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RIDUZIONE DEL CAPITALE SOCIALE A COPERTURA PARZIALE DI PERDITE SUPERIORI AD UN TERZO, UNA NUOVA PROSPETTIVA?

 

La Massima n. 204 del Consiglio Notarile di Milano del 5 luglio 2022 interviene sull’interpretazione dei provvedimenti attuabili nel caso di realizzazione da parte di S.p.A. e di S.r.l. di perdite superiori ad un terzo del capitale sociale, ma che non intacchino il minimo legale.

 

In queste circostanze, ai sensi degli articoli 2446 per le S.p.A., e 2482-bis per le S.r.l., del Codice Civile, è necessario che l’organo gestorio, convochi l’assemblea dei soci per esporre la situazione patrimoniale della società, attraverso una relazione contenente le osservazioni dell’organo di controllo, e poter prendere gli opportuni provvedimenti nel cosiddetto “periodo di grazia” ossia quel periodo che intercorre tra l’accertamento della perdita e l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo.

 

In tale secondo momento, infatti, qualora la perdita risultasse ancora superiore ad un terzo del capitale occorrerà procedere ad una riduzione dello stesso in proporzione delle perdite accertate.

 

Finora dottrina e giurisprudenza prevalenti sono state concordi nel prevedere che, nelle circostanze di cui ai predetti articoli, vi fossero solo due possibilità per i soci ossia: rinviare le perdite a nuovo, o procedere direttamente alla copertura della perdita in misura integrale.

 

Questa consolidata interpretazione si basa su un duplice ordine di motivi:

 

– il tenore letterale della norma, che prevederebbe un’identità tra perdita e riduzione del capitale sociale; e

 

– il rischio di elusione del sistema di allarmi previsto dagli articoli 2446 e 2482-bis del Codice Civile tramite delle coperture parziali della perdita volte a nascondere la reale situazione patrimoniale della società ai terzi.

 

La Massima interviene proprio su questa interpretazione, prevedendo la possibilità per i soci di intervenire, nel corso del “periodo di grazia”, per coprire la perdita anche effettuando riduzioni parziali del capitale sociale.

 

Il Consiglio Notarile riconosce infatti in capo ai soci una piena libertà di movimento per la copertura della perdita durante il periodo di grazia affermando che la copertura integrale della perdita assurge ad obbligo soltanto nel caso in cui le perdite non risultino riassorbite, nella misura di un terzo del capitale, entro l’assemblea di approvazione del bilancio dell’esercizio successivo.

 

La Massima asserisce inoltre che il pericolo elusorio paventato da giurisprudenza e dottrina sia in realtà privo di fondamento in quanto la copertura parziale attraverso le riduzioni del capitale sociale è sottoposta ad un regime di pubblicità legale, che salvaguarda l’interesse dei terzi.

 

Infine, la Massima precisa che tale interpretazione non incide sulla disciplina relativamente alle perdite sterilizzate registrate negli esercizi al 31 dicembre 2020 e/o 31 dicembre 2021, per le quali si applica la normativa emergenziale della Legge n. 178/2020 che prevede la sospensione per i cinque esercizi successivi delle previsioni relative agli obblighi di copertura delle perdite maturate in tali esercizi e della causa di scioglimento di cui all’articolo 2484 co. 1, n. 4 del Codice Civile.

 

 

p.orzalesi@macchi-gangemi.com
a.frau@macchi-gangemi.com
g.magistrali@macchi-gangemi.com

 

 

 

COMPOSIZIONE NEGOZIATA: È POSSIBILE ACCEDERE AL CONCORDATO SEMPLIFICATO SE RISULTA PRATICABILE UN ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI CON TRANSAZIONE FISCALE?

 

Il Tribunale di Bergamo ha recentemente rigettato una proposta di concordato liquidatorio semplificato presentata da una società al termine delle trattative svolte nell’ambito di una procedura di composizione negoziata della crisi, con un provvedimento ben argomentato che contribuisce a chiarire i presupposti di ammissibilità della richiesta di accesso al nuovo strumento del concordato semplificato.

