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IL RAPPORTO (IN)FELICE TRA SIAE E I SOCIAL NETWORK: IL CASO META.

 

Meta e SIAE non sono riuscite a trovare un accordo per continuare a garantire la libera condivisione di canzoni e contenuti protetti dalla Società italiana sulle piattaforme social controllate dal colosso di Menlo Park, Instagram e Facebook. L’effetto conseguito è il blocco ed il silenziamento di tutti i contenuti con brani musicali provenienti dal repertorio SIAE, sebbene i creatori avranno la possibilità di sostituirli con altro materiale liberamente disponibile da cataloghi “extra SIAE”: è un caso unico in tutta Europa.

 

Prima di addentrarci nel cuore della vicenda, è opportuno fare un passo indietro e chiarire la posizione di chiunque voglia utilizzare online brani musicali.

 

In linea generale, l’utilizzo e la diffusione online di brani musicali altrui senza il consenso dell’autore costituisce un’attività illecita confliggente con le norme poste a tutela del diritto d’autore. Nel caso, poi, in cui si intenda far uso di un brano ovvero di un’opera musicale altrui all’interno di un social network, il gestore della piattaforma potrebbe richiedere all’utilizzatore il numero o riferimento di licenza necessario al fine di poter validamente sfruttare il contenuto musicale all’interno della propria pagina, pena la rimozione del video o la pubblicazione senza audio.

 

Tuttavia, per venire incontro alle esigenze degli utenti sul web ed evitare che agli stessi venga di volta in volta richiesto di munirsi di licenze o documenti analoghi, sono state introdotte delle ipotesi di utilizzo lecito del brano altrui su social network, per mezzo della sottoscrizione di accordi di licenza tra i gestori delle piattaforme – tra cui Meta – e le società di collecting su scala nazionale, così rendendo maggiormente fruibili il servizio e l’esperienza per gli utilizzatori.

 

Si potrebbe impropriamente immaginare un rapporto trilaterale che vede coinvolti la società di gestione collettiva, il titolare della piattaforma e l’utilizzatore della stessa. Al contrario, l’utente finale è libero di poter disporre del brano o contenuto (all’interno del social, si precisa) proprio in virtù dei rapporti di licenza intercorrenti tra la società di collecting ed il titolare del social media.

 

Restringendo il nostro focus sull’utente (o meglio, sulla sua attività social) ed ipotizzando un contesto privo di alcuna licenza in essere tra il gestore del social network e l’organismo di gestione collettiva, ogni attività di condivisione e diffusione sulle piattaforme online di un proprio contenuto multimediale abbinato ad un sottofondo musicale (si pensi alle Instagram Stories) in assenza di un preventivo consenso da parte dell’autore, costituirebbe indubbiamente una violazione.

 

Il diritto di sincronizzazione, riconosciuto a beneficio di autori ed editori, viene inteso quale facoltà esclusiva di abbinare una propria opera musicale ad una sequenza di immagini fisse o in movimento, al fine di creare un’opera audiovisiva. Le licenze con gli artisti e le relative società di gestione facilitano e legittimano l’accesso al catalogo musicale da parte di milioni (anzi, miliardi) di utenti che ogni giorno condividono le proprie esperienze sui social network corredate da appositi sottofondi musicali.

 

Tutto ciò, però, è venuto meno come conseguenza del mancato rinnovo dell’accordo di licenza tra Meta e SIAE, invero già scaduto a far data dal 1° gennaio 2023, con conseguente impossibilità per gli utenti di utilizzare brani appartenenti al repertorio SIAE nelle app per stories e contenuti originali. SIAE, gestendo un catalogo che ricomprende all’incirca il 99% della musica italiana, ha quindi chiesto di applicare un modello di condivisione delle entrate, chiedendo così a Meta conto del valore economico dei contenuti generati dagli utenti e corredati da brani musicali italiani e facendo sapere di essersi già accordata in modo analogo con YouTube (di Google) e TikTok.

 

I portavoce della società di Mark Zuckerberg esprimono rammarico per l’accaduto e promettono di continuare a lavorare nella speranza di trovare un nuovo accordo, nonostante la posizione ferma di SIAE, la quale nel proprio comunicato riporta come “il rifiuto da parte di Meta di condividere le informazioni rilevanti ai fini di un accordo equo, è evidentemente in contrasto con i principi sanciti dalla Direttiva Copyright per la quale gli autori e gli editori di tutta Europa si sono fortemente battuti”.

