LA CORTE DI CASSAZIONE RICONOSCE IL CREDITO PER LE IMPOSTE ESTERE SUI DIVIDENDI ASSOGGETTATI A RITENUTA 26%.
Con l’importante sentenza n. 25698 pubblicata lo scorso 1° settembre 2022, la Cassazione ha riconosciuto il diritto dei contribuenti persone fisiche che percepiscono dividendi di fonte estera a scomputare le imposte prelevate nello stato della fonte dalla ritenuta a titolo di imposta con aliquota del 26% dovuta in Italia.
Un individuo residente in Italia che percepisce un dividendo di fonte estera subisce prima l’imposta nello Stato dove è residente la società che ha effettuato la distribuzione (stato della fonte) e poi l’imposizione in Italia (stato di residenza).
Nello Stato della fonte il dividendo è assoggettato a ritenuta, ammessa dalle convenzioni per evitare le doppie imposizioni generalmente entro la misura del 15%.
In Italia la banca che interviene nell’incasso del dividendo applica la ritenuta a titolo di imposta del 26% sul c.d. netto frontiera, ossia sull’importo netto incassato.
In sostanza a fronte di un dividendo di 100, 15 sarà la ritenuta applicata dallo Stato estero e 22,1 (85*26%) quella applicata in Italia, per un onere fiscale complessivo pari al 37,10% del dividendo (15+22,1=37,1).
La maggior parte delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni stipulate dall’Italia contengono ancora la vecchia formulazione secondo cui il credito per l’imposta estera non spetta al contribuente che abbia scelto di assoggettare il reddito estero a ritenuta a titolo di imposta in luogo dell’imposizione ordinaria (con le aliquote progressive IRPEF).
Tuttavia, nell’attuale sistema impositivo dei dividendi è prevista soltanto la ritenuta a titolo di imposta del 26%, senza possibilità di assoggettamento ad IRPEF.
Per questo da tempo la dottrina invocava il riconoscimento del credito per le imposte estere per i dividendi distribuiti da società residenti in stati con cui l’Italia ha stipulato convenzioni per evitare le doppie imposizioni che escludono il credito di imposta soltanto in caso la ritenuta a titolo di imposta sia applicata su opzione del contribuente.
Con la sentenza in commento la Cassazione ha finalmente riconosciuto tale principio, facendo leva – tra l’altro – proprio sulla circostanza che alcune più recenti convenzioni stipulate dall’Italia contengono una formulazione diversa che esclude in ogni caso il riconoscimento del credito per imposte estere sui dividendi.
Resta ora da comprendere come sarà possibile applicare in concreto i principi statuiti dalla Cassazione alle future distribuzioni di dividendi. Il riconoscimento del credito di imposta a un reddito (il dividendo) che non concorre alla formazione del reddito complessivo richiede, infatti, qualche forzatura del modello di dichiarazione.
Per quanto riguarda il passato, invece, per le ritenute versate negli ultimi 48 mesi, è certamente opportuno avviare tempestivamente una procedura di rimborso al fine di ottenere la restituzione della differenza tra quanto prelevato (22,1) e quanto avrebbe potuto essere prelevato dopo aver riconosciuto il credito per le imposte estere (26-15=11).
L’ammontare rimborsabile sarà ancora maggiore per i dividendi incassati senza l’intervento di un intermediario residente: questi, infatti, secondo l’Agenzia delle Entrate, dovevano essere assoggetti ad imposta sull’importo lordo del dividendo, invece che sul netto frontiera.
MULTA DA 391,5 MILIONI DI DOLLARI PER GOOGLE: HA VIOLATO LA PRIVACY DEGLI UTENTI E LI HA PROFILATI, INGANNANDOLI IN PUNTO DI GEOLOCALIZZAZIONE.
Il motore di ricerca più utilizzato al mondo ha indotto in errore gli utenti, portandoli a pensare che disattivando il rilevamento della propria posizione – disabilitando la funzione nelle impostazioni del proprio account – gli stessi non sarebbero più stati geolocalizzati.
Dopo quattro anni di indagini, il New York Times ha riportato la notizia della conclusione di quello che è stato definito “il più grande accordo sulla privacy in internet degli Stati Uniti”. L’accordo in questione, tra 40 Procuratori generali statunitensi e Google, ha portato alla condanna del motore di ricerca al pagamento di un risarcimento di 391,5 milioni di dollari a favore degli utenti dei 40 Paesi coinvolti.
