LATEST NEWS & INSIGHTS 10 marzo 2023

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PEGNO MOBILIARE NON POSSESSORIO: LE RECENTI PROSPETTIVE DELL’INNOVATIVO STRUMENTO DI GARANZIA.

 

La piena operatività del pegno mobiliare non possessorio è ormai prossima. Lo scorso 12 gennaio 2023 l’Agenzia delle Entrate ha approvato le specifiche tecniche aventi ad oggetto la redazione delle domande e dei titoli costitutivi del pegno mobiliare possessorio nel nuovo registro informatico, sancendo così la definitiva introduzione di tale istituto nel nostro ordinamento. Si tratta di uno strumento che per le sue peculiari caratteristiche rappresenta un’innovazione dirompente nel sistema delle garanzie del credito e si propone di favorire l’accesso al credito da parte delle imprese.

 

Il pegno mobiliare non possessorio costituisce una delle più dirompenti innovazioni in materia di garanzie del credito, in ragione delle caratteristiche proprie che contraddistinguono tale istituto rispetto al modello tradizionale di pegno poiché non vi è spossessamento del debitore. Come noto, tale tipologia di pegno è stata introdotta nel nostro ordinamento dal DL n. 59/2016, come successivamente modificato e convertito in legge n. 199/2016. La disciplina in commento è stata poi completata con l’emanazione del Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 114 del 25 maggio 2021 (il c.d. “Regolamento concernente il registro dei pegni mobiliari non possessori”), che ha istituito il “registro informatico per l’iscrizione dei pegni mobiliari non possessori” (il “Registro dei pegni”) presso l’Agenzia delle Entrate. Da ultimo, con il citato provvedimento dello scorso 12 gennaio 2023 dell’Agenzia delle Entrate sono state approvate le specifiche tecniche per la redazione delle domande e dei titoli correlati allo strumento. Pertanto, ad oggi, per la piena operatività del pegno mobiliare non possessorio si attende esclusivamente la pubblicazione da parte dell’Agenzia delle Entrate di un comunicato che indichi la data di attivazione del Registro dei pegni.

 

Con riferimento all’ambito di applicazione soggettivo, tale pegno può essere costituito da tutti gli imprenditori iscritti presso il registro delle imprese, per garantire i crediti presenti o futuri, se determinati o determinabili e con la previsione dell’importo massimo garantito, inerenti all’esercizio dell’impresa (art.1 DL 59/2016). Per quanto concerne i beni che possono formare oggetto di garanzia, il pegno può essere costituito su tutti i prodotti e strumenti inerenti e/o connessi all’attività di impresa, fatta eccezione per i beni mobili registrati.

 

Ai fini, poi, del perfezionamento del pegno non possessorio sono richieste due formalità: i) l’atto costitutivo, che deve essere redatto in forma scritta a pena di nullità; e ii) l’iscrizione nel Registro dei pegni.

 

Ai sensi del provvedimento dell’Agenzia delle Entrate il pagamento dell’imposta di registro dovuta è un requisito per l’iscrizione (art. 5, comma 3).

 

Una volta che il pegno non possessorio è stato iscritto i il sistema restituisce per via telematica il certificato di eseguita formalità, sottoscritto dal conservatore con firma digitale con indicazione della data e del numero di iscrizione.

 

Senza dubbio l’elemento più rappresentativo che differenzia tale tipologia di pegno dal modello tradizionale è rappresentato dall’assenza di spossessamento del debitore, al quale è permesso di mantenere il possesso e la disponibilità dei beni. Dunque, lo strumento di garanzia in questione si perfeziona al momento della stipula del contratto costitutivo del pegno, senza che sia necessaria la traditio del bene ai fini della sua validità e/o efficacia. Inoltre, altra caratteristica peculiare dell’istituto è la possibile inclusione del patto di rotatività della garanzia, che consente al costituente di disporre (anche attraverso alienazione o trasformazione, a condizione che sia rispettata la destinazione economica del bene) dei beni oggetto del pegno.

