CHATGPT: RIFLESSIONI SUL BLOCCO IMPOSTO AGLI UTENTI ITALIANI.
Il provvedimento cautelare adottato d’urgenza dal Garante italiano per la protezione dei dati personali si è trasformato in una querelle tra due fazioni: chi ritiene che in questo modo si voglia bloccare l’innovazione e la tecnologia e chi sostiene che la tutela dei diritti e delle libertà delle persone sia superiore allo sviluppo degli strumenti di intelligenza artificiale (AI).
ChatGPT è un particolare tipo di “Generative AI” o “Intelligenza Artificiale Generativa”: una macchina in grado di generare un’informazione nuova partendo da una serie di input che le vengono dati. Gli input sono costituiti da migliaia di dati personali raccolti in due fasi: i) durante l’addestramento dell’AI (con raccolta di dati già reperibili online); ii) durante l’utilizzo del chatbot (dove l’utente fornisce ulteriori informazioni).
La causa scatenante della querelle è da rinvenirsi in un bug, che qualche giorno fa ha comportato una violazione della sicurezza informatica: per circa nove ore sono stati visibili estratti delle conversazioni di ChatGPT di altri utenti, nonché una serie di altre informazioni (come dati sulle carte di credito).
Le contestazioni che il Garante italiano ha mosso sono:
1. mancanza di una base giuridica per la raccolta dei dati nella fase di addestramento del chatbot;
2. mancanza di un’informativa riguardo alle ulteriori informazioni che l’utente fornisce;
3. inesattezza dei dati forniti dalla chat, in quanto è emerso che spesso il chatbot associa dati reali e corretti con dati inesatti, proponendo, quindi, una rappresentazione non in linea con l’identità reale della persona;
4. assenza di sistemi di verifica dell’età degli utenti minori.
Il mondo della data protection (e non solo) si è diviso:
– da un lato vi è chi ritiene proporzionato e dovuto il provvedimento del Garante, sulla base del fatto che un dato pubblico non può essere trattato liberamente e che un’informativa debba essere resa in conformità con il GDPR. In questo senso, non sarebbero sufficienti alert che le informazioni potrebbero essere inesatte e che non ci si può appellare al dato che ChatGPT4 è in fase sperimentale e che, dunque, eventuali falle nell’utilizzo siano da giustificare; inoltre, la mera enunciazione che il servizio è precluso ai minori di anni 13 non escluderebbe che gli stessi possano accedervi ugualmente e ricevere risposte inidonee rispetto al loro grado di sviluppo e autoconsapevolezza;
– dall’altro vi è chi, invece, ritiene il provvedimento affrettato e che sia stato emanato per questioni di “visibilità” del Garante. Per costoro, OpenAI fornisce una privacy policy che viene ritenuta adeguata; ha un proprio rappresentante in Europa; non si può pretendere che le informazioni siano necessariamente corrette, in quanto ChatGPT non si propone come servizio di informazione ed, in ultimo, il servizio è vietato ai minori di 13 anni ed esiste un canale per segnalare il profilo dei minorenni.
OpenAI che, come primo riscontro ha imposto un blocco agli utenti italiani, ha manifestato al contempo la sua volontà di collaborare con il Garante. In tal senso, è stato emblematico l’incontro in videoconferenza con il Garante, tenutasi lo scorso 5 aprile, in cui OpenAI si è impegnata a rafforzare la trasparenza nell’uso dei dati personali degli interessati, i meccanismi esistenti per l’esercizio dei diritti e le garanzie per i minori.
Toccherà poi nuovamente al Garante valutare la congruità di tali misure.
Chi abbia ragione in questa vicenda è difficile dirlo, sicuramente sarà un tema “scottante” nei mesi a venire anche per l’importanza sempre maggiore, anche a livello di investimenti finanziari, che l’intelligenza artificiale sta acquistando.
f.montanari@macchi-gangemi.com
l.laterza@macchi-gangemi.com
FORSE NON TUTTI SANNO CHE…
Breve aggiornamento di procedura civile secondo le ultimissime pronunce della Corte di Cassazione depositate nel mese di marzo 2023.
