COME DISTINGUERE I VIZI DELLA COSA VENDUTA O LA MANCANZA DELLE QUALITÀ PROMESSE DALLA VENDITA DI ALIUD PRO ALIO.
Non è sempre agevole distinguere quando ricorre il vizio della cosa venduta o se, invece, si è in presenza di una vendita di aliud pro alio; anche recentemente la giurisprudenza è intervenuta sul punto per fare chiarezza anche sulle azioni accordate all’acquirente nell’una o nell’altra ipotesi.
Come noto, la disciplina sui vizi della cosa venduta è prevista dagli articoli che vanno dal 1490 al 1497 del Codice civile; la materia è ulteriormente regolata dal Codice del Consumo (art. 128 e ss. C.d.C.) ma limitatamente ai contratti conclusi con i consumatori.
Diverse sono le contestazioni che l’acquirente può muovere contro il venditore in relazione al bene compravenduto.
La prima: è quella disciplinata dall’art. 1490 c.c. secondo cui la garanzia può essere invocata in caso di “vizi che … rendano [la cosa – ndr] inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore”; la seconda è invece descritta dall’art. 1497 c.c. che regola i casi in cui i difetti materiali del bene siano costituiti da una mancanza di qualità, siano esse le qualità promesse dal venditore ovvero le qualità che sono irrinunciabili per perseguire lo scopo per il quale la cosa è destinata; vi è quindi una terza contestazione che l’acquirente può indirizzare al venditore allorché il bene venduto sia del tutto diverso da quello pattuito nel contratto: è la vendita di aliud pro alio.
Se in ambito consumeristico le tre ipotesi ora illustrate sono condensate in un’unica norma (art. 129 del Codice del Consumo – Conformità dei beni al contratto), per le vendite concluse tra i “professionisti”, quindi non consumatori, una disciplina della vendita di aliud pro alio non c’è; così, per comprendere fin dove si spingono le responsabilità del venditore e quali sono i rimedi accordati al compratore occorre rifarsi alle pronunce della giurisprudenza e ai contributi della dottrina secondo cui, in presenza di una vendita di aliud pro alio, il compratore può agire secondo le più generali norme dell’inadempimento contrattuale senza essere stretto nel rigido termine di otto giorni per la denuncia del vizio (decadenza del diritto alla garanzia – art. 1495 co. 1 c.c.) o in quello di un anno per agire in giudizio (prescrizione dell’azione contro il venditore – art. 1495 co. 3 c.c.).
Nella vendita di aliud pro alio, invece, tali termini vengono sostituiti dalla prescrizione ordinaria decennale prevista dall’art. 2946 c.c. applicabile ai casi di risoluzione per inadempimento (art. 1453 c.c.).
Come distinguere le tre ipotesi sopra descritte?
Secondo la Corte di Cassazione il vizio di cui all’art. 1490 c.c. investe imperfezioni e difetti riconducibili al processo di produzione, fabbricazione, formazione e conservazione della cosa, mentre la mancanza delle qualità promesse (art. 1497 c.c.) incide sulla natura del bene compravenduto o comunque su tutti gli elementi essenziali e sostanziali che influiscono sull’appartenenza di quel bene ad una determinata specie piuttosto che ad un’altra, sempre però all’interno dello stesso genere.
Ricorre, invece, la vendita di aliud pro alio se la cosa consegnata all’acquirente appartiene ad un genere – non specie – del tutto diverso dal bene contemplato nel contrato e in tale contesto le difformità tra quanto promesso e quanto consegnato sono così macroscopiche che il bene non può assolvere alla sua funzione naturale o a quella ritenuta essenziale dalle parti (Cass Civ. sez. II, 05.04.2016, n. 6596, Cass. Civ, Sez, I, 05.06.2016, n. 2313; più recente Cass. Civ. Sez. II, 08.06.2022, n. 18528).
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SWAP STIPULATI CON ENTI LOCALI: LA CORTE DEI CONTI DICHIARA IL DIFETTO DI GIURISDIZIONE NEI CONFRONTI DELLE BANCHE.