 

Sebbene il mancato accordo fra Meta e SIAE abbia scosso profondamente l’industria creativa italiana, sembra potersi comunque escludere il pericolo che Meta possa fare a meno nel lungo periodo della musica di cui, oltretutto, ha continuato a servirsi sino a poche ore fa, pur in assenza di un accordo sottoscritto a tale scopo.

 

Continueremo a seguire la vicenda ed altri casi analoghi nel prossimo futuro. Confidiamo nella vittoria del buon senso a favore sempre di una tutela della creatività.

 

 

m.baccarelli@macchi-gangemi.com
m.lonero@macchi-gangemi.com
c.bonino@macchi-gangemi.com
a.torchia@macchi-gangemi.com

 

 

 

CODICE DEL CONSUMO: LE NOVITÀ DA APRILE 2023.

 

Dopo la riforma del Decreto Legislativo 06/09/2005 n° 206 entrata in vigore nel gennaio 2022, sono state introdotte ulteriori nuove modifiche al Codice del Consumo con uno sguardo più attento al mercato digitale. Le novità saranno vincolanti già dal 2 aprile 2023.

 

Con il Decreto Legislativo 7 marzo 2023, n. 26 (Gazz. Uff. 18.03.2023 n. 66) si registra una nuova stretta sulle pratiche commerciali ingannevoli, e relative omissioni, per tutelare maggiormente il consumatore nelle trattative condotte per l’acquisto di un prodotto su piattaforme digitali, con un sensibile inasprimento delle sanzioni a carico del professionista in presenza di pratiche commerciali scorrette.

 

Prima di tutto, il legislatore introduce nuove regole sulle informazioni che il Professionista è tenuto a fornire al Consumatore sul prezzo di vendita dei beni; nello specifico, con l’inserimento di un nuovo “art. 17-bis”, vengono disciplinati gli annunci di riduzione di prezzo per limitare comportamenti scorretti nell’offerta dei prodotti e, più in generale, per rendere sempre chiaro lo sconto praticato su un determinato bene.

 

Ora, ogni annuncio di riduzione di prezzo dovrà indicare “… il prezzo precedente applicato dal professionista per un determinato periodo di tempo prima dell’applicazione di tale riduzione …” (art. 17-bis comma 1° C.d.C.).

 

Viene altresì chiarito che “… Per prezzo precedente si intende il prezzo applicato dal professionista alla generalità dei consumatori nei 30 giorni precedenti all’applicazione della riduzione del prezzo …” (art. 17-bis comma 2° C.d.C.); per i prodotti immessi sul mercato da meno di trenta giorni, il professionista è inoltre tenuto ad indicare il periodo di tempo a cui il prezzo precedente fa riferimento (art. 17-bis comma 3° C.d.C.), salvo non si tratti di offerte lancio.

 

Per le vendite su internet, nelle ricerche di prodotti con parole chiave devono essere fornite precise informazioni sui parametri che determinano la classificazione dei beni come risultato della ricerca, con l’obbligo di precisare “… l’importanza di tali parametri rispetto ad altri parametri …” (nuovo comma 4° art. 22 C.d.C.); evidentemente, si vuole fornire al Consumatore maggiore consapevolezza sulle modalità di ricerca e selezione dei prodotti nel mercato on-line.

 

Sempre nelle vendite via web, si amplia la casistica delle pratiche commerciali considerate ingannevoli: d’ora in poi, fornire al consumatore i risultati di una ricerca online senza che sia chiaramente indicata la presenza di un annuncio pubblicitario a pagamento o senza precisare che viene fornito un servizio a pagamento per ottenere una classificazione migliore dei prodotti all’interno della ricerca, costituirà a tutti gli effetti una pratica ingannevole (v. nuova lettera “m-bis” sub art. 23 C.d.C.).

 

Apprezzabili anche le nuove disposizioni sulle recensioni dei prodotti offerti in rete: d’ora innanzi il professionista dovrà adottare misure ragionevoli e proporzionate per verificare che le recensioni provengano davvero da coloro che hanno acquistato il bene e/o usufruito del servizio offerto; in più, incaricare soggetti terzi – persone fisiche o giuridiche – per pubblicare recensioni false o apprezzamenti vari su un determinato prodotto per promuoverne la vendita sarà considerata pratica ingannevole (v. nuove lettere “bb-bis” e “bb-ter” sub art. 23 C.d.C.).

