CHI RISPONDE SE L’EVENTO PREVISTO COME CONDIZIONE NON SI VERIFICA?

Molto spesso i contratti preliminari di compravendita sono sottoposti a una condizione sospensiva: l’obbligo di concludere il contratto definitivo, cioè, sorgerà solo nel caso in cui si verifichi un determinato evento, previsto in quella specifica clausola. L’evento dedotto come condizione può dipendere da un soggetto terzo, oppure da una sola delle parti (la c.d. condizione potestativa) oppure da una delle parti e da un soggetto terzo insieme (la c.d. condizione potestativa mista).

Quest’ultima ipotesi è la più complessa, perché l’avveramento o meno della condizione (e conseguentemente il sorgere dell’obbligo di stipulare il contratto definitivo) può essere imputato a una delle parti del contratto, oppure a un terzo, oppure ancora ad entrambi in varia misura. È il caso esaminato da una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (Cass. 6.03.2024 n. 5976) in cui:

– le parti avevano sottoposto il contratto preliminare di compravendita di un terreno alla condizione che venisse disposto il mutamento di destinazione urbanistica dell’area; e

– la società promittente venditrice aveva dato mandato alla società promissaria acquirente di compiere le attività necessarie per ottenere tale mutamento di destinazione.

Il mutamento di destinazione urbanistica non è stato poi ottenuto, con conseguente insorgere della lite.

In simili casi si fa generalmente riferimento all’art. 1359 c.c., ai sensi del quale “la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa”. Se, cioè, una parte ha interesse a che non si verifichi l’evento previsto come condizione e fa sì che quell’evento non si verifichi, allora l’altra parte viene tutelata, perché si considera (fittiziamente) che quell’evento si sia verificato lo stesso.

Trova applicazione, in proposito, anche l’art. 1358 c.c., ai sensi del quale le parti, nella pendenza della condizione, devono comportarsi secondo buona fede.

Nel caso in esame, la Corte di Appello di Torino aveva ritenuto che:

– la società promissaria acquirente fosse quella interessata al non avveramento della condizione (ai sensi dell’art. 1359 c.c.);

– gravasse sempre sulla società promissaria acquirente l’onere di dimostrare che non fosse a lei imputabile il mancato ottenimento del mutamento di destinazione urbanistica (secondo l’ordinario riparto dell’onere della prova in ambito contrattuale e precisamente, nel caso di specie, di contratto di mandato);

– sempre la società promissaria acquirente non aveva dimostrato che il mancato provvedimento amministrativo dipendesse da causa a lei non imputabile e, conseguentemente, doveva ritenersi fittiziamente avverata la condizione (sempre ai sensi dell’art. 1359 c.c.).

La Suprema Corte ha confermato l’inquadramento della fattispecie come “condizione potestativa mista” ma ha, poi, ribaltato il ragionamento del giudice di secondo grado. E ha stabilito due rilevanti principi di diritto in caso di mancato ottenimento di un provvedimento da parte della pubblica amministrazione (qualora questo evento sia previsto come condizione sospensiva).

In primo luogo, l’art. 1359 c.c. “è inapplicabile nel caso in cui la parte tenuta condizionatamente ad una data prestazione abbia anch’essa interesse all’avveramento della condizione”.

In secondo luogo, “l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, e la sussistenza di un siffatto obbligo deve escludersi per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo in una condizione mista, con conseguente esclusione dell’obbligo di considerare avverata la condizione”.

In conclusione, l’art. 1359 c.c. non può trovare un’applicazione automatica in ipotesi di condizione potestativa mista, ma occorre esaminare in concreto – caso per caso – se ricorrano tutti gli elementi ivi previsti, anche alla luce del dovere di buona fede previsto dall’art. 1358 c.c..

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