Con sentenza n. 221 del 6 settembre 2022 la Corte dei Conti, in linea con un orientamento giurisprudenziale che si sta consolidando dinanzi al giudice contabile, ha sancito la carenza di giurisdizione nei confronti delle banche coinvolte nel giudizio di responsabilità erariale esercitato dalla Procura Regionale per la Regione Lombardia in relazione a quattro contratti derivati di interest rate swap stipulati nell’ambito di un’operazione di ristrutturazione del debito fra il 2006 e il 2007 da Deutsche Bank e Dexia Crediop con l’Amministrazione Provinciale di Brescia, ritenuti asseritamente diseconomici, non convenienti ed inefficienti in quanto non adeguati alla copertura dei rischi.
Nella tesi del requirente, i contratti swap, in base agli scenari prevedibili alla stipula, sarebbero stati fortemente diseconomici e caratterizzati da uno squilibrio iniziale sfavorevole per la Provincia dato dal valore iniziale negativo (cd. mark to market) non riequilibrato con il pagamento di una somma upfront da parte delle banche alla Provincia. Ciò avrebbe generato una nullità dei contratti per vizio di causa.
Tale diseconomicità e lo squilibrio contrattuale iniziale avrebbero causato una crescente esposizione negativa dell’Ente provinciale a causa dei flussi di pagamento negativi sempre maggiori corrisposti dalla Provincia a Deutsche Bank e Dexia, chiamate a rifondere nel giudizio in parola rispettivamente € 17.939.846,99 ed € 17.862.226,68, corrispondenti ai flussi finanziari negativi pagati dall’Ente locale in forza dei contratti derivati. In via subordinata, il PM ha chiesto il risarcimento per i costi impliciti presenti al momento della stipula dei contratti, rispettivamente per € 1.746.840,06 ed € 1.748.831,91.
Peraltro, nel 2016, la Provincia di Brescia aveva avviato nei confronti delle Banche un’azione di risarcimento del danno dinanzi al Tribunale di Roma ed aveva agito per l’annullamento dei contratti davanti al Tribunale di Brescia. Tuttavia, stante la priorità temporale delle azioni proposte dalle banche dinanzi alla High Court of Justice di Londra per accertare e dichiarare la validità dei contratti derivati e considerato altresì che la giurisdizione del giudice italiano era avversata dalle banche con ricorso alla Corte di Cassazione, la controversia si spostava davanti all’autorità giudiziaria inglese.
Nel 2017, dopo un esame della giurisprudenza britannica in materia di derivati e al fine di contenere le elevate spese processuali, la Provincia perveniva ad accordi transattivi con le controparti bancarie, i quali hanno comportato l’abbandono dei giudizi civili pendenti in Italia e in Inghilterra con rinuncia a ulteriori pretese risarcitorie, il riconoscimento della validità ed efficacia dei contratti derivati e, da parte di Deutsche Bank, il pagamento di un contributo di 1.050.000 euro in favore dell’Ente locale. Malgrado gli accordi transattivi, la Corte ha segnalato in sentenza l’attuale pendenza di nuove azioni davanti al giudice italiano e a quello inglese.
La Corte lombarda, applicando i principi già enucleati dalla giurisprudenza contabile che si è occupata di casi analoghi (in particolare, il caso riguardante Morgan Stanley per i contratti derivati stipulati con il MEF, Cass. SS. UU. n. 2157/2021, ed un caso più recente riguardante i contratti derivati stipulati dalla Regione Basilicata, Corte dei Conti, n. 2/2022), ha concluso che nel caso di specie difetta la giurisdizione del giudice contabile per diversi ordini di motivi.
Innanzitutto, la Corte ha precisato che il ruolo di consulente assunto dalle banche ha natura privatistica e, per sé solo, non prova l’instaurarsi del rapporto di servizio, necessario presupposto ai fini dell’esercizio dell’azione di responsabilità erariale nei confronti dell’extraneus alla P.A.