Le condotte contestate a Google consistono nell’aver ingannato gli utenti: gli stessi venivano indotti a credere che con la disattivazione della geolocalizzazione dai propri dispositivi non sarebbero più stati rintracciati. Invece è stato rilevato che, grazie alla vasta gamma di servizi offerti (motore di ricerca, mappe, app) che si connettono al wi-fi e alle torri dei telefoni cellulari, Google ha raccolto e archiviato un’immane quantità di dati relativi alle posizioni e alle connesse abitudini degli utenti; dati che poi il motore di ricerca avrebbe sfruttato per indirizzare pubblicità personalizzata a quegli stessi soggetti.
Occorre puntualizzare che, ancor prima della condanna in oggetto, numerose erano state le rimostranze sollevate dalle associazioni rappresentative dei diritti privacy dei consumatori: criticità che le cd Big Tech hanno sempre tentato di privare di fondamento, contrapponendo le proprie istanze -prettamente economiche- e negando la raccolta e l’archiviazione massiva dei dati degli utenti da parte loro.
Il vero grande problema è a monte: negli Stati Uniti manca una legislazione federale unitaria sulla privacy. Sono pochi gli Stati (tra questi California, Colorado, Virginia) che si sono dotati di una normativa a tutela della protezione dei dati personali. A livello federale centrale sono anni che le istanze di un riconoscimento e, conseguentemente, di una maggiore tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini lato privacy si scontrano con le istanze economiche delle grandi lobbies.
Per quanto sia necessario salvaguardare gli interessi economici degli operatori del mercato è altrettanto fondamentale tutelare appieno i diritti e le libertà dei cittadini.
Per questo, dal 2023, a Google viene altresì imposto di rendere più chiare e trasparenti le procedure di localizzazione degli utenti.
De iure condendo, appare altresì auspicabile un cambio sostanziale del “modo di punire”. Considerati gli introiti di un’azienda come Google, appare evidente come una multa- per quanto ingente- sia facilmente prevedibile, calcolabile e ammortizzabile in futuro in un bilanciamento di costi- benefici.
Non solo, una sanzione prettamente pecuniaria smorza la potenziale efficacia deterrente della stessa verso gli altri operatori economici (che, nell’effettuare il medesimo bilanciamento, potrebbero ritenere più remunerativo violare i diritti dei cittadini, mettendo in conto un’eventuale multa da pagare, piuttosto che astenersi dal perpetrare tali violazioni al fine di evitare la sanzione).
Occorrerebbe puntare su condanne più sostanziali e “riparative” in punto di protezione dei dati personali, quali, ad esempio: l’obbligo di cancellare i dati personali raccolti illegittimamente e il blocco delle attività fino alla revisione, l’implementazione e la congrua pubblicizzazione di policies privacy interne effettivamente tutelanti da parte degli operatori economici coinvolti.
f.montanari@macchi-gangemi.com
l.laterza@macchi-gangemi.com
JUVENTUS FC OTTIENE UNA STORICA VITTORIA IN UN CASO DI CONTRAFFAZIONE DI MARCHI NEL METAVERSO.
Con ordinanza emessa in data 20 luglio 2022, il Tribunale di Roma ha disposto inibitoria cautelare nei confronti della società Blockeras S.r.l. (“Blockeras”), creatrice di NFT raffiguranti immagini di un giocatore di calcio e riproducenti, senza autorizzazione, i marchi registrati di proprietà della squadra di calcio italiana Juventus Football Club S.p.A. (“Juventus”). Si tratta del primo provvedimento, emesso da un tribunale europeo, che stabilisce come la riproduzione non autorizzata di marchi nella titolarità di terzi sotto forma di NFT equivale a contraffazione degli stessi.
La Juventus è titolare dei marchi denominativi JUVE e JUVENTUS, nonché di un marchio figurativo costituito dalla storica maglia bianconera con due stelle.
Nel corso delle proprie attività di monitoraggio, la Juventus ha riscontrato la presenza di “Coin of Champion”, un progetto NFT lanciato nel 2021 dalla piattaforma basata su blockchain Blockeras, che ha minato, pubblicizzato e messo in vendita NFT ed altri contenuti digitali raffiguranti giocatori di calcio e comprendenti, inter alia, immagini raffiguranti i marchi Juventus, nonché l’immagine dell’ex noto giocatore italiano Christian Vieri con la divisa della Juventus.