 

Pur non essendo possibile al momento valutare in concreto l’impatto dell’istituto sull’economia reale, considerato che per la sua piena operatività occorre la definitiva attivazione del Registro dei pegni, si può sicuramente affermare che l’intervento di riforma è potenzialmente idoneo a facilitare l’accesso al credito per le imprese e, in tal via, favorire lo sviluppo economico. A tal riguardo, è opportuno osservare che sono molteplici i settori che potrebbero trarre giovamento da un simile strumento di garanzia. In particolare, può auspicarsi l’ulteriore rilancio di settori cruciali per il nostro Paese, quali ad esempio il settore manifatturiero e agro-alimentare, che attraverso tali strumenti di garanzia possono cogliere l’opportunità di trasformare il magazzino in liquidità.

 

 

s.dellatti@macchi-gangemi.com
g.pappacena@macchi-gangemi.com

 

 

 

TRASFERIMENTI DI DATI PERSONALI VERSO GLI STATI UNITI: ULTIME NOVITÀ.

 

L’European Data Protection Board è il comitato che riunisce i “Garanti” Privacy UE. Tra i suoi compiti ha quello di consigliare la Commissione europea sulle decisioni di adeguatezza dei dati, attraverso le quali si stabilisce se una giurisdizione straniera è da considerarsi adeguata rispetto agli standard di protezione dei dati forniti dal Reg. UE 2016/679 (GDPR).

 

A tal riguardo, negli ultimi anni si è discusso molto della questione relativa al flusso transfrontaliero di dati personali tra UE e USA. Come è noto, a seguito della sentenza “Schrems” è stato ritenuto invalido il Privacy Shield, accordo sul quale si basava il trasferimento di dati personali tra UE e USA.

 

Nel marzo 2022, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e la Presidente della Commissione europea Ursula von Der Leyen hanno annunciato un accordo di principio per ristabilire un quadro transatlantico per i flussi di dati: accordo attuato con la firma, da parte di Biden, di un “Executive Order” (EO).

 

Nello specifico, l’EO prevede che le attività di raccolta dei dati da parte delle agenzie di intelligence statunitensi possano essere svolte solo a fronte di obiettivi di sicurezza nazionale predefiniti e nel rispetto del principio di proporzionalità, della privacy e delle libertà civili delle persone.

 

Inoltre, sono stati introdotti: il Civil Liberties Protection Officer (Clpo) – col compito di far rispettare le misure ivi previste, di verificare i reclami ed emettere decisioni vincolanti; nonché una Corte di revisione della protezione dei dati– col compito di fornire una revisione legale indipendente delle decisioni del Clpo.

 

A seguito della firma dell’EO, il 13 dicembre scorso la Commissione europea ha pubblicato un progetto di decisione sull’adeguatezza dello stesso, che ad oggi ha ricevuto una doppia valutazione negativa sia da parte del Parlamento europeo-Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (che ha ritenuto il livello di protezione dei dati fornito dal Quadro non equivalente a quello del GDPR) sia da parte dell’EDPB. Quest’ultima ha espresso perplessità in merito ad alcune esenzioni al diritto di accesso, all’assenza di definizioni chiave, alla mancanza di chiarezza circa l’applicazione dei principi del DPF (Data Privacy Framework- il framework transatlantico per la protezione e trasferimento dei dati tra UE e USA) ai responsabili del trattamento, all’ampia esenzione al diritto di accesso alle informazioni disponibili al pubblico, al rischio che il livello di protezione venga compromesso da trasferimenti successivi.

 

Alla luce di ciò, l’EDPB raccomanda che l’entrata in vigore e l’adozione della decisione di adeguatezza in oggetto sia subordinata all’adozione di politiche e procedure aggiornate per l’attuazione dell’Ordine esecutivo 14086 da parte di tutte le agenzie di intelligence statunitensi. Al contempo, raccomanda alla Commissione di valutare tali politiche e procedure e di condividere la propria valutazione con l’EDPB stesso.