Nel caso di specie, la Procura non ha fornito elementi probatori idonei a dimostrare che, in concreto, le banche si sarebbero inserite nella struttura organizzativa del soggetto pubblico e si sarebbero surrogate a quest’ultimo o, quanto meno, ne avrebbero orientato in maniera determinante le scelte amministrative aventi ad oggetto la ristrutturazione e la gestione dell’indebitamento attraverso la stipula dei contratti swap.
Difatti:
– le proposte delle banche di gestione attiva del debito provinciale e la manifestazione di interesse per il ruolo di consulente non costituiscono prova dell’esistenza del rapporto di servizio, ma erano delle offerte contrattuali che l’Ente pubblico era libero di accogliere o meno esercitando appieno i propri poteri discrezionali;
– anche gli scambi di corrispondenza fra una delle banche e il dirigente provinciale competente pur rivelando nel caso di specie la partecipazione di una delle banche coinvolte nella stesura delle bozza della determinazione dirigenziale in relazione alle operazioni in questione e alle deliberazioni del Consiglio e della Giunta, sono ritenuti dalla Corte come “testi di contenuto tecnico, alla cui redazione nella prassi è solito partecipi anche il consulente che dovrà svolgere l’attività in questione”, testi comunque scaturiti da un confronto e discussioni fra soggetto pubblico e privato, pertanto non idonei a testimoniare la presenza del rapporto di servizio fra banche ed amministrazione;
– nemmeno la circostanza che la Provincia abbia stipulato gli swaps solo dopo aver ricevuto le proposte delle banche dimostra l’incardinamento delle banche consulenti nell’organizzazione ammnistrativa in quanto la decisione di concludere i contratti derivati è un’autonoma esplicazione della volontà dell’Ente di garantirsi dalle oscillazioni dei tassi, giudicando efficace la strategia proposta dagli consulenti;
– la presenza delle clausole contrattuali contenute nel mandato di consulenza e nei contratti swap nelle quali la Provincia affermava di aver assunto le proprie decisioni in modo indipendente e di valutare a suo insindacabile giudizio l’adeguatezza ai propri fini dei contratti, non hanno carattere meramente formale, come sostenuto dal PM. “Il chiaro tenore letterale, la consapevole sottoscrizione delle stesse e la considerazione che il loro contenuto ha trovato un successivo riscontro attraverso le dichiarazioni fatte dalla stessa Provincia negli accordi transattivi del 2017 depongono infatti contro la tesi che si sarebbe al cospetto di mere clausole di stile, dovendo invece attribuirsi alle stesse – mancando una prova contraria – anche una valenza sostanziale.”;
– la Procura, inoltre, non ha fornito alcun elemento che dimostri un deficit di professionalità e competenza della Provincia in materia e che la dichiarazione di operatore qualificato rilasciata dalla Provincia alle banche ai sensi dell’art. 31 del Regolamento Consob n. 11522/1998 all’epoca vigente, non fosse veridica o erronea. Non risulta nel caso di specie, alcuna attività istruttoria per accertare che la Provincia non avesse specifiche competenze ed esperienze (ad esempio, la Procura non ha acquisito il ruolo funzionale del personale in servizio, né ha verificato se, quali e quante operazioni finanziarie fossero state compiute in passato). “Del resto, se fosse sufficiente desumere la prova del deficit di adeguate professionalità nel campo finanziario soltanto dal fatto che l’Ente si è rivolto agli advisors, allora tutte le volte che una P.A. ricorre ad un consulente si dovrebbe supporre che questo venga automaticamente incardinato nella sua organizzazione: il che, naturalmente, non corrisponde al vero!”.