Gli NFT sono stati venduti tramite il marketplace NFT Binance tra il 7 aprile e il 4 maggio 2022. Nel frattempo, ha preso piede un mercato secondario in cui le carte potevano essere rivendute, generando ulteriori profitti in favore dei creatori.
Secondo la documentazione in atti, sono state vendute 529 carte raffiguranti l’ex calciatore della Juventus, 68 delle quali hanno fruttato a Blockeras guadagni per un totale di $ 35.796,87. Vieri ha contrattualmente autorizzato l’utilizzo della propria immagine, da parte di Blockeras, fino a marzo 2024. La Juventus, al contrario, non ha concesso alcuna autorizzazione per l’uso dei propri segni, conseguentemente agendo in via cautelare, denunciando le condotte per violazione di marchio e concorrenza sleale.
Il Tribunale di Roma ha riconosciuto, in primo luogo, la notorietà dei marchi invocati, dovuta al fatto che la Juventus è la squadra di calcio italiana che ha vinto di più, sia in Italia che all’estero. In questo contesto, il Tribunale ha ritenuto che Blockeras avesse utilizzato i marchi Juventus a fini commerciali e senza alcun titolo.
Per quanto concerne l’argomento difensivo secondo cui le registrazioni non coprirebbero i prodotti ai quali Blockeras ha associato i segni, il Tribunale ha concluso che le privative comprendono anche i prodotti della classe 9 di cui alla Classificazione di Nizza, con particolare riferimento alle “pubblicazioni digitali scaricabili”, conformemente al fatto che la suddetta classe è destinata ad includere i “file digitali scaricabili autenticati da token non fungibili [NFT]” ai sensi della 12° edizione della Classificazione di Nizza, in vigore dal 1° gennaio 2023.
Inoltre, il Tribunale ha osservato che la stessa Juventus aveva dimostrato di essere entrata nel mondo delle criptovalute e della blockchain, compresi gli NFT, essendo inoltre attiva nel settore dei crypto games (giochi online basati su tecnologie blockchain nonché sull’utilizzo di criptovalute e/o NFT) attraverso accordi intercorrenti con la start-up di NFT fantasy football Sorare SAS.
Per quanto riguarda l’uso autorizzato dell’immagine del calciatore, il Tribunale ha ritenuto che ciò non escludesse che Blockeras fosse anche tenuta ad ottenere la preventiva autorizzazione, da parte di Juventus, per l’uso dei marchi a fini commerciali. In questo modo, il Tribunale ha sostanzialmente affermato che gli NFT godono di autonomia giuridica rispetto alle immagini o ai dati ad essi correlati specificando, quindi, che l’ordinanza di ingiunzione avrebbe riguardato sia il contenuto digitale, ivi compresa l’immagine del giocatore con i marchi della Juventus, sia il token NFT.
Inoltre, l’utilizzo dei marchi Juventus non può essere giustificato dall’interesse alla pubblicazione dell’immagine del calciatore, alla luce della sua notorietà ai sensi dell’art. 97 della Legge sul Diritto d’Autore, in quanto la vendita delle figurine digitali ha solo uno scopo commerciale e non scientifico o didattico.
Alla luce di quanto sopra, il Tribunale ha emesso l’inibitoria cautelare nei confronti di Blockeras:
(i) inibendo “l’ulteriore produzione, commercializzazione, promozione e offerta in vendita, diretta e/o indiretta, in qualsivoglia modo e forma, degli NFT (non fungible token) e dei contenuti digitali di cui in narrativa, nonché di ogni altro NFT (non fungible token), contenuto digitale o prodotto in genere recante la fotografia di cui in narrativa, anche modificata, e/o i marchi Juventus di cui in narrativa, nonché l’uso di detti marchi in qualsiasi forma e modalità“, e
(ii) ordinando “di ritirare dal commercio e rimuovere da ogni sito internet e/o da ogni pagina di sito internet direttamente e/o indirettamente controllati dalla stessa su cui tali prodotti sono offerti in vendita e/o pubblicizzati, gli NFT (non fungible token) ed i contenuti digitali ad essi associati o prodotti in genere oggetto di inibitoria“.