Con ordinanza del 2 marzo 2023 n. 6318, la Cassazione ha stabilito che – in caso di notifica a mezzo PEC – la procura rilasciata su supporto analogico e trasformata in copia informatica necessita dell’attestazione di conformità all’originale del difensore nella relata di notifica, a pena di inammissibilità del ricorso.
Gli Ermellini ricordano che la mancanza dell’attestazione di conformità della procura alle liti notificata a mezzo PEC unitamente al ricorso non comportava l’inammissibilità della notifica ma una mera irregolarità che, nel contesto della costituzione mediante deposito del fascicolo cartaceo, poteva essere sanata dal tempestivo deposito del ricorso e della procura in originale analogico, corredati dall’attestazione mancante.
Ma ciò era, appunto, in un “contesto di deposito del fascicolo cartaceo”, oggi totalmente soppiantato dall’obbligo di deposito telematico degli atti anche nel giudizio in Cassazione.
Dalla mancata attestazione di conformità della procura alle liti nella relata di notifica, in un contesto di deposito telematico degli atti, la Cassazione ha dunque concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Tanto dovrà, perciò, essere tenuto in debita considerazione quando si notifica un ricorso in Cassazione.
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Con sentenza n. 6944 dell’8 marzo 2023, in tema di deposito telematico di un atto processuale, la Cassazione ha stabilito che la presenza – all’esito dei controlli di cancelleria – di un “errore fatale” che, non imputandosi necessariamente a colpa del mittente, esprime soltanto l’impossibilità del sistema di caricare l’atto nel fascicolo telematico, impedendo al cancelliere l’accettazione del deposito, oltre a consentirne l’eventuale rinnovazione con rimessione in termini, non determina effetti invalidanti, quando vi sia il raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156, 3° co., c.p.c.
Sulla scorta di tale principio, la Cassazione ha ritenuto sussistenti i presupposti per la rimessione in termini del difensore che – pur avendo disposto il comando del deposito telematico entro il giorno di scadenza – riscontrava che, per un problema di carattere informatico e telematico, assolutamente imprevisto ed imprevedibile, il sistema impiegava parecchi minuti a caricare la busta telematica, così che le PEC relative alla accettazione, consegna ed anche all’esito dei controlli automatici venivano generate pochi minuti (solo 12) dopo la mezzanotte.
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Con ordinanza del 31 marzo 2023, n. 9102, la Cassazione ha ribadito (replicando quanto già stabilito da Cass. n. 40035/2021) che “ai fini della sussistenza della condizione di procedibilità di cui al D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, commi 2 e 2 bis, ciò che rileva nei casi di mediazione obbligatoria ope iudicis è l’utile esperimento, entro l’udienza di rinvio fissata dal giudice, della procedura di mediazione, da intendersi quale primo incontro delle parti innanzi al mediatore e conclusosi senza l’accordo, e non già l’avvio di essa nel termine di quindici giorni indicato dal medesimo giudice delegante con l’ordinanza che dispone la mediazione”.
La Corte ha dunque escluso la perentorietà del termine di 15 giorni per la presentazione della domanda di mediazione poiché: (a) non è prevista alcuna espressa sanzione di improcedibilità nel caso di omesso avvio della mediazione delegata nel termine di 15 giorni; (b) l’attivazione della mediazione delegata non costituisce attività giurisdizionale ed appare, perciò, impropria l’applicazione di termini perentori in mancanza di espresse previsioni in tal senso; (c) la fissazione della prima udienza successiva alla mediazione deve tenere conto del termine massimo della durata della mediazione; ed infine (e) perché la ratio legis della stessa mediazione (cioè la ricerca della soluzione migliore possibile per le parti) mal si concilia con la natura perentoria del termine.
