2020, n. 22348), tanto che il destinatario che intende contestare l’avvenuta notificazione ha l’onere di proporre querela di falso.
L’ordinanza in commento chiarisce, dunque, che il duplicato dell’avviso di ricevimento non deve necessariamente essere corredato dalla firma del destinatario perché è il registro di consegna presso l’Ufficio Postale, dal quale vengono estratti i dati dell’avviso originale, che assume rilevanza per dimostrare l’avvenuta ricezione dell’atto (v. Cass. Civ. Sez. Trib. 06.06.2018, n. 14574 in Giust. Civ. Mass. 2018).
Il duplicato diviene così una riproduzione fedele di tale registro che, ovviamente, riporta anche il soggetto che ha ricevuto la notifica.
Conclude, perciò, la Corte che in caso di smarrimento o distruzione dell’avviso di ricevimento, l’avvenuta ricezione del plico può essere provata attraverso il duplicato rilasciato dall’Ufficio postale ai sensi dell’art. 8 del DPR n. 655/82 anche se sprovvisto di sottoscrizione del destinatario.
In effetti, la soluzione proposta dalla Corte di legittimità é in linea con la lettera del comma 3° della norma sopra citata che, in assenza dell’originale dell’avviso, permette all’interessato di chiedere all’agente postale di dichiarare (attestare) su un duplicato fatti avvenuti in sua presenza, ovvero il rifiuto a firmare in un caso (comma 1°), l’effettiva consegna del plico nell’altro (comma 3°), ed in simili ipotesi la firma del destinatario non è mai richiesta.
In sintesi, il duplicato dell’avviso non firmato dal destinatario può comunque attestare la valida notificazione di un atto.
e.storari@macchi-gangemi.com
g.briggi@macchi-gangemi.com
FUSIONE DELLE SPECIAL PURPOSE ACQUISITION COMPANY E DELLE SOCIETÀ VEICOLO NELLE OPERAZIONI DI MERGER LEVERAGE BUY-OUT: I RECENTISSIMI CHIARIMENTI DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE SUL RIPORTO DELLE PERDITE FISCALI.
Con le risposte agli interpelli n. 234 e 235 del 28 aprile 2022, l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in merito al riporto delle perdite fiscali nel caso di fusione delle SPAC e delle SPV nelle operazioni di MLBO. Il diritto al riporto delle perdite fiscali è condizionato, evidenzia l’Agenzia delle Entrate, alla permanenza di condizioni di vitalità economica delle società in perdita, al fine di verificare che la società portatrice di perdite fiscali pregresse (e delle altre posizioni soggettive passive) non si sia depotenziata precedentemente all’operazione di fusione.
La disciplina delle perdite fiscali nelle operazioni di fusione, contenuta nell’art. 172, comma 7 del TUIR, limita la possibilità di ripotare le perdite fiscali, per contrastare la realizzazione di operazioni con società prive di capacità produttiva poste in essere al fine di attuare la compensazione intersoggettiva delle perdite fiscali di una società con gli utili imponibili dell’altra, introducendo un divieto al riporto delle stesse (nonché degli interessi passivi indeducibili ex art. 96 del TUIR e delle eccedenze ACE) nel caso in cui non sussistano le condizioni di solidità patrimoniale e vitalità economica previste dalla norma.
Il legislatore ha, infatti, previsto che le perdite fiscali delle società che partecipano all’operazione, compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante per la parte del loro ammontare che non eccede quello del patrimonio netto (ridotto dell’importo di eventuali ricapitalizzazioni poste in essere nei ventiquattro mesi precedenti) della società che riporta le perdite, quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale redatta ai sensi dell’art. 2501-quater del codice civile.
In tale scenario, secondo i recenti chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate, è condizionato alla permanenza di condizioni di vitalità economica delle società in perdita, al fine di verificare che la società portatrice di perdite fiscali pregresse (e delle altre posizioni soggettive passive) non si sia depotenziata precedentemente all’operazione di fusione.
Ne consegue che, in un’ottica antielusiva, i requisiti minimi di vitalità economica devono sussistere non solo nel periodo precedente alla delibera di fusione bensì devono continuare a permanere fino al momento in cui la fusione viene attuata, cioè fino alla data della sua efficacia giuridica.
La stessa disposizione, infatti, verrebbe privata della sua portata antielusiva qualora fosse consentito il riporto delle perdite fiscali ad una società che è stata completamente depotenziata nell’arco di tempo intercorrente fra la chiusura dell’esercizio precedente alla delibera di fusione (come emerge dal dato letterale della norma) e la data di efficacia giuridica dell’operazione medesima.
Tuttavia, ciò non toglie che:
a) per quel che riguarda le fusioni societarie che interessano le “Special Purpose Acquisition Company” (“SPAC”), si considera disapplicabile il disposto dell’art. 172, comma 7 del TUIR poiché questa tipologia di società veicolo può considerarsi “vitale”, pur non avendo generato ricavi, se gestisce e porta a termine le attività necessarie per concludere con successo la fusione con la società “target”;
b) si considera disapplicabile il disposto dell’art. 172, comma 7 del TUIR anche nel caso delle fusioni delle Società Veicolo (“SPV”) nelle operazioni di “merger leverage buy-out” (“MLBO”), posto che le SPV si considerano “vitali” in quanto svolgono le funzioni strumentali alla realizzazione dell’MLBO nel suo complesso.
In questi casi, quindi, per il riporto delle perdite fiscali (nonché degli interessi passivi indeducibili ex art. 96 del TUIR e delle eccedenze ACE) in sede di fusione non occorre che venga rispettato il c.d. “test di vitalità” ed il “limite del patrimonio netto” previsto dall’art. 172, comma 7 del TUIR.
L’Agenzia delle Entrate, in ogni caso, conclude ricordando che resta impregiudicato, ai sensi dell’art. 10-bis della Legge n. 212/2000, ogni potere di controllo dell’Amministrazione finanziaria volto a verificare se l’operazione in esame ed eventuali altri atti, fatti o negozi ad essa collegati e non rappresentati nell’istanza di interpello si inseriscano in un più ampio disegno abusivo e, pertanto, censurabile.
a.salvatore@macchi-gangemi.com
f.dicesare@macchi-gangemi.com
DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.
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