 

Si inaspriscono anche le sanzioni per le pratiche commerciali scorrette, il cui importo massimo potrà ora raggiungere i 10 milioni di euro (v. nuovo comma 9 art. 27 C.d.C.) e, in caso di sanzioni inflitte a norma dell’articolo 21 del Regolamento (UE) 2017/2394, l’importo massimo della sanzione irrogata dall’Autorità sarà pari al 4% del fatturato annuo del professionista realizzato in Italia ovvero negli Stati membri dell’Unione europea interessati dalla relativa violazione (v. nuovo comma 9-bis art. 27 C.d.C.).

 

L’attenzione al mercato digitale delle nuove disposizioni si palesa anche con l’introduzione di una nuova definizione di “bene” oggetto di attività commerciale, definizione che include anche “… qualsiasi bene mobile materiale che incorpora, o è interconnesso con, un contenuto digitale o un servizio digitale” (nuova lettera “c” comma 1° art. 45 C.d.C. – “bene con elementi digitali”).

 

Tra le nuove definizioni legate al mondo digitale vanno anche menzionate quelle di servizio digitale (“un servizio che consente al consumatore di creare, trasformare, archiviare i dati o di accedervi in formato digitale” – nuova lettera “q-bis” comma 1° art. 45 C.d.C.) di mercato online (“un servizio che utilizza un software, compresi siti web, parte di siti web o un’applicazione, gestito da o per conto del professionista, che permette ai consumatori di concludere contratti a distanza con altri professionisti o consumatori” – nuova lettera “q-ter” comma 1° art. 45 C.d.C.) e quella di fornitore di mercato online (“qualsiasi professionista che fornisce un mercato online ai consumatori” nuova lettera “q-quater” comma 1° art. 45 C.d.C.).

 

In ogni caso, tutte le regole sulle informazioni precontrattuali da fornire ai consumatori nei contratti a distanza (e non), nei contratti conclusi dentro i (e fuori dai) locali commerciali e nello specifico quelle sul recesso, sugli obblighi di consegna, sui passaggi di rischio, ecc. (Sezioni da I a IV del Capo I, Titolo III C.d.C.), si applicheranno anche “… se il professionista fornisce o si impegna a fornire un contenuto digitale mediante un supporto non materiale o un servizio digitale al consumatore …” (art. 46, inedito comma “1-bis”).

 

Un adeguamento del Codice del Consumo al mondo digitale che, nel complesso, va sicuramente apprezzato per la maggiore tutela che offre al consumatore sotto vari profili (e contesti).

 

 

e.storari@macchi-gangemi.com

 

 

DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.

 

 

 

L’ORGANO DI CONTROLLO ED IL REVISORE NELLE SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA: AVREMO FINALMENTE UN SISTEMA DI ALLERTA DELLO STATO DI CRISI DELL’IMPRESA?

 

Negli ultimi anni, la disciplina delle S.r.l. è stata oggetto di diversi interventi normativi che incidono sui soggetti cui è delegato il controllo (organo di controllo o società di revisione) e sull’obbligo o meno di nomina. Per le S.r.l. le ultime modifiche sono state introdotte dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza e, dopo diversi rinvii, troveranno concreta applicazione a breve, alla data di approvazione del bilancio 2022.

 

Nel nostro ordinamento, il codice civile prevede che al collegio sindacale (artt. 2397 e segg.) siano attribuite funzioni di vigilanza (2403 cc.) ed eventualmente funzioni di revisione legale (2409-bis), ove i suoi membri siano iscritti nell’apposito registro dei revisori legali e sempre che la società non sia tenuta al bilancio consolidato. In linea di principio, tali norme trovano applicazione tanto per le S.p.a. quanto per le S.r.l..

 

Nelle S.p.A. è sempre obbligatoria la nomina del collegio sindacale con funzioni di vigilanza della gestione e questo può svolgere anche funzioni di revisione legale dei conti se tali funzioni non sono state affidate al revisore/società di revisione e se sono rispettate le condizioni di cui sopra.

 

Per “funzioni di vigilanza della gestione” si intendono quelle consistenti nella verifica dell’osservanza della legge, dello statuto e della corretta amministrazione ed, in particolare, nella verifica dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, nonché del suo concreto funzionamento. Nell’ambito di tali funzioni, i membri del collegio sindacale partecipano alle assemblee dei soci ed alle adunanze del consiglio di amministrazione.

