Con una recente pronuncia, la Suprema Corte ha fatto ulteriormente chiarezza sui requisiti di validità del contratto di sale and lease back che per essere valido deve rispettare il principio del divieto di patto commissorio. Si tratta – come noto – dell’operazione contrattuale attraverso la quale una società vende un bene strumentale ad una società di leasing e quest’ultima, a propria volta, versato il prezzo di vendita concordato, concede lo stesso bene in leasing all’originario proprietario, dietro corrispettivo di un canone periodico: alla scadenza del rapporto, l’impresa utilizzatrice potrà optare per continuare la locazione o riacquistare la proprietà del bene, esercitando il diritto di opzione.
Il sale and lease back risponde anzitutto a un’esigenza di autofinanziamento dell’impresa venditrice, ovverosia all’esigenza di ottenere liquidità immediata, continuando, allo stesso tempo, a disporre del bene venduto.
La circostanza che il bene strumentale esca dal patrimonio dell’impresa (e, quindi, dai beni eventualmente aggredibili dai creditori), però, pone alcuni problemi di compatibilità con il divieto del c.d. patto commissorio, di cui all’articolo 2744 c.c.. In altri termini, la giurisprudenza si è chiesta se il contratto di sale and lease back possa costituire un mezzo per eludere la norma imperativa in base alla quale è vietato alle parti convenire che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà del bene dato in garanzia passi al creditore.
A tale proposito, la Corte di Cassazione si è pronunciata più volte (ex multis Cass. 22.03.2007, n.6969; Cass. 11.09.2017, n. 21042; Cass. 22.02.2021, n. 4664) e ne ha ammesso, almeno in astratto, lo schema contrattuale, in quanto risponde a un’apprezzabile esigenza di conservazione dell’attività di impresa e di potenziamento dei fattori produttivi di natura finanziaria.
Tuttavia, sarà sempre necessario verificare, con relazione al singolo caso concreto, l’assenza di almeno tre specifici fattori “sintomatici” che, se presenti in concorso, rivelano l’intento fraudolento dell’operazione e, pertanto, il suo carattere illecito:
(i) la presenza di una situazione di credito e debito tra la finanziaria concedente e l’impresa venditrice utilizzatrice, preesistente o contestuale alla vendita;
(ii) le difficoltà economiche dell’impresa venditrice, che potrebbero legittimare il sospetto che l’acquirente approfitti della condizione di debolezza del venditore;
(iii) la sproporzione tra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall’acquirente, che confermi la validità di tale sospetto.
Ora la Suprema Corte (sentenza n. 26415 del 13.09.2023) è tornata sull’argomento. Il caso riguarda un’articolata operazione commerciale, che può essere così riassunta: una società ha stipulato un contratto di leasing avente ad oggetto un capannone industriale, destinato allo svolgimento della propria attività lavorativa. Prima della scadenza, la società ha risolto anticipatamente il contratto, ha versato il prezzo di riscatto ed acquisito la piena proprietà del capannone; in seguito, ha venduto il capannone a un’altra società, riacquisendolo poi in locazione dalla stessa.
Successivamente la società è fallita e la curatela fallimentare ha chiesto la dichiarazione di inefficacia – nei confronti del fallimento – sia della compravendita sia della locazione finanziaria.
Il Tribunale ha accolto la domanda e la Corte di Appello ha confermato la sentenza di primo grado, ritenendo che la consapevolezza della situazione di insolvenza della società e quella di arrecare pregiudizio ai creditori elementi fossero sufficienti a dimostrare la “participatio fraudis”, ossia la volontà di porre in essere un atto in frode ai creditori.
La società ha impugnato la sentenza di secondo grado sostenendo:
(i) in primo luogo, come l’intera operazione fosse preordinata a consentirle di continuare l’attività di impresa, procurarle liquidità e implementare i fattori produttivi;
(ii) in secondo luogo, come la Corte di Appello avesse trascurato di spiegare “per quali ragioni una operazione di questo tipo potesse risultare pregiudizievole per i creditori sociali”.
Infine, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza della Corte di Appello e ribadito il proprio orientamento, precisando che occorre un attento esame di ciascun caso concreto. In particolare, la Cassazione ha ritenuto che non vi fossero i presupposti per la revoca delle operazioni effettuate dal debitore non ravvisando nella fattispecie:
(i) elementi di fatto concreti che possano trasformare un’operazione economica in teoria finalizzata a “dare ossigeno” all’impresa in un’operazione nociva per i creditori, nonché
(ii) i creditori ed i singoli crediti che sarebbero stati pregiudicati tantopiù nel caso di specie ove il contratto era almeno idealmente idoneo a sostenere l’attività di impresa, piuttosto che a depauperarla.
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