 

Con decreto del 21 settembre 2022, il Tribunale di Bergamo ha dichiarato inammissibile una proposta di concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio presentata da una società ai sensi dell’art. 25-sexies del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza vigente dal 15 luglio 2022, per l’insussistenza di un requisito minimo richiesto dalla norma per l’accesso alla procedura, requisito riguardante, in particolare, il fatto che il concordato semplificato possa essere richiesto solo in via residuale rispetto ad altri strumenti di regolazione della crisi.

 

Il decreto è di particolare interesse perché, nel percorso argomentativo, il Tribunale di Bergamo ripercorre i presupposti della domanda di concordato semplificato, fornisce utili indicazioni sull’estensione del vaglio di ritualità della domanda affidato al Tribunale e chiarisce quali siano i limiti di ammissibilità della domanda, precisando che lo strumento invocato non è percorribile allorché non siano risultati effettivamente impraticabili tutti gli altri specifici strumenti configurati dal Codice della Crisi come possibili esiti della procedura di composizione negoziata.

 

È utile ricordare, preliminarmente, che, nell’ambito di una procedura di composizione negoziata della crisi, ai sensi del comma 1 dell’art. 25-sexies del nuovo Codice, “quando l’esperto nella relazione finale dichiara che le trattative si sono svolte secondo correttezza e buona fede, che non hanno avuto esito positivo e che le soluzioni individuate ai sensi dell’articolo 23, commi 1 e 2, lettera b) non sono praticabili, l’imprenditore può presentare, nei sessanta giorni successivi alla comunicazione di cui all’articolo 17, comma 8 (ndr. la relazione finale redatta dall’esperto al termine dell’incarico), una proposta di concordato per cessione dei beni unitamente al piano di liquidazione e ai documenti indicati nell’articolo 39. (…)”. Il comma 3 e il comma 4 dello stesso articolo prevedono inoltre che “Il tribunale, valutata la ritualità della proposta, acquisiti la relazione finale di cui al comma 1 e il parere dell’esperto con specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione e alle garanzie offerte, nomina un ausiliario ai sensi dell’articolo 68 del codice di procedura civile, assegnando allo stesso un termine per il deposito del parere di cui al comma 4 (…)” e che “con il medesimo decreto il tribunale ordina che la proposta, unitamente al parere dell’ausiliario e alla relazione finale e al parere dell’esperto, sia comunicata a cura del debitore ai creditori risultanti dall’elenco depositato (…) e fissa l’udienza per l’omologazione”.

 

Ai fini che interessano, va ricordato che le richiamate “soluzioni” la cui impraticabilità, all’esito delle trattative, costituisce uno dei presupposti per l’accesso al concordato semplificato, sono le seguenti: (i) il c.d. contratto di continuità aziendale (art. 23, co. 1, lett. a); (ii) la c.d. convenzione di moratoria (art. 23, co. 1, lett. b); (iii) l’accordo tra creditori e imprenditore sottoscritto dall’esperto con gli stessi effetti dell’accordo in esecuzione di un piano attestato di risanamento (art. 23, co. 1, lett. c); (iv) la domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 23, co. 2, lett. b).

 

Ebbene, come si è detto, secondo il menzionato art. 25-sexies il Tribunale, prima di verificare se vi sono le condizioni per omologare la proposta di concordato semplificato, deve vagliare la ritualità della domanda, verificando l’effettiva sussistenza dei requisiti minimi di legge per l’accesso alla procedura, quali la competenza, la tempestività della domanda e la sussistenza dei presupposti descritti nella norma, tra cui l’effettiva impraticabilità di tutti gli strumenti (“soluzioni”) sopra elencati.