Nella fattispecie, pertanto, la Corte dei Conti ha escluso che tra l’Ente provinciale e gli Istituti convenuti si fosse instaurato un rapporto di servizio, dovendosi più correttamente configurare un rapporto contrattuale di natura privatistica, le cui eventuali violazioni danno luogo a forme di responsabilità civile che rientrano nella sfera di cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria. Di conseguenza, la Corte dei Conti della Regione Lombardia ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice contabile nei confronti delle banche.
m.divincenzo@macchi-gangemi.com
LE MILLE SFUMATURE DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA.
Le controversie in materia di intermediazione finanziaria hanno raggiunto, pur nel grado di sofisticata complessità che le caratterizza, un assetto ormai consolidato nella giurisprudenza. Due recenti pronunce della Suprema Corte suggeriscono di soffermarsi su due aspetti centrali che, come si vedrà, meritano ancora un approfondimento:
1. il primo, che ha carattere formale, consiste nell’obbligo di forma scritta;
2. il secondo, che ha carattere sostanziale, consiste negli obblighi informativi.
1. Come noto, la normativa di volta in volta succedutasi ha sempre previsto la necessità della forma scritta per il c.d. contratto quadro nonché, al ricorrere di determinati parametri di rischio dell’investimento, anche dei singoli ordini di acquisto. In un caso deciso di recente dalla Suprema Corte (Cass. 29.09.2022 n. 28377), i risparmiatori avevano chiesto la nullità di un contratto (e dei successivi ordini di acquisto) proprio eccependo la mancanza della forma scritta. Poiché, però, la banca ha allora debitamente prodotto in giudizio una copia del contratto quadro, il Tribunale ha rigettato la domanda.
A fronte della sentenza di rigetto in primo grado, il risparmiatore ha eccepito però – per la prima volta in appello – la nullità del contratto per la mancanza sottoscrizione da parte della banca intermediaria e la Corte di Appello ha ritenuto tale eccezione inammissibile in quanto nuova, ai sensi dell’art. 345, comma 1 c.p.c..
La Suprema Corte, invece, ha ritenuto che i giudici del gravame avrebbero dovuto non solo ritenere l’eccezione ammissibile ai sensi dell’art. 345, comma 2 c.p.c. – in quanto l’eccezione di nullità, anche per le nullità c.d. “di protezione”, è rilevabile anche d’ufficio, – ma invitare le parti a dedurre sul punto ai sensi dell’art. 101, comma 2 c.p.c. (disposizione che, come noto, regola appunto la fattispecie in cui il giudice ritenga di porre a fondamento della propria decisione un’eccezione rilevata d’ufficio). Ed ha cassato la sentenza con rinvio ad altro collegio della Corte di Appello.
La decisione, se pure corretta da un punto di vista di diritto processuale, lascia però perplessi: la giurisprudenza costante ritiene ormai che la mancanza di sottoscrizione della banca non comporti la nullità del contratto (c.d. ”contratti monofirma”, cfr. Cass. S.U. 16.01.2018 n. 898 e Cass. 2.04.2021 n. 9196); ora tale principio dovrà essere valutato dalla Corte di Appello in sede di rinvio, dopo circa sei anni trascorsi in Cassazione (di cui quasi due anni tra la data della camera di consiglio e quella di pubblicazione della sentenza).
2. Con riferimento agli obblighi informativi, invece, da parte della Suprema Corte (Cass. 11.10.2022 n. 29616) si segnala un approccio rigoroso e, al tempo stesso, attento alla sostanza e alla effettività della tutela del risparmiatore, laddove premette che “la pluralità di obblighi (di diligenza, di correttezza e trasparenza, di informazione, di evidenziazione dell’operazione che si va a compiere) previsti dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, comma 1, lett. a) e b), art. 28, comma 2 e art. 29 del Reg. CONSOB n. 11522 del 1998 (applicabile ‘ratione temporis’) e facenti capo ai soggetti abilitati a compiere operazioni finanziarie, convergono verso un fine unitario, consistente nel segnalare all’investitore, in relazione alla sua accertata propensione al rischio, la non adeguatezza delle operazioni di investimento che si accinge a compiere”: è la c.d. “suitability rule”, che si lega agli ulteriori obblighi posti dalle c.d. “know you customer rule” e “know your product rule”.