 

Per funzioni di “revisione legale dei conti” – ai sensi dell’art. 14 d.lgs. n. 39/2010 – si intendono quelle di revisione del bilancio (ed eventualmente del bilancio consolidato) tese ad accertare la regolare tenuta della contabilità sociale, la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili ed, infine, l’osservanza delle norme stabilite per la valutazione del patrimonio sociale. In tale ambito, almeno 15 giorni prima dalla data di approvazione del bilancio, il collegio sindacale- ove gli siano state attribuite le funzioni di revisione- il revisore o la società di revisione esprime con apposita relazione un giudizio sul bilancio di esercizio (e sul bilancio consolidato ove redatto) ed illustra i risultati della revisione legale (v. art. 2429 c.c.).

 

Nelle S.r.l., secondo quanto disposto dall’art. 2477 c.c., l’atto costitutivo può prevedere – determinandone competenze e poteri, ivi compresa la revisione legale dei conti – la nomina di un organo di controllo o di un revisore, stabilendo che l’organo sia monocratico, ove lo statuto non preveda un organo collegiale. Ai sensi dell’art. 2477 c.c., secondo comma, la nomina dell’organo di controllo o del revisore è obbligatoria quando la società:

 

a) è tenuta alla redazione del bilancio consolidato;

 

b) controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti;

 

c) ha superato, per due esercizi consecutivi, almeno due dei seguenti limiti (i) attivo patrimoniale di € 4 milioni; (ii) limite di ricavi da vendite e prestazioni di € 4 milioni; (iii) limite relativo ai dipendenti occupati in media durante l’esercizio di 20 unità.

 

L’obbligo di nomina cessa, comunque, quando, per 3 esercizi consecutivi, non è stato superato alcuno dei predetti limiti.

 

Ai sensi dell’art. 379 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (“CCII”) che è intervenuto anche sul citato art. 2477 c.c., le S.r.l. costituite alla data di entrata in vigore del CCI medesimo (15/07/2019) quando ricorrono i requisiti di cui sopra devono provvedere a nominare gli organi di controllo o il revisore e, ove necessario, ad uniformare l’atto costitutivo e lo statuto entro la data di approvazione del bilancio relativo all’esercizio 2022 (entro i 4 mesi successivi). Quindi, ove l’esercizio finanziario sia 1 gennaio -31 dicembre 2021, la nomina o la modifica devono intervenire entro il 30 aprile 2022 (salvo differimento dell’approvazione del bilancio al 30 giugno 2022 ai sensi dell’art. 2364, comma 2, c.c.).

 

Pertanto, all’atto della costituzione ovvero in una successiva assemblea, i soci possono nominare:

 

(i) un collegio sindacale/sindaco unico incaricato delle funzioni di vigilanza della gestione e di revisione legale (ipotesi consentita, sempre che siano rispettate le condizioni di cui sopra, dal rinvio effettuato alla disciplina dei sindaci delle p.A. v. art. 2409-bis, comma 2);

 

(ii) un collegio sindacale incaricato delle funzioni di vigilanza della gestione con conferimento dell’incarico di revisione ad un revisore esterno/società di revisione (ad esempio quando la società è tenuta alla redazione del bilancio consolidato ovvero i membri del collegio non sono tutti iscritti nell’apposito registro dei revisori legali);

 

(iii) un solo revisore legale, persona fisica o società, incaricato unicamente della revisione legale (ciò in assenza di una specifica previsione che deleghi al revisore legale le funzioni di vigilanza della gestione, anche se – secondo alcuni – potrebbero essergli affidate dallo statuto).

In altre parole, in tale ultima ipotesi sub (iii), ove non si ammettesse che in forza di una specifica previsione statutaria, al revisore/società di revisione possano essere delegate anche le funzioni di vigilanza della gestione, la S.r.l. sarebbe privata di tale controllo.

 

La questione è senz’altro già stata ampiamente discussa dalla dottrina, con interpretazioni discordanti, ma torna di attualità perché il novellato articolo 2086 c.c., al comma 2, prevede che: “L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale

 

Per quanto sopra si ritiene che, ove la nomina dell’organo di controllo/revisore sia obbligatoria, debbano essere garantite sia le funzioni di vigilanza della gestione che quelle di revisione legale, in linea con quanto già sostenuto negli orientamenti societari ID13 dal Comitato Interregionale dei consigli notarili del Triveneto, così parificando sostanzialmente la S.r.l. alla S.p.A. e ciò ai sensi del comma 6 dell’articolo 2477 del codice civile, nella parte in cui la norma attribuisce al Tribunale il potere di nomina dell’organo di controllo o del revisore nel caso di inerzia dei soci, su richiesta di qualsiasi soggetto interessato o su segnalazione del conservatore del registro delle imprese. La chiamata in causa del Registro delle imprese fa sì che l’intervento del Tribunale, limitatamente al caso di mancata nomina per superamento dei limiti parametrici, sia oggi non più eventuale ma sostanzialmente automatico. Il giudice competente avrà non solo l’incombenza di scegliere il soggetto nominabile, ma altresì l’onere di individuare il tipo di controllo a cui sottoporre la società.