 

Nella fattispecie sottoposta all’attenzione del Tribunale di Bergamo, il ricorrente aveva presentato una domanda tempestiva innanzi al Giudice competente, rappresentando che il proprio indebitamento riguardava quasi integralmente esposizioni debitorie verso l’Agenzia delle Entrate e gli Enti previdenziali. È importante evidenziare che l’esperto aveva concluso, nella sua relazione finale, affermando che, pur essendosi svolte le trattative secondo correttezza e buona fede, le soluzioni individuate ai sensi dell’articolo 23, comma 1 e comma 2, lett. b), del Codice, non erano risultate praticabili, anche se appariva “praticabile la transazione fiscale e previdenziale o, in alternativa, la proposta di concordato semplificato”.

 

Ebbene, alla luce di quest’ultima circostanza, il Tribunale di Bergamo alla fine ha ritenuto che la proposta di concordato semplificato non fosse idonea a superare il vaglio di ritualità poiché mancante di uno dei presupposti che necessariamente dovevano (e debbono) essere presenti congiuntamente ai fini della ammissione della domanda.

 

Diversamente da quanto affermato dall’esperto, infatti, era emerso che non tutte le soluzioni (differenti dal concordato) annoverate dall’art. 23 del Codice della Crisi, erano effettivamente impraticabili: risultava essere percorribile la strada della domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione nell’ambito della quale avrebbe potuto trovare spazio la transazione fiscale a cui lo stesso esperto aveva fatto riferimento nella propria relazione finale.

 

In questa relazione, in particolare, l’esperto aveva riferito che l’Agenzia delle Entrate e gli Enti previdenziali si erano limitati a segnalare di non aver potuto partecipare attivamente alla trattativa e che il deposito di una proposta di transazione fiscale era considerata “per loro fattibile”.

 

Il Tribunale ne ha tratta quindi la conclusione che il ricorso al concordato semplificato non si poteva considerare una “extrema ratio” (come invece il legislatore lo ha concepito nella stesura del Codice e, in particolare, della disciplina della composizione negoziata della crisi), considerato che, appunto, era ancora utilizzabile quantomeno lo strumento di cui all’art. 23, co. 2, lett. b) del Codice (nell’ambito del quale il debitore poteva percorrere la strada del risanamento attraverso il ricorso ad una transazione fiscale).

 

 

s.rossi@macchi-gangemi.com
g.bonfante@macchi-gangemi.com

 

 

 

PAYWALL: LEGITTIMI?

 

La decisione di molte testate giornalistiche di impedire l’accesso ai propri siti web senza la sottoscrizione di un abbonamento o senza l’accettazione dei cookies con finalità pubblicitarie sta facendo discutere e ha portato nuovamente all’attenzione del Garante per la Privacy la legittimità di tale tipo di strumento (cd. Paywall). Ma cosa prevede la normativa e cosa ne pensano le altre autorità?

 

In questi giorni si è molto parlato dell’iniziativa presa da molte testate giornalistiche italiane consistente nel bloccare l’accesso al sito a meno di acquistare un abbonamento o acconsentire alla profilazione tramite cookie.

 

La questione è stata oggetto di vari pareri di Autorità garanti europee, ed è attualmente al vaglio del Garante.

 

Ma cos’è un cookie wall (o meglio, un paywall)?

 

Si tratta di una particolare tipologia di banner cookie, che al contrario di quelli classici, prevede unicamente l’opzione del “prendere o lasciare”. Se non si accettano tutti i cookie, l’accesso sarà totalmente o parzialmente inibito; se li si accetta tutti, allora si potrà navigare liberamente.

 

Questo tipo di banner è particolarmente usato nel settore dell’editoria online, dove la lettura di articoli e contenuti di qualità è condizionata non sono all’acquisto di abbonamenti o altri pagamenti monetari, ma anche alla possibilità di sfruttare i dati personali degli utenti per fini di marketing (o anche profilazione).

 

La domanda che ci si pone è se il consenso prestato possa intendersi come davvero “libero” e quali potrebbero essere le conseguenze di una chiara monetizzazione dei dati personali.