 

Come affermato da Andrea Jelinek, presidente del Comitato europeo per la protezione dei dati: “Un elevato livello di protezione dei dati è essenziale per salvaguardare i diritti e le libertà dei cittadini dell’UE. […] riteniamo che, dopo la prima revisione della decisione di adeguatezza, le successive revisioni dovrebbero aver luogo almeno ogni tre anni e ci impegniamo a contribuire ad esse.

 

In conclusione, sebbene si tratti di un parere non vincolante, questo andrà tenuto in debito conto dalla Commissione europea, soprattutto alla luce di quanto segue:

 

– del fatto che Max Schrems- l’attivista austriaco che ha fatto fallire i due precedenti accordi – ha già annunciato una nuova battaglia legale contro il DPF; nonché

– del fatto che è di primaria importanza trovare una soluzione che consenta alle aziende europee di effettuare trasferimenti di dati sicuri verso gli Stati Uniti, incrementandone la competitività nel mercato globale.

 

Ad oggi, quindi, occorre effettuare ancora accurate valutazioni interne prima di intraprendere trattamenti di dati personali da e verso gli USA, al fine di non incorrere in violazioni del GDPR e in sanzioni da parte dell’Autorità Garante.

 

 

f.montanari@macchi-gangemi.com
l.laterza@macchi-gangemi.com

 

 

 

MISURE PROTETTIVE E COMPOSIZIONE NEGOZIATA DELLA CRISI IN CASO DI AFFITTO E CESSIONE D’AZIENDA: L’IMPORTANZA DEL PERSEGUIMENTO DELLA CONTINUITÀ DI IMPRESA.

 

In due recenti pronunce di merito, il Tribunale di Livorno e il Tribunale di Venezia, si sono soffermati nuovamente sui requisiti necessari alla conferma delle misure protettive nell’ambito della composizione negoziata della crisi.

 

Si ricorda, al riguardo, che, con l’istanza di nomina dell’esperto in fase di avvio del procedimento di composizione negoziata, o anche in un momento successivo, l’imprenditore può richiedere l’applicazione di misure protettive del patrimonio, previste e disciplinate dagli artt. 18 e seguenti del CCII. A seguito della pubblicazione sul registro delle imprese, i creditori interessati non possono acquisire diritti di prelazione se non concordati con l’imprenditore, né possono iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari sul suo patrimonio o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l’attività di impresa.

 

Nei due casi sottoposti al vaglio dei Tribunali di Livorno e Venezia, le società ricorrenti avevano presentato istanza di composizione negoziata della crisi, chiedendo l’applicazione delle misure protettive. In entrambi i casi, le società avevano presentato piani di risanamento in cui un tassello importante era rappresentato dall’affitto del ramo d’azienda e dalla vendita e/o l’affitto di alcuni beni immobili appartenenti alle società e/o (nel caso di Venezia) dei garanti. Nonostante tali premesse comuni i due Tribunali sono giunti a conclusioni diverse, uno confermando le misure protettive, l’altro rigettando il ricorso.

 

In particolare, nel caso affrontato dal Tribunale di Livorno e deciso con ordinanza dell’8 febbraio 2023, la società, a sostegno della propria richiesta, aveva presentato linee guida del piano di risanamento che recepivano, quali risorse a beneficio del piano, i flussi derivanti da un contratto di affitto di terreni ad uso agricolo di sua proprietà, nonché le rate del corrispettivo per la cessione del ramo d’azienda riguardante l’attività vitivinicola e agrituristica esercitata sui medesimi terreni oggetto dell’affitto, cessione avvenuta molti mesi prima dell’accesso alla composizione negoziata e indipendentemente da un delineato percorso di risanamento.