L’ordinanza è divenuta definitiva, non essendo il provvedimento stato oggetto di impugnazione. Tuttavia, gli NFT oggetto dell’ordinanza in questione sono ancora presenti su piattaforme quali OpenSea con la maglia della Juventus del calciatore in questione. Pertanto, la questione di come tali provvedimenti possano trovare effettiva applicazione a beneficio dei titolari dei marchi rimane ancora aperta, in quanto i creatori di NFT destinatari di domande cautelari volte all’eliminazione di contenuti digitali pubblicati sui loro server e ritenuti in contraffazione potrebbero sostenere di non avere più alcun controllo sugli NFT già commercializzati.
Ciò posto, l’aumento di popolarità e l’ampia diffusione di contenuti NFT condurranno ad un rapido sviluppo del volume di controversie insorte al fine di risolvere queste ed altre questioni giuridiche connesse ai Non-Fungible tokens.
m.baccarelli@macchi-gangemi.com
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LE CONDIZIONI PER IL RILASCIO DELL’AUTORIZZAZIONE GIUDIZIALE ALLA CESSIONE DELL’AZIENDA NELL’AMBITO DELLA COMPOSIZIONE NEGOZIATA.
Il Tribunale di Parma, nell’ambito di una procedura di composizione negoziata della crisi, ha recentemente autorizzato una cessione di rami d’azienda esonerando l’acquirente dalla responsabilità per i debiti inerenti all’azienda anteriori alla cessione, con un’ordinanza che si sofferma puntualmente sui requisiti di rilascio del provvedimento autorizzativo e sull’estensione delle valutazioni del Tribunale.
Con ordinanza del 4 novembre 2022, il Tribunale di Parma ha accolto la richiesta (avanzata da una società che aveva in precedenza avviato una procedura di composizione negoziata della propria situazione di crisi ai sensi del D.L. 118/2021 convertito con L. 147/2021) di autorizzazione a cedere – con il beneficio per il cessionario della deroga all’art. 2560 comma 2 c.c. – due rami d’azienda e le giacenze di magazzino al soggetto con il quale era in corso un contratto di affitto e che aveva già formulato una proposta vincolante di acquisto.
L’ordinanza è di particolare interesse perché consente di ripercorrere i presupposti che debbono sussistere affinché un Giudice possa concedere il provvedimento autorizzativo richiesto da una società in crisi che intenda cedere l’azienda nell’ambito della procedura di composizione negoziata.
È utile ricordare, preliminarmente, che, nel corso della composizione negoziata, quando l’imprenditore abbia l’opportunità o necessità di trasferire a un terzo la propria azienda o rami di essa al fine del superamento della crisi, in linea di principio lo può fare: si tratta di un atto di straordinaria amministrazione a cui l’imprenditore può procedere in autonomia, previa informativa all’Esperto, ai sensi dell’art. 9 del citato D.L. 118/2021 (oggi art. 21 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza vigente dal 15 luglio 2022). In tale caso, la cessione avviene secondo le regole ordinarie e l’acquirente risponderà in via solidale con il cedente di tutti i debiti anteriori ai sensi dell’art. 2560 c.c..
A tale riguardo, è noto che il regime di responsabilità solidale dell’acquirente per i debiti aziendali ha per lungo tempo rappresentato un ‘disincentivo’ per i trasferimenti di aziende di imprenditori in difficoltà al di fuori della cornice protetta della vendita in ambito fallimentare o in esecuzione di un concordato omologato (ambiti nei quali è possibile beneficiare dell’effetto della deroga all’art. 2560 c.c.). Oggi, grazie all’art. 22 del Codice della Crisi (già art. 10 del citato D.L. 118/2021), gli imprenditori possono cedere anche immediatamente l’azienda o rami di essa nell’ambito della composizione negoziata ottenendo, a determinate condizioni, l’autorizzazione del Tribunale alla cessione senza l’effetto, per l’acquirente, della responsabilità per i debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento.
Il provvedimento autorizzativo presuppone una verifica da parte del Giudice circa la funzionalità della cessione alla salvaguardia della continuità aziendale e la rispondenza dell’operazione di trasferimento alla migliore soddisfazione del ceto creditorio. Rispetto all’art. 10 del D.L. 118/2021, l’art. 22 del Codice della Crisi ha peraltro codificato l’ulteriore obbligo del Tribunale di “verificare il rispetto del principio di competitività nella selezione dell’acquirente”. L’autorizzazione del Tribunale, una volta concessa, conserverà i suoi effetti e il trasferimento, compreso dell’effetto ‘derogatorio’ che lo contraddistingue, si considererà alla luce dell’art. 24 del Codice della Crisi (già art. 12 del citato D.L. 118/2021), qualsiasi sia l’esito della composizione negoziata.