 

Ma cosa dicono la normativa e le autorità garanti?

 

Il consenso cookie è previsto dalla Direttiva ePrivacy, nonché nelle linee guida sui cookie di giugno 2021. Il Garante ha ribadito più volte l’illeceità dei cookie wall, salvo il caso in cui “il sito offra all’interessato la possibilità di accedere, senza prestare il proprio consenso all’installazione e all’uso di cookie, ad un contenuto o a un servizio equivalenti”. In sostanza, quindi, i dati personali “rappresenteranno solo indirettamente una controprestazione del servizio fornito, restando, tuttavia, estranei al sinallagma contrattuale”, unendo la norma privacy con quella del codice del consumo.

 

Oggi, a seguito delle iniziative intraprese dai quotidiani online italiani, la questione è al vaglio del Garante, ma in altri paesi le autorità si sono già espresse sul punto. In particolare:

 

1. In Francia, la CNIL – Commission Nationale de l’Informatique et des Liberté ha indicato alcuni criteri per la legittimità di un paywall. In particolare, l’esistenza di un’alternativa equa per accedere al web, nonché un equilibrio nel rapporto tra utente e titolare del sito (ad esempio un’eventuale posizione dominante sul mercato). Il corrispettivo deve essere inoltre ragionevole e l’eventuale obbligo di registrazione dovrà essere giustificato. Il paywall inoltre non può essere uno strumento per fare un “bundle” con altre finalità di trattamento dati non strettamente necessarie e, cosa più importante, in caso di pagamento nessun cookie dovrà essere utilizzato (salvo quelli tecnici);

 

2. In Austria, similmente, il concetto di “pay or okay” è considerato lecito, alle seguenti condizioni: rispetto e conformità alla normativa privacy; un servizio non esclusivo e una posizione non dominante sul mercato del titolare del sito. È, inoltre, vietato ai soggetti pubblici o che erogano servizi pubblici. Il prezzo, come in Francia, dev’essere ragionevole ed equo e, in quest’ultimo caso, nessun trattamento ai fini pubblicitari potrà essere effettuato.

 

In definitiva, i criteri appena visti paiono del tutto “assimilabili” e replicabili anche nel nostro sistema normativo, scontando una certa genericità in alcuni aspetti ove si parla di una “ragionevolezza” che potrebbe diventare incerta o di difficile applicazione.

 

Ci si augura che il Garante italiano prenda posizione sul punto, e che anche gli organismi competenti a livello europeo chiariscano la legittimità dello strumento. Nel frattempo, occorre essere molto cauti nell’utilizzo di questo tipo di Banner cookie.

 

 

f.montanari@macchi-gangemi.com
l.laterza@macchi-gangemi.com

 

 

 

IMU PRIMA CASA: DOPPIA ESENZIONE AI CONIUGI CHE VIVONO IN DUE COMUNI DIVERSI.

 

Stop al pagamento dell’IMU per i coniugi che risiedono e dimorano abitualmente in due case differenti, indipendentemente dal comune in cui si trovano.

 

Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che con la sentenza n. 209 del 13 ottobre 2022 ha ristabilito il diritto all’esenzione per ciascuna abitazione principale delle persone sposate o in unione civile, dichiarando illegittima la norma del Decreto Salva Italia del 2011 che regola l’imposta sugli immobili.

 

Nel caso di specie, la Commissione Tributaria di Napoli aveva sollevato, in riferimento agli articoli 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, D.L. n. 201/2011, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), legge n. 147/2013, nella parte in cui non prevedeva l’esenzione IMU per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare, nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente anagraficamente e dimori in un immobile ubicato in altro comune.

 

Secondo quanto stabilito dall’art. 13 comma 2 del Decreto Legge n. 201 del 2011, marito e moglie sono, infatti, costretti a indicare quale delle due abitazioni di proprietà è la principale e a pagare l’IMU sull’altra, considerata come seconda casa.