 

In caso contrario sarebbe davvero difficile avere un sistema di allerta dello stato di crisi dell’impresa, che costituirebbe uno degli obiettivi primari del CCII. Tanto più che le S.r.l., per la loro dimensione, molto spesso non sono adeguatamente strutturate ed il sottoporle alla sola revisione legale dei conti significherebbe esporle ad un potenziale, e forse elevato, rischio di non rispettare la legge.

 

 

e.pucci@macchi-gangemi.com
a.buttarelli@macchi-gangemi.com

 

 

 

LA FUSIONE INVERSA SEMPLIFICATA: IL CONTRIBUTO DEI NOTAI DEL TRIVENETO SULL’ESTENDIBILITÀ DELL’ART. 2505-BIS C.C. ALLE IPOTESI DI “FUSIONE INVERSA”.

 

Il Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie ha recentemente pubblicato un orientamento in tema di “fusione inversa semplificata” (orientamento L.A. 35), il quale ha affermato la possibilità di estendere la procedura di fusione semplificata di cui all’art. 2505-bis c.c. anche alle ipotesi di “fusione inversa” non totalitaria, ossia in tutti i casi in cui la società controllante che detiene almeno il novanta percento del capitale sociale della controllata viene da essa incorporata.

 

La procedura di fusione c.d. semplificata è disciplinata all’art. 2505 c.c., e consente che la fusione di società interamente possedute (c.d. fusione totalitaria) possa essere decisa dai rispettivi organi amministrativi in assenza della documentazione prevista dalla disciplina ordinaria agli articoli del codice civile 2501-ter, primo comma, numeri 3) (rapporto di cambio), 4) (modalità di assegnazione delle azioni) e 5) (data alla quale le azioni o quote parteciperanno agli utili), art. 2501-quinquies (relazione degli amministratori sul rapporto di cambio) e 2501-sexies (relazione degli esperti sul rapporto di cambio). La giustificazione è basata sulla ratio stessa della norma, che risiede nella superfluità di determinare il rapporto di cambio delle azioni o quote e degli adempimenti ivi connessi in quanto la società incorporante è al contempo socio unico (ossia possiede il cento per cento del patrimonio) della società incorporata.

 

L’estendibilità della procedura semplificata di fusione di cui all’art. 2505 c.c. alle fattispecie di fusione inversa è un argomento dibattuto in dottrina da tempo. Già nel 2004, la massima n 22 del Consiglio Notarile di Milano aveva ritenuto applicabile la procedura di fusione semplificata alle ipotesi di fusione inversa totalitaria, ovvero ai casi in cui la società interamente controllata incorpora la società controllante. In tali ipotesi, si ritiene non vi sia ragione di temere che la fusione possa comportare una lesione della consistenza della partecipazione dei soci delle società partecipanti al procedimento, e di conseguenza non vi è ragione di predeterminare un apposito rapporto di cambio, in quanto i soci della società incorporata diverranno titolari di azioni o quote della società incorporante in misura proporzionalmente uguale a quella di cui essi erano anteriormente titolari (nella società incorporata).

 

L’art 2505-bis c.c. disciplina invece il procedimento semplificato di fusione nel caso di società possedute almeno al novanta per cento (c.d. fusione non totalitaria). Diversamente da quanto previsto nell’ipotesi di cui all’art. 2505 c.c., la fattispecie semplificatoria qui in esame esclude la necessità di una situazione patrimoniale aggiornata (art. 2501-quater), della relazione degli amministratori (art. 2501-quinquies), della relazione degli esperti (art. 2501-sexies) nonché del deposito degli atti di cui all’art 2501-septies, qualora sia permesso ai soci di minoranza di vendere le proprie partecipazioni alla società incorporante alla stregua dei criteri previsti per il recesso all’art. 2473 c.c. (c.d. diritto di sell out). I soci di minoranza si troveranno quindi a dover decidere se accettare la fusione vedendo sostituire le partecipazioni nella incorporante nei termini stabiliti nel rapporto di cambio, oppure avranno la possibilità di cedere le azioni o le quote alla incorporante al valore di mercato.