ELEMENTI SINTOMATICI DELLA NON PERSEGUIBILITÀ DEL RISANAMENTO E REVOCA DELLE MISURE PROTETTIVE NELL’AMBITO DELLA COMPOSIZIONE NEGOZIATA.
In una recente pronuncia di merito, il Tribunale di Palermo, ha posto l’attenzione sui requisiti oggettivi in mancanza dei quali debbono essere revocate le misure protettive nell’ambito della composizione negoziata della crisi avviata dal debitore.
È utile ricordare, che, con l’istanza di nomina dell’esperto in fase di avvio del procedimento di composizione negoziata, nonché in un momento successivo, l’imprenditore può richiedere l’applicazione di misure protettive del patrimonio, previste e disciplinate dagli artt. 18 e seguenti del Codice della Crisi d’Impresa e d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII). A seguito della pubblicazione sul registro delle imprese, i creditori interessati non possono acquisire diritti di prelazione se non concordati con l’imprenditore, né possono iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari sul suo patrimonio o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l’attività di impresa. Le misure protettive debbono tuttavia essere confermate dal Tribunale secondo quanto disposto dall’art. 19 CCII.
È ben chiaro che tali misure risultano talvolta di estrema importanza per le società che intendono fronteggiare il proprio stato di crisi utilizzando lo strumento della composizione negoziata. E che quindi il vaglio del Tribunale diventa decisivo.
Nel caso recentemente sottoposto al Tribunale di Palermo, la società ricorrente, possedendo il presupposto soggettivo dettato dall’art. 12, co. 1. CCII (e dunque essendo un imprenditore commerciale in condizioni di squilibrio economico-finanziario), aveva presentato istanza di composizione negoziata della crisi e aveva chiesto l’applicazione delle misure protettive del patrimonio.
Il giorno immediatamente successivo alla pubblicazione nel Registro delle Imprese dell’istanza e dell’accettazione dell’esperto, la ricorrente aveva presentato il ricorso per la conferma delle misure.
Con l’ordinanza del 2 marzo 2023, il Tribunale di Palermo si è soffermato in termini molto chiari sui requisiti oggettivi necessari alla conferma delle misure, ricavandoli, in particolare, da cinque disposizioni dell’ormai non più neonato CCII, ovvero: (i) deve risultare ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa (art. 12, comma 1, CCII), quindi (ii) vi deve essere una concreta prospettiva di risanamento (art. 17, comma 5, CCII), (iii) le misure richieste devono essere dunque funzionali al buon esito delle trattative (art. 19, comma 4, CCII) e, infine (iv) il giudice può prorogare la durata delle misure già disposte solo per il tempo necessario ad assicurare il buon esito delle trattative e può revocarle quando esse non soddisfano l’obiettivo di assicurare il buon esito delle trattative o appaiono sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori (art. 19, comma 5, CCII).
Alla luce di tali disposizioni, il Tribunale di Palermo, facendo proprie le considerazioni già espresse in un precedente del Tribunale di Piacenza, ha ritenuto che, in un’ottica di valutazione di proroga della concessione delle misure protettive, sia necessaria “una razionale, credibile e non manifestamente infattibile prospettiva di risanamento” affermando che le misure protettive trovano la propria giustificazione nell’intento di porre al riparo il patrimonio dell’imprenditore da iniziative che possono pregiudicare il risanamento dell’impresa.
Su tale premessa, il Tribunale di Palermo ha elencato gli elementi, sia estrinseci che intrinseci, che sarebbero indicativi della idoneità della composizione negoziata a perseguire l’obiettivo del risanamento.