 

La norma valeva fino ad oggi solo per i coniugi, mentre i semplici conviventi potevano possedere due case di proprietà, una a testa, senza pagare l’imposta sugli immobili perché entrambe abitazioni principali.

 

Ebbene, la sentenza n. 209 della Corte Costituzionale elimina questa distinzione, proprio per evitare che costituisca una discriminazione nei confronti delle coppie che decidono di unirsi in matrimonio o con unione civile. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 209 del 13 ottobre 2022 in argomento, ha infatti dichiarato che “Nel nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile”.

 

In un contesto come quello attuale, infatti,” – si spiega – “caratterizzato dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dallo sviluppo dei sistemi di trasporto e tecnologici, dall’evoluzione dei costumi, è sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio o unione civile concordino di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana, rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale”.

 

Pertanto, ai fini del riconoscimento dell’esenzione sulla “prima casa”, non ritenere sufficiente, per ciascun coniuge o persona legata da unione civile, la residenza anagrafica e la dimora abituale in un determinato immobile, determina un’evidente discriminazione rispetto ai conviventi di fatto, i quali, in presenza delle medesime condizioni, si vedono invece accordato, per ciascun rispettivo immobile, il suddetto beneficio.

 

In sintesi, la norma censurata lederebbe:

 

– la “parità dei diritti dei lavoratori costretti a lavorare fuori dalla sede familiare” (articoli 1, 3, 4 e 35 Cost.);

 

– il “diritto alla parità dei contribuenti coniugati rispetto a partner di fatto” (articoli 3, 29 e 31 Cost.);

 

– i principi di capacità contributiva e progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.);

 

– la famiglia quale società naturale (art. 29 Cost.);

 

– l’”aspettativa rispetto alle provvidenze per la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi” (art. 31 Cost.);

 

– la tutela del risparmio (art. 47 Cost.).

 

La Consulta chiarisce poi come sia compito di Comuni e istituzioni effettuare i dovuti controlli nella circostanza in cui coniugi si intestino una proprietà a testa per non pagare le tasse anche sulla seconda. Le dichiarazioni di illegittimità costituzionale non determinano infatti, in alcun modo, una situazione in cui le “seconde case” ne possano usufruire.

 

In conclusione, è possibile affermare che la sentenza n. 209 del 2022 della Consulta apre la strada alle istanze di rimborso Imu da parte dei contribuenti e mette fuori gioco gli accertamenti comunali. I contribuenti facciano attenzione a non far scadere i termini decadenziali per richiedere il rimborso!

 

 

g.sforzini@macchi-gangemi.com

 

 

 

C-256/21 – LA CORTE UE SULLA GIURISDIZIONE IN MATERIA DI DOMANDE RICONVENZIONALI DI INVALIDITÀ DEL MARCHIO.

 

Con una recente decisione del 13 ottobre 2022, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha risposto alla domanda se l’articolo 124, lettere a) e d), e l’articolo 128 del regolamento 2017/1001 debbano essere interpretati nel senso che un tribunale dei marchi UE, investito di un’azione per contraffazione fondata su un marchio UE la cui validità sia contestata mediante una domanda riconvenzionale di nullità, rimanga competente a pronunciarsi sulla validità di tale marchio, nonostante la rinuncia all’azione principale.

 

La società KP (KP) è titolare del marchio denominativo dell’Unione Europea “Apfelzügle”, registrato il 19 ottobre 2017, per prodotti e servizi delle classi 35, 41 e 43 e che designa un veicolo progettato per la raccolta delle mele, composto da diversi rimorchi trainati da un trattore. Nel settembre 2018, la TV, un operatore di aziende frutticole (TV), e il Comune di Bodman-Ludwigshafen (MBL) hanno pubblicato una promozione relativa a un’attività che prevedeva la raccolta e la degustazione di mele nell’ambito di un giro sull’”Apfelzügle”.