 

Il recente orientamento del Consiglio Notarile del Triveneto suggerisce l’estensione analogica del procedimento semplificato di cui all’art. 2505-bis c.c. alle ipotesi di fusione inversa non totalitaria, ossia in materia di fusione inversa per incorporazione di società possedute almeno al novanta per cento. A ben vedere, la posizione assunta dai Notai del Triveneto diverge dalle interpretazioni più diffuse che invece si muovono in senso contrario all’estendibilità della disciplina semplificatoria in esame. Alcuni, in linea generale, attribuiscono al carattere di eccezionalità della norma in commento l’impossibilità di un’applicazione analogica ad ipotesi che non siano specificatamente contemplate dal legislatore; secondo altre posizioni, invece, l’estensione del procedimento semplificato non sarebbe ammissibile in quanto nell’ipotesi di fusione inversa non-totalitaria sarebbero i soci della controllante-incorporata a “subire” il concambio di fusione. Si avrebbe cioè una circostanza del tutto differente rispetto a quella di cui all’art. 2505-bis c.c. in cui sono i soci di minoranza della controllata a vedere le proprie partecipazioni concambiate nell’ambito della fusione e ciò renderebbe inapplicabile un’estensione analogica della norma in commento.

 

Nonostante, quindi, gli orientamenti più consolidati siano restii a riconoscere una maggiore flessibilità dello schema delineato dall’articolo 2505-bis c.c., l’orientamento L.A. 35 del Comitato Interregionali dei Consigli Notarili del Triveneto cerca invece di fornire una lettura differente che potrebbe costituire un importante contributo in merito. Sarà certamente utile valutare e comprendere le ragioni che hanno spinto i Notai del Triveneto a prendere questa posizione, qualora le stesse verranno pubblicate.

 

 

a.frau@macchi-gangemi.com
m.grimaldi@macchi-gangemi.com

 

 

 

NUOVE FRONTIERE DELLA NULLITÀ CONTRATTUALE NEI DERIVATI OTC. CAUSA IN CONCRETO O CAUSA IN ASTRATTO?

 

Con sentenza del 23 dicembre 2022 il Tribunale di Milano ha dichiarato la nullità del contratto swap di copertura del sottostante leasing finanziario indicizzato “per insussistenza in astratto dell’alea in relazione a tutte le variazioni del tasso parametro […]” e a causa della conseguente “mancanza della causa di copertura”.

 

Nella vicenda che ha interessato il Tribunale di Milano, una società aveva stipulato il 30 gennaio 2012 uno swap a copertura del rischio di oscillazione del tasso variabile (euribor 3M) al quale venivano indicizzati i canoni del sottostante contratto di leasing finanziario. Attraverso il contratto swap la società aveva così neutralizzato il rischio di oscillazione del tasso e quindi il rischio di un probabile incremento del pagamento delle quote indicizzate originate dal leasing sottostante, trasformando sinteticamente l’indebitamento a tasso variabile del sottostante leasing, in un indebitamento a tasso fisso (2,537%). La trasformazione sintetica del tasso permetteva alla società contraente, in uno scenario di tassi decrescenti, al di sotto del tasso fisso indicato nel contratto swap, di compensare i pagamenti dovuti alla banca in base allo swap con minori esborsi realizzati sul sottostante leasing, mentre in uno scenario di tassi crescenti al di sopra del tasso fisso indicato nello swap, di ricevere i flussi differenziali dalla banca. La correlazione fra il contratto swap di copertura e il sottostante leasing finanziario non era tuttavia perfetta per via della presenza nel contratto di leasing finanziario di una clausola floor (per cui il tasso variabile euribor 3M non avrebbe potuto scendere al di sotto dello 0,3%), componente assente nello swap.

 

Tale soglia minima, secondo l’organo giudicante, avrebbe impedito allo swap di conseguire “l’effetto di stabilizzazione del tasso per valori dell’euribor 3M pari o inferiori allo 0,3% (…) perché la diminuzione dell’interesse della gamba variabile dell’IRS (incassata dal cliente) non è compensata dalla diminuzione dell’interesse pagato nel debito sottostante che presenta, appunto, un livello minimo (floor) pari allo 0,3%.”.