Nella fattispecie sottoposta al Tribunale di Parma, l’istante aveva chiesto l’autorizzazione a cedere i rami senza gli effetti dell’art. 2560 c.c. alle condizioni definite nella manifestazione vincolante di interesse all’acquisto e nel contratto di affitto in precedenza perfezionati con l’offerente, con conservazione degli effetti della cessione definitiva. Il Giudice era quindi chiamato a valutare la sussistenza dei requisiti per il rilascio della autorizzazione richiesta.
È importante a questo punto evidenziare che, dai pareri richiesti, emergeva che l’Esperto aveva: (i) verificato la sussistenza delle condizioni per il superamento, all’esito delle trattative, della situazione di squilibrio economico-finanziario dell’istante attraverso la conclusione di un accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa ex art. 61 del Codice della Crisi; (ii) valutato la funzionalità della cessione rispetto alla continuità aziendale e al miglior soddisfacimento dei creditori comparando il maggior valore di realizzo dei rami aziendali in continuità, dell’immobile aziendale e dei cespiti mobiliari ricompresi nell’azienda rispetto e quanto ricavabile in ipotesi di cessione atomistica dei beni in uno scenario liquidatorio ‘puro’; (iii) effettuato un confronto tra l’operazione programmata nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione a efficacia estesa e gli esiti della cessione nello scenario liquidatorio; (iv) concluso affermando che la cessione dei rami d’azienda era coerente con il piano di risanamento delineato per il superamento delle condizioni di squilibrio patrimoniale; (v) confermato che l’istante aveva cercato di raccogliere, sul mercato, diverse manifestazioni di interesse all’acquisto.
Ebbene, alla luce di questi pareri e della documentazione in atti e all’esito dell’interlocuzione con i creditori, il Tribunale di Parma alla fine ha ritenuto che vi fossero i presupposti per concedere, ai sensi dell’art. 10 del D.L. 118/2021 e art. 22 del Codice della Crisi d’Impresa, l’autorizzazione alla cessione dei rami d’azienda senza gli effetti dell’art. 2560 c.c. per l’acquirente.
Il Giudice, ritenendo di dover entrare nel merito della scelta gestoria dell’imprenditore (la cessione) nella prospettiva del progetto di risanamento in cui la stessa è collocata, ha precisato di considerare che la funzionalità dell’atto rispetto alla continuità aziendale e alla miglior soddisfazione dei creditori sia sussistenti solo se, in base a un giudizio prognostico, la cessione risponda all’interesse del ceto creditorio attraverso un raffronto con la presumibile soddisfazione dei medesimi creditori nello scenario liquidatorio e nell’ipotesi di cessione dell’azienda in continuità in fase di composizione negoziata (raffronto che implica anche una verifica delle modalità di soddisfazione dei creditori con riguardo al progetto o al percorso di risanamento che il debitore intende in concreto intraprendere).
Fatta questa premessa, ha ritenuto, alla luce dei pareri dell’Esperto, che nella fattispecie fosse effettivamente configurabile il requisito della funzionalità rispetto alla continuità aziendale (la cessione consentiva di evitare la definitiva dispersione dei valori legati alla prosecuzione dell’attività e la maturazione di ulteriori perdite) e alla miglior soddisfazione dei creditori (vi era un progetto di risanamento, coltivato e sviluppato attraverso lo svolgimento delle trattative, che risultava ragionevolmente idoneo al superamento della situazione di squilibrio economico-finanziario dell’impresa).
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QUALI SONO LE FACOLTÀ DI UN TITOLARE DI DIRITTO DI SUPERFICIE SU UN TERRENO IPOTECATO?
Nel settore delle rinnovabili, nella fase iniziale di sviluppo assume particolare rilevanza l’acquisizione dei terreni su cui verrà costruito l’impianto per la produzione di energia. Non è infrequente che sulle aree interessate dal progetto esistano precedenti gravami in favore di soggetti terzi. È interessante, quindi, delineare i rimedi previsti dalla legge nel caso in cui un terreno su cui è stato costituito un diritto di superficie sia gravato da un diritto di garanzia in favore di un terzo, creditore del proprietario del medesimo terreno.