 

KP ha incardinato un giudizio per contraffazione dinanzi al Landgericht München (Tribunale regionale di Monaco di Baviera, Germania), chiedendo di inibire a TV e MBL l’uso del termine “Apfelzügle” per i servizi coperti da tale marchio. TV e MBL hanno presentato domanda riconvenzionale di nullità, ai sensi dell’articolo 59, paragrafo 1, lettera a), del regolamento 2017/1001 (RMUE), in combinato disposto con l’articolo 7, paragrafo 1, lettere b), c) e d).

 

Nelle more del procedimento, KP ha ritirato la propria azione per contraffazione, mentre TV e MBL hanno continuato a portare avanti le proprie domande riconvenzionali. Alla fine, il Tribunale regionale di Monaco di Baviera ha ritenuto che tali domande fossero ammissibili, dichiarando quindi la nullità del marchio di KP per i servizi della classe 41. In appello, l’Oberlandesgericht München (Tribunale regionale superiore di Monaco, Germania) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre la questione pregiudiziale alla CGUE.

 

Nella propria decisione la CGUE si è basata, in primo luogo, sulla giurisprudenza consolidata in materia di competenza giurisdizionale e riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, in base alla quale una domanda riconvenzionale, benché presentata nell’ambito di un processo avviato mediante un altro rimedio giurisdizionale, deve essere considerata come “una domanda distinta e autonoma” (par. 38), al punto che può essere distinta da “un semplice motivo a difesa” e il suo esito “non dipende da quella dell’azione per contraffazione in occasione della quale è stata proposta” (par. 40).

 

In secondo luogo, la Corte ha osservato che la competenza in materia di nullità o decadenza di un marchio dell’UE è condivisa, ai sensi degli articoli 63 e 124 del RMUE, tra i tribunali dei marchi dell’UE designati dagli Stati membri e l’EUIPO – European Union Intellectual Property Office. Alla luce di quanto sopra, unitamente al cosiddetto principio di “priorità”, la Corte ha osservato che, se il titolare di un marchio UE potesse privare un tribunale dei marchi dell’UE della possibilità di pronunciarsi su una domanda riconvenzionale di nullità semplicemente ritirando la propria azione di contraffazione, la portata della giurisdizione conferita ai tribunali dei marchi dell’UE verrebbe di fatto disconosciuta (par. 52).

 

In terzo luogo, la CGUE si è basata sulla propria precedente giurisprudenza sottolineando che, al fine di evitare procedimenti superflui e multipli, che comportano il rischio di sentenze contraddittorie, costringere la parte che ha proposto una domanda riconvenzionale ad avviare un procedimento dinanzi all’EUIPO in caso di rinuncia dell’attore principale, sarebbe “contrario al principio di economia processuale” (par. 56).

 

Inoltre, la Corte ha sottolineato che privare il tribunale dei marchi UE – in caso di ritiro della domanda principale – della possibilità di pronunciarsi su una domanda riconvenzionale di nullità consentirebbe al titolare di un marchio della UE “di continuare a utilizzare, eventualmente in malafede, un marchio UE che può essere stato registrato in violazione degli impedimenti alla registrazione assoluti previsti all’articolo 7, paragrafo 1, del regolamento 2017/1001” (par. 57).

 

Per questi motivi, la Corte ha risposto alla questione sollevata statuendo che “L’articolo 124, lettere a) e d), e l’articolo 128 del regolamento (UE) 2017/1001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2017, sul marchio dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che un tribunale dei marchi dell’Unione europea, investito di un’azione per contraffazione fondata su un marchio dell’Unione europea la cui validità sia contestata mediante una domanda riconvenzionale di nullità, rimane competente a pronunciarsi sulla validità di tale marchio, nonostante la rinuncia all’azione principale“.

 

 

m.baccarelli@macchi-gangemi.com
m.loneron@macchi-gangemi.com

 

 

DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.

 

 

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