Gli elementi che devono sussistere sono:
1. “l’espressa manifestazione di disponibilità alle trattative da parte di una platea di creditori ampiamente rappresentativa dell’intero ceto;
2. l’attestato di fiducia dell’esperto (desumibile dal parere positivo reso anche sulla scorta delle trattative già eventualmente instaurate e degli accertamenti preliminari svolti);
3. la mancanza di iniziative esecutive o liquidatorie in essere;
4. la chiarezza della strategia di risanamento;
5. la ragionevolezza e la solidità delle assunzioni del progetto di piano di risanamento;
6. il fatto che la continuità non stia distruggendo risorse, di modo da indurre a ritenere con un buon grado di tranquillità che l’eventuale stay non possa verosimilmente pregiudicare i creditori;
7. il fatto che la prospettiva liquidatoria possa immaginarsi esiziale per la gran parte dei creditori.”
Ebbene, il caso sottoposto all’esame del Tribunale di Palermo presentava caratteristiche antitetiche rispetto ai requisiti richiesti e sopra riportati. In particolare, risultava pendente una procedura esecutiva immobiliare avente ad oggetto l’immobile in cui la stessa società ricorrente esercitava la propria attività. Non vi era nemmeno il conforto di un orientamento positivo da parte dei creditori, i quali avevano “mostrato posizioni di chiusura”. Lo stesso piano di risanamento, infine, ipotizzava ricavi non in linea con i dati storici e presentava discrepanze rispetto alle risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio espletata nella procedura esecutiva (consulenza che aveva messo in luce tempi di conseguimento dei ricavi a regime diversi da quelli rappresentati e una differente valutazione della composizione dei ricavi stessi).
Sulla base di queste considerazioni e criticità, il Tribunale ha quindi concluso rigettando il ricorso presentato ai sensi dell’art. 19 comma 1 CCII e revocando le misure protettive oggetto dell’istanza del debitore.
g.bonfante@macchi-gangemi.com
a.savoia@macchi-gangemi.com
LIMITI DEL POTERE DI NON AGGIUDICARE UNA GARA DI APPALTO E DOVERE DELLA STAZIONE APPALTANTE DI FAR SCORRERE LA GRADUATORIA IN FAVORE DEL SECONDO CLASSIFICATO. IL CONSIGLIO DI STATO RISPONDE.
Con sentenza dell’11 marzo 2023, n. 384 la Sez. V del Consiglio di Stato si pronuncia su una questione che nella pratica delle gare pubbliche è abbastanza frequente: la stazione appaltate o annulla in via di autotutela l’intera procedura di gara, oppure non aggiudica la gara al secondo classificato sulla base della inidoneità dell’offerta e non convenienza rispetto alle nuove esigenze di approvvigionamento pur in presenza di una pronunzia del Giudice amministrativo che annulla un provvedimento di aggiudicazione e contemporaneamente sancisce la necessità di scorrimento della graduatoria a favore del secondo classificato.
In altri termini, l’amministrazione non dà seguito al decisum del Giudice invocando a suo favore il potere di cui all’art. 95, comma 12, del codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016), secondo cui: “le stazioni appaltanti possono decidere di non procedere all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti conveniente o idonea in relazione all’oggetto del contratto”.
Ebbene, il Consiglio di Stato per chiarire i presupposti e i limiti del suddetto potere di non aggiudicare ritiene dirimente valutare la motivazione dell’amministrazione. In particolare se per giustificare la scelta di non aggiudicare l’amministrazione richiama profili e valutazioni già svolte dalla commissione giudicatrice si verifica una revisione sostanziale di tali giudizi; se, invece, vengono invocate esigenze sopravvenute alla conclusione della procedura di gara si fuoriesce dall’ambito normativo segnato dalla disposizione in esame, la quale invece impone di valutare la convenienza o l’idoneità dell’offerta «in relazione all’oggetto del contratto» e non con riferimento a eventi non contemplati nel programma contrattuale posto a base della gara (in relazione ai quali, invece, la stazione appaltante dovrebbe essere esercitare i poteri di revoca del bando e di rinnovo della gara).