 

Il Tribunale ha innanzitutto sottolineato che la ragionevole perseguibilità del risanamento costituisce l’essenza della composizione negoziata, con l’ulteriore precisazione che per risanamento dell’impresa si deve intendere un riequilibrio finanziario e patrimoniale che permetta all’impresa stessa di restare sul mercato. Tale finalità può essere perseguita, secondo i giudici livornesi, solo con la continuazione dell’attività da parte dello stesso imprenditore o la cessione dell’azienda a terzi, da realizzarsi nell’ambito della composizione o quale soluzione individuata nel corso delle trattative con i creditori.

 

Nel caso in esame, il Tribunale ha constatato la circostanza, di cui aveva dato evidenza anche l’esperto nella sua relazione, che la società ricorrente non impiegava personale, non risultava effettivamente operativa nel settore agricolo e si limitava ad incassare solo quanto dovuto in forza dei contratti di affitto dei terreni e le rate di corrispettivo di una cessione d’azienda avvenuta ventidue mesi prima.

 

Il Tribunale ha concluso negando la conferma delle misure cautelari, perché non vi era, nella fattispecie, alcuna attività di impresa in esercizio, ma solo la rappresentazione di flussi in gran parte derivanti da una cessione risalente nel tempo e quindi la composizione negoziata celava in realtà un percorso di mera liquidazione di singoli beni, non compatibile con un risanamento volto a salvare l’attività di impresa.

 

In un caso diverso, il Tribunale di Venezia, con ordinanza emessa il 6 febbraio 2023, ha accolto la domanda di conferma delle misure protettive presentato da una società che aveva elaborato un piano di risanamento c.d. ‘misto’, nel quale si prevedeva la continuità aziendale tramite la prosecuzione di un contratto di affitto di ramo d’azienda, l’esecuzione di una proposta irrevocabile di acquisto del capannone industriale condizionata al buon esito della composizione negoziata e la liquidazione del patrimonio immobiliare attraverso strumenti di stampo privatistico. In questo caso, inoltre, si richiedeva l’estensione dell’applicazione delle misure protettive anche a favore dei soci già illimitatamente responsabili e garanti, a fronte della previsione all’interno del piano di risanamento della vendita di alcuni immobili di proprietà degli stessi.

 

I Giudici veneziani hanno valutato positivamente l’operazione di affitto di ramo d’azienda, ritenendola funzionale alla prosecuzione dell’attività e alla conservazione del valore aziendale e dei livelli occupazionali. Pur dando atto di alcune criticità nella scelta dell’impresa ricorrente di proporre un piano di risanamento che prevedeva la vendita dei singoli elementi dell’attivo anziché la cessione dell’intera azienda, il Giudici hanno ritenuto che la conferma delle misure protettive, a favore sia della società sia dei soci garanti, fosse idonea ad evitare un grave pregiudizio nei confronti della ricorrente, la quale diversamente non avrebbe potuto raggiungere gli obiettivi prefissati, con conseguente danno in capo ai creditori in considerazione del fatto che era prevedibile un soddisfacimento inferiore rispetto a quello che poteva essere ragionevolmente ottenuto attraverso il buon esito della composizione negoziata.

 

 

s.rossi@macchi-gangemi.com
g.bonfante@macchi-gangemi.com

 

 

 

LE REGOLE DEL RISARCIMENTO DEL DANNO.

 

Una recentissima pronuncia della Suprema Corte (Cass. 1.02.2023 n. 2982) offre lo spunto per riprendere alcuni temi centrali del contenzioso civile sempre molto attuali.

 

Oggetto del giudizio era la richiesta di risarcimento nei confronti di un Comune per i danni subiti da un’automobile a causa dell’allagamento di una strada in occasione di un’abbondante precipitazione. Il Tribunale di Benevento ha condannato il Comune a pagare all’attore l’importo di circa € 14.000,00 pari alle spese sostenute per la riparazione del veicolo. La Corte di Appello di Napoli ha riformato la decisione, riducendo l’importo del risarcimento ad € 2.500,00 ovverosia il valore di mercato dell’automobile al momento dei fatti.