Spetta all’intermediario finanziario, in caso di contestazioni sollevate dal risparmiatore, l’onere di dimostrare di aver adempiuto ai propri obblighi informativi (il fatto che il risparmiatore abbia dato il proprio ordine di acquisto in forma scritta fa solo presumere che sia stato informato, ma non esonera l’intermediario dalla prova). A tale riguardo, la sentenza in esame dà rilievo non solo alla documentazione scritta consegnata dalla banca, ma anche alle informazioni fornite a voce dal funzionario della banca.
Le conclusioni di questa seconda decisione della Suprema Corte appaiono condivisibili. Da un lato si delinea un quadro completo ed effettivo a tutela del risparmiatore, nel quale l’intermediario non deve solo informare, ma anche informarsi ed arrivare ad una valutazione di adeguatezza. Dall’altro lato, proprio in un’ottica di effettività, si valorizza non solo l’elemento formale – della documentazione scritta – ma anche quello sostanziale: quello orale e, si può dire, personale dell’informazione che, attraverso il funzionario della banca, dovrebbe essere il centro e il fulcro dei rapporti tra risparmiatore e intermediario.
NON IMPONIBILITÀ DELLE CESSIONI DI BENI E PRESTAZIONI DI SERVIZI EFFETTUATE NEI CONFRONTI DI DIPENDENTI DI ENTI E ORGANISMI INTERNAZIONALI.
Con la risposta a interpello n. 495 del 5 ottobre 2022, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto ammissibile una richiesta di rimborso IVA formulata da un funzionario di un organismo internazionale non avente sede in Italia relativa all’acquisto di beni per uso personale effettuati nel territorio dello Stato, considerato il regime di non imponibilità previsto, a condizioni di reciprocità, dall’articolo 151 della Direttiva 2006/112/CE (c.d. “Direttiva IVA”) per le cessioni di tali beni.
La richiesta dell’istante veniva supportata dalla disponibilità dell’apposito certificato, rilasciato dalle competenti autorità del Paese UE ospitante l’organismo internazionale, attestante i requisiti per il diritto all’esenzione.
Ai sensi dell’articolo 151, paragrafo 1, lett. b) della Direttiva IVA sono infatti esentate: “le cessioni di beni e le prestazioni di servizi destinate alle organizzazioni internazionali (…) dello Stato membro ospitante e ai membri di tali organizzazioni, alle condizioni e nei limiti fissati dalle convenzioni internazionali che istituiscono tali organizzazioni o dagli accordi di sede”.
La medesima disposizione è rinvenibile nella disciplina domestica all’articolo 72, comma 1, lettera f) del D.P.R. n. 633/1972.
Il quadro normativo è completato dall’articolo 51 del Regolamento di esecuzione (UE) n. 282/2011 secondo cui il regime di non imponibilità è subordinato al rilascio di un apposito certificato da parte delle autorità competenti dello Stato UE in cui il soggetto richiedente è stabilito (c.d. “certificato di esenzione dall’IVA”).
In altre parole, sono le autorità competenti dello Stato membro ospitante l’organismo internazionale a dover valutare la spettanza delle esenzioni IVA e, se del caso, rilasciare il certificato di esenzione, ovvero concedere la dispensa in conformità al predetto Regolamento n. 282/2011.
Sulla base di quanto sopra, nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate, una volta appurato che il certificato di esenzione prodotto in fase di istruttoria era conforme a quello previsto dal Regolamento n. 282/2011, ha ritenuto idonei alla fruizione del beneficio IVA gli acquisti di beni per uso personale effettuati in Italia e, pertanto, ha accolto la richiesta di rimborso presentata dall’istante.
Tale risposta integra i precedenti chiarimenti ufficiali forniti con la risposta a interpello n. 45/2021 in cui l’Agenzia delle Entrate si era già espressa sul regime IVA applicabile alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nei confronti degli organismi internazionali riconosciuti.
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DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.
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