Tra i diritti che consentono di portare avanti un progetto di impianto da fonti rinnovabili, è generalmente usuale, anche per motivi contabili e fiscali, che l’operatore acquisisca un diritto di superficie sulle aree ritenute idonee per la costruzione dell’impianto, sia esso destinato alla produzione di energia da fonte solare fotovoltaica che eolica.
Nel caso di specie, con l’acquisizione del diritto reale di superficie, il superficiario diventa titolare del diritto di edificare e mantenere l’impianto e le opere connesse su un suolo di proprietà del concedente.
Ipotizziamo, ad esempio, che una spv abbia stipulato un contratto notarile per l’acquisto del diritto di superficie su un terreno su cui è iscritta un’ipoteca volontaria in favore di un istituto di credito. Dal momento che l’iscrizione ipotecaria è precedente la trascrizione dell’atto di acquisto del diritto di superficie, i diritti del superficiario non sono opponibili al creditore garantito. Per completezza, è opportuno specificare che, al contrario se il diritto di superficie è stato trascritto prima dell’iscrizione ipotecaria sulla proprietà del terreno, l’ipoteca non si estende alla superficie.
Nel caso in esame – iscrizione ipotecaria precedente alla trascrizione del diritto di superficie – l’articolo 2858 del Codice Civile disciplina le azioni esperibili dal terzo acquirente. In forza dell’art. 2812 del Codice Civile, tali rimedi sono estesi in favore anche dell’acquirente di alcuni diritti reali parziari sullo stesso, tra cui, appunto, il titolare del diritto di superficie.
In via preliminare, è bene specificare che affinché possa trovare applicazione la normativa di favore di cui all’art. 2858, occorre che il superficiario abbia trascritto il proprio titolo e non sia debitore del creditore ipotecario (ad esempio quale fideiussore del proprietario terriero). Il superficiario che acquista il diritto di costruire sull’immobile ipotecato, in forza di un titolo trascritto, non subentra al proprietario del terreno quale debitore nel rapporto obbligatorio, né assume un’obbligazione personale verso il creditore ipotecario, ma resta assoggettato alla possibile azione esecutiva del creditore sull’immobile medesimo. Come concessionario di un diritto di superficie, avrà però le seguenti facoltà alternative:
(a) pagare al creditore garantito l’importo del suo credito (entro l’importo massimo garantito dall’ipoteca);
(b) rilasciare i terreni;
(c) avviare il cosiddetto giudizio di purgazione per liberare il terreno dall’ipoteca.
In particolare, ai sensi del rimedio di cui al punto a), il superficiario avrà il diritto di pagare le somme spettanti al creditore garantito per liberare il terreno dall’ipoteca, ma potrebbe essere una procedura difficile ove non sia raggiungibile un accordo amichevole con il soggetto garantito, soprattutto nel caso in cui il debito del proprietario sia di gran lunga superiore al valore del terreno dato in garanzia e vi fossero immobili soggetti a ipoteca ulteriori rispetto a quello su cui è stato acquisito il diritto di superficie. In tal caso, sarebbe impossibile pagare l’intero debito per estinguere l’ipoteca, salvo un accordo negoziale con la banca di restrizione ipotecaria in relazione al solo terreno interessato.
La seconda ipotesi prevista dall’art. 2858 c.c. è quella di cui al paragrafo b): il superficiario potrebbe rilasciare i terreni oggetto del diritto di superficie, estinguendo così anche le sue obbligazioni. Tuttavia, tale strada non è percorribile ove sul terreno sia già stato costruito l’impianto per la produzione di energia da fonti rinnovabili, perché – salvo diverso accordo con il creditore ipotecario – il superficiario perderebbe anche la proprietà superficiaria dell’impianto installato.