 

Come noto, uno dei principi cardine del risarcimento del danno è quello di porre il patrimonio del danneggiato nella situazione in cui si sarebbe trovato se l’inadempimento – per la responsabilità contrattuale – o il fatto illecito – in caso di responsabilità extracontrattuale – non ci fosse stato. Ciò può avvenire sia in natura (o, meglio, “in forma specifica”: l’esempio di scuola è la consegna di un vaso uguale a quello andato distrutto) oppure per equivalente, attraverso una somma di denaro.

 

Altro principio centrale è quello del risarcimento integrale (ricavato dall’art. 1223 c.c.), in base al quale il danneggiato ha diritto ad ottenere una piena soddisfazione ma non certo vantaggi ulteriori rispetto al danno effettivamente subito, che si tradurrebbero in un indebito arricchimento.

 

Nel caso in esame, la Corte di Cassazione ha sancito, confermando la sentenza di appello, che le spese di riparazione integrano una forma di risarcimento in forma specifica il quale, ai sensi dell’art. 2058 c.c., può essere escluso se la reintegrazione risulti eccessivamente onerosa. Ciò avviene frequentemente nel caso di veicoli o anche altri macchinari, strumenti o impianti per i quali i materiali o pezzi di ricambio siano difficilmente reperibili o addirittura fuori produzione: si tratta delle c.d. riparazioni antieconomiche, il cui costo è superiore al valore stesso del bene che si intende riportare a nuovo.

 

In questi casi, come detto, si procede alla liquidazione del danno in denaro, prendendo come parametro di riferimento il valore del bene danneggiato, come nel caso di specie è stato disposto dalla Corte di Appello di Napoli. La conseguenza, tuttavia, è che il valore può risultare estremamente esiguo e non consente al danneggiato neppure di reperire sul mercato un altro veicolo (o macchinario, strumento o impianto) per sostituire quello ormai inutilizzabile.

 

L’esame della vicenda presenta importanti spunti di riflessione, anche alla luce della recente riforma del codice di procedura civile.

 

Innanzitutto, si pone in tutta la sua rilevanza il problema della dimostrazione del danno economico: le mere fatture dei lavori di riparazione svolti (come nel caso in esame) non sono sufficienti a stabilire in maniera obiettiva l’entità del danno (più attendibile è ovviamente una perizia ma molto spesso, ricorrendone i presupposti, è necessario avviare tempestivamente una procedura di accertamento tecnico preventivo). Inoltre, è centrale una valutazione strategica – per le parti ed i loro avvocati – dei benefici che si possono ottenere attraverso un contenzioso. Nel caso in esame l’attore, al termine dei tre gradi di giudizio, ha ricevuto un importo irrisorio, non idoneo neppure per sostituire il veicolo danneggiato.

 

Infine, gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, ai quali tanto spazio è stato dato dalla recente riforma, possono rappresentare effettivamente un’occasione per soddisfare i propri interessi al di fuori del tribunale. Occorre, tuttavia, una profonda maturazione in tal senso da parte dei soggetti coinvolti. Nel caso di specie, ad esempio, non solo il Comune non ha riconosciuto la propria responsabilità (poi accertata dal Tribunale), ma ha anche chiamato in causa la società responsabile della manutenzione ordinaria e straordinaria della rete fognaria (la cui responsabilità è stata invece esclusa). Il danneggiato, dal suo lato, ha richiesto un importo di gran lunga superiore al valore dell’automobile.