 

In buona sostanza, in corrispondenza di valori euribor 3M uguali od inferiori allo 0,3% la società contraente avrebbe affrontato oneri maggiori (non conseguendo i risparmi sul leasing sottostante, pur essendo tenuta a pagare il differenziale in base al contratto di swap), mentre la controparte bancaria sarebbe stata certa di incassare il pagamento. Il Giudice ha ritenuto, pertanto, che al di sotto del tasso floor mancasse “completamente ed in astratto la sussistenza della causa concretamente perseguita dalle parti con la stipulazione del derivato di copertura” e che l’intermediario non avesse assunto ex ante alcun rischio rispetto al valore differenziale. Ciò ha travolto la validità del contratto swap “per mancanza della causa di copertura” nonché “per insussistenza in astratto dell’alea in relazione a tutte le variazioni del tasso parametro inferiori allo 0,3%”.

 

Le motivazioni, criptiche nel fondamento giuridico, suscitano diversi ordini di perplessità.

 

Quanto alla funzione di copertura, l’efficacia della copertura viene solitamente valutata in base a parametri tecnico-normativi i quali, nella sostanza, presuppongono l’esistenza di un’elevata correlazione fra lo strumento di copertura del rischio (i.e., il derivato) e il sottostante (in questo caso, il contratto di leasing indicizzato). Sono di copertura i contratti che neutralizzano o mitigano determinati rischi appartenenti ad un portafoglio sottostante.

 

Nel caso di specie, nonostante il consulente tecnico accerti l’esistenza di una elevata correlazione fra derivato e sottostante e ne confermi la funzione di copertura, il Giudice annulla il contratto derivato per via della mancata stabilizzazione del tasso negli scenari al di sotto del tasso floor (0,3%) previsto nel sottostante leasing (che si sarebbero verificati nel 13,89% dei casi in base ad una stima ex ante del consulente). Circostanza che non dovrebbe condurre ad affermare la mancanza della funzione di copertura dell’intero contratto swap, visto che nei residui 86,11% dei casi il derivato svolge pienamente la funzione di copertura. Sembrerebbe, invece, corretto affermare che il derivato in questione ha una funzione prevalentemente di copertura.

 

La pronuncia sembra introdurre, quindi, un concetto di copertura più rigoroso rispetto a quello richiesto dai parametri normativi (delibera Consob 26 febbraio 1999 DI/99013791) e dalla giurisprudenza arrivando a dichiarare la nullità contrattuale in mancanza di una copertura perfetta.

 

Le perplessità sono ancor più tangibili se si guarda alle conseguenze giuridiche che dovrebbero derivare dal porre in essere un derivato di natura diversa da quella dichiarata negozialmente fra le parti, posto che sono causalmente leciti tanto i derivati di copertura, quanto i derivati speculativi. Per gli enti locali o i fondi pensione, ad esempio, la funzione di copertura dei derivati è richiesta da norme speciali, ma non è così fra privati. Il carattere speculativo o di copertura del derivato stipulato fra privati è (o dovrebbe essere, visti i più recenti approdi giurisprudenziali) irrilevante civilisticamente, dovrebbe avere un rilievo convenzionale fra le parti e porsi come una preclusione operativa, non priva di conseguenze giuridiche in termini risarcitori, ma non tale da pregiudicare la liceità intrinseca del derivato o la sua causa, intesa come finalità astratta o funzione economico sociale del contratto.

 

In altri termini, anche in presenza di un accordo fra le parti per porre in essere un derivato di copertura, nulla esclude che le stesse possano porre in essere consapevolmente un derivato con finalità miste, o solo in parte speculative, comunque voluto ed accettato da entrambe le parti. Solo nel caso in cui il cliente dell’intermediario dimostri di non aver compreso la natura speculativa dell’operazione ex ante (e non attraverso una ricostruzione ex post della efficacia della copertura) sarebbe possibile agire per la risoluzione del contratto con connessi effetti risarcitori, mentre il rimedio della nullità del contratto e i connessi effetti restitutori paiono discutibili dal punto di vista giuridico.

 

Ciononostante, si registrano orientamenti giurisprudenziali che danno rilievo alla causa in concreto dei derivati OTC affermando che quando uno swap con funzione di copertura è strutturalmente inidoneo a conseguirla, deve esserne dichiarata la nullità per carenza di causa (Cass. 31 luglio 2017, n. 19013, orientamento che non pare recepito dalle SS. UU. nella sentenza che ha accolto la discutibile teoria dell’alea razionale, SS. UU. n. 8770/2020, e molto criticato in dottrina).