In ogni caso, nella fase di attuazione del giudicato e dei relativi effetti conformativi: “l’esercizio del potere di non aggiudicare soffre di ulteriori limiti, dovendosi evitare che, in presenza di un giudicato che riconosce al ricorrente vittorioso il diritto all’aggiudicazione, il bene della vita attribuito dalla sentenza di cognizione sia vanificato dalla decisione discrezionale dell’amministrazione di non aggiudicare. Il potere di non aggiudicare, secondo logica, va esercitato prima di adottare il provvedimento di aggiudicazione definitiva (il che spiega anche perché si tratti di un potere riservato alla stazione appaltante e non alla commissione giudicatrice: in termini anche Cons. Stato, V, 27 novembre 2018, n. 6725); una volta disposta l’aggiudicazione residuano eventualmente i soli poteri di autotutela (art. 32, comma 8, del codice dei contratti pubblici)”.
Pertanto, nell’ipotesi in cui il giudicato abbia espressamente accertato il diritto all’aggiudicazione e il diritto al subentro nel contratto, si giustifica sul piano sistematico anche la preclusione (quale effetto del giudicato) all’esercizio del potere di non procedere all’aggiudicazione previsto dall’art. 95, comma 12, del codice dei contratti pubblici. Nello stesso senso vi è anche una precedente decisione del Consiglio di Stato Sez. V, 28 giugno 2021, n. 4904, che ha dichiarato la nullità del provvedimento di non aggiudicazione adottato ai sensi dell’art. 95, comma 12 del D.lgs. n. 50/2016, sull’assunto che una valutazione di convenienza successiva al giudicato è certamente sintomatica dell’elusione del medesimo.
Secondo il Consiglio di Stato, la decisione della stazione appaltante di non aggiudicare e conseguentemente di non disporre il subentro del secondo classificato nel contratto si pone in netta contrapposizione con i vincoli puntuali che scaturiscono dal giudicato. Secondo il Giudice non si può: “trovare una idonea base normativa nell’art. 95, comma 12 cit., messo fuorigioco proprio dall’esistenza del giudicato e dei vincoli conformativi che gravano sull’amministrazione”.
In ultima analisi, a fronte di una sentenza passata in giudicato, il potere della pubblica amministrazione si riduce notevolmente.
n.digiandomenico @macchi-gangemi.com
RIASSUNZIONE AI SENSI DELL’ART. 305 C.P.C.? VEDIAMO COME ED ENTRO QUANTO VA RIASSUNTO IL GIUDIZIO.
Con la sentenza n. 7180 del 4 Marzo 2022, la Cassazione è nuovamente intervenuta sulla decorrenza dei termini in caso di riassunzione del processo civile interrotto.
L’art. 305 c.p.c. dispone che, in seguito all’intervenuta interruzione di un giudizio civile, al fine di evitare che venga dichiarata la sua estinzione, la parte che ne abbia interesse debba procedere alla riassunzione entro il termine perentorio di 3 mesi, così ridotto, rispetto agli originari 6 mesi, dalla legge n. 69 del 18 giugno 2009.
In particolare, con la sentenza n.7180 del 4 Marzo 2022, la Corte di Cassazione riprende quanto affermato dalle Sezioni unite con la pronuncia n. 14854 del 2006, secondo la quale in caso di riassunzione mediante ricorso, “verificatasi una causa d’interruzione del processo, in presenza di un meccanismo di riattivazione del processo interrotto, destinato a realizzarsi distinguendo il momento della rinnovata edictio actionis da quello della vocatio in ius”, il termine perentorio previsto dall’art. 305 c.p.c. si riferisce esclusivamente al deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice, “cosicché, una volta eseguito nei termini tale adempimento, quel termine non gioca più alcun ruolo, atteso che la fissazione successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti della controparte, pur presupponendo che il precedente termine sia stato rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di assicurare il rispetto delle regole proprie della vocatio in ius.” (cfr. anche Cass., 31.7.2012, n. 13683, in Giust. civ. Mass., 2012, 71002; Cass., 20.5.2011, n. 11260).