 

I diversi rapporti sull’efficienza degli strumenti deflattivi del contenzioso, ad oggi, non sono certo confortanti. Si può ipotizzare, al contrario, che un diverso atteggiamento delle parti possa portare vantaggio ad entrambe: sia alla parte danneggiata (che a fronte di un importo concordato negozialmente può accorciare enormemente i tempi di incasso ed evitare i rischi di un contenzioso) sia al danneggiante (che con un atteggiamento di apertura e non di ostruzionismo può mettere fine in tempi rapidi ad un contenzioso potenzialmente molto dispendioso).

 

 

a.gangemi@macchi-gangemi.com

 

 

 

COMPENSI PER L’UTILIZZO DI SOFTWARE: SI APPLICA LA RITENUTA CONVENZIONALE?

 

Con il principio di diritto n. 5 del 20 febbraio 2023, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che sui compensi corrisposti a non residenti relativamente all’uso o alla concessione in uso di un software, in casi in cui in mancanza di tale concessione si configurerebbe una violazione del diritto d’autore, per l’applicazione della ritenuta rilevano le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia e dagli altri Paesi interessati.

 

L’Agenzia delle Entrate, in primo luogo, ha evidenziato che nell’ordinamento interno i diritti sui programmi informatici sono tutelati dalla Legge sul diritto d’autore (art. 2, n. 8, Legge n. 633 del 22 aprile 1941) che include, tra le opere protette, “i programmi per elaborare, in qualsiasi forma espressi purché originali quale risultato di creazione intellettuale dell’autore”.

 

Con riferimento al relativo trattamento fiscale, l’art. 23, comma 2, lett. c) del d.P.R. 917 del 22 dicembre 1986 (“TUIR”) considera prodotti nel territorio dello Stato i compensi percepiti per l’utilizzo di opere dell’ingegno se corrisposti da soggetti ivi residenti o da stabili organizzazioni. Contestualmente, l’art. 25 del d.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973 stabilisce che tali compensi, se corrisposti a soggetti non residenti, sono soggetti ad una ritenuta del 30% a titolo di imposta.

 

Chiaramente, la normativa domestica va coordinata con quella convenzionale; infatti, ai sensi dell’art. 169 TUIR e dell’art. 75 d.P.R. n. 600 del 1973, quest’ultima prevale sull’ordinamento interno.

 

A livello convenzionale, l’art. 12 del Modello OCSE rubricato “Canoni” include tra le royalties anche i compensi corrisposti per l’uso o la concessione in uso di un diritto d’autore su opere letterarie, artistiche o scientifiche “del software”.

 

Sul punto, il Commentario al Modello OCSE chiarisce che il carattere dei pagamenti in transazioni che riguardano il trasferimento di software dipende dalla natura dei diritti che il cessionario acquisisce (§12.2).

 

Lo stesso Commentario, in proposito, precisa che i pagamenti effettuati per l’acquisizione di diritti “parziali” sul diritto d’autore (senza che questi siano alienati integralmente) rappresentano un canone per il quale il corrispettivo viene riconosciuto per la concessione del diritto di usare il programma, laddove l’utilizzo del programma costituirebbe una violazione del diritto d’autore (§13.1). Un esempio: le licenze per riprodurre e distribuire al pubblico un software che incorpora il programma protetto dal diritto d’autore o per modificare e diffondere al pubblico tale programma.

 

Pertanto, l’Agenzia ha specificato che in tali casi si applicano le convenzioni concluse fra l’Italia e il Paese interessato. Dunque, non si applicherà la ritenuta d’imposta del 30% prevista dalla norma domestica, ma la ritenuta inferiore, di origine convenzionale (art. 12).

 

In conclusione, nei casi in cui la royalty è riconosciuta per la concessione del diritto di usare il programma, laddove l’utilizzo del programma costituirebbe una violazione del diritto d’autore, la società italiana tenuta ad applicare la ritenuta d’imposta del 30 per cento potrà beneficiare dell’aliquota convenzionale ridotta.

 

 

g.sforzini@macchi-gangemi.com
d.michalopoulos@macchi-gangemi.com

 

 

DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.

 

 

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