L’ultima facoltà prevista è quella del giudizio di purgazione. Si tratta di un complesso procedimento giudiziario in cui il superficiario può offrire al creditore garantito il prezzo concordato con il proprietario del terreno, nel caso di specie pari ai canoni di superficie, al fine di liberare il bene dall’ipoteca. Il creditore ipotecario, a determinate condizioni, può opporsi all’offerta presentata dal superficiario. In particolare, l’istituto di credito garantito, ove l’offerta del superficiario non soddisfi integralmente i crediti garantiti dall’ipoteca sull’immobile, entro quaranta giorni dalla notificazione, ha il diritto di opporsi chiedendo la vendita del cespite, adempiendo tuttavia ad alcuni oneri procedurali, tra cui quello di aumentare almeno di un decimo il prezzo proposto dal superficiario.
In conclusione, in presenza di un’ipoteca su un terreno interessante per lo sviluppo di un progetto da fonti rinnovabili, la soluzione preferibile è quella di negoziare la cancellazione della medesima (o quanto meno la restrizione del gravame al fine di escludere i beni interessati) prima della costituzione del diritto di superficie.
m.patrignani@macchi-gangemi.com
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QUALI PRINCIPI E NORME SI APPLICANO PER L’INTERPRETAZIONE DELLA LEX SPECIALIS DI UNA PROCEDURA DI GARA PUBBLICA?
Nell’ambito delle procedure di gara pubbliche è importante talvolta esaminare attentamente i documenti elaborati dalla Stazione Appaltante e a fronte di alcune previsioni o clausole ambigue del bando o del disciplinare di gara, occorre tenere bene a mente i criteri e principi di diritto utili per consentire ai concorrenti di assolvere ai propri oneri connessi alla partecipazione alle gare.
Ebbene così posta la questione, si tratta ora di rammentare il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui ai fini dell’interpretazione della lex specialis della procedura di gara trovano applicazione, in via generale, le norme in materia di interpretazione dei contratti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 30 maggio 2022, n. 4365; Sez. V, 1°ottobre 2021, n. 6598).
A questo proposito sebbene l’art. 1362, comma 1, c.c. imponga di ricercare la “comune intenzione delle parti” senza limitarsi al senso letterale delle parole, tuttavia la giurisprudenza ha chiarito in seguito che il significato letterale costituisce sempre criterio prioritario dell’operazione interpretativa cui vanno affiancati gli altri criteri, tra cui, in particolare, il criterio logicosistematico di cui all’art. 1363 c.c., se il testo dell’accordo risulta chiaro ma incoerente con altri indici rivelatori di una diversa volontà dei contraenti (cfr. Cass. civ., sez. 1, 2 luglio 2020, n. 13595; sez. 3, 26 luglio 2019, n. 20294). Peraltro, allorché il criterio letterale risulti sufficiente a definire il risultato che le parti intendevano conseguire, l’operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente, quanto definitivamente, conclusa (cfr. Cass. civ, sez. 3, 11 marzo 2014, n. 5595). E ciò al fine di garantire che le procedure concorsuali si svolgano secondo obiettivi principi di certezza e di trasparenza (id est, di verificabilità), i quali impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole della lex specialis di gara. Tali principi sono in linea con il principio generale secondo cui dev’essere: “privilegiata, a tutela dell’affidamento delle imprese, l’interpretazione letterale del testo della lex specialis, dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una sua obiettiva incertezza, atteso che è necessario evitare che il procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale. Inoltre, l’interpretazione della “lex specialis” soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt. 1362 e ss., c.c., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale”. (ex plurimis, Cons. Stato, III, 6 marzo 2019, n. 1547).
Accanto ai criteri classici di interpretazione la giurisprudenza amministrativa ha poi enucleato un autonomo criterio interpretativo (a ben vedere di derivazione euro-unitaria) della lex specialis delle procedure di gara: il criterio del favor partecipationis, per il quale a fronte di più possibili interpretazioni di una clausola contenute in un bando o in un disciplinare di gara, va sempre preferita la scelta ermeneutica che consenta la più ampia partecipazione dei concorrenti (cfr. Cons. Stato, sez. III, 9 marzo2022, n. 1698; V, 23 agosto 2019, n. 5828). Tale principio è stato declinato in altre pronunce come necessità di applicare i criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, con la finalità di escludere soluzioni interpretative eccessivamente restrittive ed anticoncorrenziali, per cui, in caso di dubbi interpretativi, deve essere sempre preferita la soluzione che consenta la massima partecipazione alla gara (in questo senso si veda Cons. Stato, sez. V, 17 febbraio 2022, n. 1186; V, 25 marzo 2020, n. 2090).
n.digiandomenico@macchi-gangemi.com
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