 

Quanto all’elemento dell’aleatorietà, l’affermazione del Giudice che ritiene insussistente l’alea negli scenari in cui il tasso è inferiore allo 0,3% non sembra rigorosa. In questo scenario di tasso, la società contraente continua a pagare i differenziali in base allo swap, ma non realizza i risparmi sul pagamento dei canoni del leasing sottostante. Al di sotto dello 0,3%, cambiano, quindi, soltanto le conseguenze economiche per la società contraente, ma non viene meno l’aleatorietà nello swap. Pare evidente che si sia confuso l’effetto economico causato dal floor nel leasing e/o le esigenze di copertura della società con l’elemento aleatorio dello swap che non viene a mancare nel caso concreto anzi sussiste per tutte le variazioni del tasso parametro, con conseguenze economiche diverse negli scenari di tasso inferiori allo 0,3%.

 

L’alea o la rischiosità sottesa al variare del tasso parametro esiste a prescindere dalle esigenze di copertura che possono anche mancare del tutto. I contratti speculativi rimangono aleatori. La società ben avrebbe potuto consapevolmente decidere di coprire il rischio di oscillazione del tasso al di sopra dello 0,3% sopportando maggiori oneri sul sottostante in contropartita della copertura ottenuta dalla banca. Siamo nel campo degli oneri informativi, della consapevolezza sull’efficacia della copertura da parte della società contraente, ma non nel governo dell’alea che nel caso di specie permea tutti gli scenari di tasso nello swap.

 

 

m.divincenzo@macchi-gangemi.com

 

 

 

INTERESSI PASSIVI DEDUCIBILI SENZA IL TEST DEL ROL: LE NOVITÀ DELLA RIFORMA FISCALE.

 

Il disegno di Legge di delega al Governo per la riforma fiscale, approvato dal Consiglio dei ministri in data 16 marzo 2023, introduce numerose novità di natura fiscale. Tra queste, l’articolo 6 rivisita il regime degli interessi passivi per le società ed enti introducendo una franchigia di oneri finanziari (che la Direttiva ATAD I fissa in 3 milioni di Euro) entro la quale i limiti di deducibilità, basati sul 30% del ROL, non operano.

 

L’attuale disciplina domestica sulla deducibilità degli interessi passivi per i soggetti passivi IRES (diversi dagli intermediari finanziari) è dettata dall’articolo 96 del d.P.R. 917 del 1986 (“TUIR”). Tale disciplina, che riflette le modifiche richieste su base comunitaria (articolo 4, paragrafo 1, Direttiva UE n. 1164 del 2016, “Direttiva ATAD I”), prevede in particolare che gli interessi passivi e gli oneri assimilati siano deducibili in ciascun periodo d’imposta:

 

(i) sino a concorrenza degli interessi attivi e dei proventi assimilati, e

 

(ii) per l’eventuale eccedenza, nel limite del Risultato Operativo Lordo della gestione caratteristica (“ROL”).

 

In tale scenario, il disegno di Legge di delega al Governo per la riforma fiscale interviene in tema di “[…] revisione della disciplina di deducibilità degli interessi passivi anche attraverso l’introduzione di apposite franchigie […]” (articolo 6, comma 1, lettera c) del d.d.L.).

 

Tale rivisitazione trae origine dalla stessa Direttiva ATAD I, che all’articolo 4, paragrafo 3, consente, in deroga alla disciplina generale, di dedurre gli oneri finanziari eccedenti fino ad un massimo fissato a 3 milioni di Euro.

 

Lo scopo della modifica è rendere meno penalizzanti i vincoli posti dalla disciplina relativa alla deducibilità degli interessi passivi per le piccole e le medie imprese ma, contestualmente, di mantenere il contrasto all’elusione fiscale e all’erosione della base imponibile (coerentemente con lo scopo primario della Direttiva ATAD I).

 

Dopo il confronto con i rappresentanti delle sigle sindacali, delle associazioni di categoria e degli Ordini professionali, il disegno di Legge delega è approdato il 16 marzo 2023 in Consiglio dei Ministri ed è stato approvato.

 

Dopo l’entrata in vigore della Legge, il Governo adotterà i decreti delegati di attuazione dei principi espressi nella delega entro i successivi 24 mesi.

 

 

a.salvatore@macchi-gangemi.com
f.dicesare@macchi-gangemi.com
d.michalopoulos@macchi-gangemi.com

 

 

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