In altre parole, in caso di riassunzione mediante ricorso, il termine perentorio di cui all’art. 305 c.p.c. opera esclusivamente per la rinnovazione della edictio actionis (nel caso di specie mediante il deposito del ricorso nella cancelleria del giudice) e non anche per la vocatio in ius.
Di conseguenza, ove il vizio di notifica colpisca la notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza, il Giudice che ne rilevi la nullità dovrà ordinare la rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell’art. 291 c.p.c. entro un termine necessariamente perentorio e, solo il mancato rispetto del quale, determinerà l’eventuale estinzione del giudizio, per il combinato disposto dello stesso art. 291, ultimo comma, c.p.c. e del successivo art. 307, comma 3 c.p.c.
Occorre, infine, specificare come nel nostro ordinamento in virtù del principio di equivalenza delle forme l’atto di riassunzione del processo interrotto può consistere, a seconda dei casi, in una citazione riassuntiva, una comparsa o mediante ricorso in cui devono esservi contenuti, in ogni caso, gli elementi soggettivi ed oggettivi necessari per riattivare il rapporto processuale quiescente” (Cass. 24.2.2004, n. 3623).
La giurisprudenza, peraltro, afferma la fungibilità delle tre forme introduttive (Cass. 4.10.2012, n. 16924, Cass.1.10.2009 n. 2107). In particolare, si dovrebbe procedere con una citazione riassuntiva:
(i) quando l’evento ha colpito la parte prima della costituzione in giudizio, se la controparte è già costituita o non è ancora scaduto il termine per la sua costituzione, sempreché il lasso di tempo che residua dopo l’evento interruttivo sia sufficiente per rispettare i termini posti dall’art. 163 bis c.p.c. (diversamente si procede con ricorso);
(ii) quando l’evento interruttivo colpisce la parte costituita in giudizio tramite difensore, ma non riguardi quest’ultimo (art. 300, co. 2, c.p.c.), e vi sia un’udienza già fissata che permetta il rispetto dei termini posti dall’art. 163 bis c.p.c.; infine,
(iii) quando l’evento interruttivo colpisce il difensore della parte costituita in giudizio (art. 301, co. 2, c.p.c.) e sia stata fissata, precedentemente all’evento stesso, un’ulteriore udienza, che consenta, anche qui, il rispetto dei termini di comparizione.
In tutti gli altri casi è meglio procedersi con ricorso o comparsa.
Abbiamo visto che in caso di ricorso, il termine perentorio di cui all’art. 305 c.p.c. si riferisce alla Edictio Actionis e non alla Vocatio in ius ma cosa accade in caso di riassunzione mediante citazione? Ebbene sul punto la Suprema Corte ha evidenziato, con la pronuncia n. 16166 del 9 giugno 2021, che “il rispetto del termine di decadenza è assicurato dalla riattivazione del rapporto processuale con il compimento della prima formalità relativa al modello prescelto, sicché ove la riassunzione avvenga con ricorso, invece che con citazione o comparsa notificata, rileva il deposito dell’atto in cancelleria.”
In conclusione, al fine di poter riassumere il giudizio nel termine perentorio di cui all’art. 305 c.p.c. sarà sufficiente:
(i) in caso di riassunzione con ricorso, depositare l’atto nella cancelleria del giudice nel termine perentorio di 3 mesi dall’interruzione potendo poi notificare l’atto e il ricorso di fissazione udienza anche successivamente;
(ii) in caso di riassunzione con citazione, notificare l’atto di citazione alle controparti entro il termine perentorio di 3 mesi, potendo, poi anche dopo lo scadere del termine perentorio, provvedere al deposito dell’atto nella cancelleria del Giudice.
In altre parole, la riassunzione sarà considerata tempestiva se la prima attività processuale da compiersi a seconda del tipo di atto prescelto (deposito del ricorso o richiesta di notifica dell’atto di citazione) sia stato compiuto nel predetto termine previsto dall’art. 305 c.p.c.
a.buttarelli@macchi-gangemi.com
DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.
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