• LATEST NEWS & INSIGHTS 18 GIUGNO 2021

    Pubblicato il: 18/6/2021


    Accordo di ristrutturazione dei debiti: consentite modifiche sostanziali del piano dopo l’omologazione per assicurare l’esecuzione dell’accordo.

     

    La normativa in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti (articolo 182 bis della Legge Fallimentare) non dettava una disciplina specifica per i casi in cui l’imprenditore, dopo l’omologa, avesse dovuto modificare il piano in corso di esecuzione, a causa di circostanze sopravvenute (si pensi a circostanze eccezionali come il Covid-19 e le conseguenze sulle dinamiche economiche del mercato). La legge n. 69/2021 ha colmato questa lacuna.

     

    In particolare, la predetta legge con l’introduzione del comma 8 all’art. 182 bis l.f., consente la modifica unilaterale sostanziale del piano attraverso il rinnovo della relazione da parte dell’imprenditore e la pubblicazione di quest’ultima, unitamente al piano modificato, nel Registro delle imprese.

     

    La pandemia da Covid—19 ha posto in primo piano il problema relativo all’impossibilità di rispettare le scadenze previste negli accordi di ristrutturazione. Problema acuito dalla mancanza di una norma specifica che regolasse i casi di modifica del piano dell’accordo di ristrutturazione dei debiti in corso di esecuzione.

     

    Il 21 maggio scorso è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge n. 69/2021 di conversione del d.l. 41/2021, c.d. “Decreto Sostegni”, che colma tale lacuna introducendo l’ottavo comma dell’art. 182 bis l. fall. (che anticipa, di fatto, un una disposizione contenuta nell’art 58, comma 2, del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, la cui entrata in vigore è prevista per il prossimo 1 settembre).

     

    In particolare, il nuovo comma 8 prevede che qualora, dopo l’omologazione di un accordo di ristrutturazione, si rendano necessarie modifiche sostanziali del piano idonee ad assicurare l’esecuzione dell’accordo, l’imprenditore le apporta rinnovando la relazione di attestazione. In tal caso, il piano modificato e la relazione sono pubblicati nel Registro delle imprese e della pubblicazione è dato avviso ai creditori a mezzo di lettera raccomandata o PEC. Entro 30 giorni dalla ricezione dell’avviso è ammessa opposizione dei creditori avanti al tribunale.

     

    La norma intende agevolare l’imprenditore nella fase di esecuzione dell’accordo di ristrutturazione anche quando eventi economici sopravvenuti all’omologazione determinino la necessità di modifiche sostanziali, nonché salvaguardare l’impresa allo stesso tempo tutelando i creditori.

     

    Tale disposizione, inoltre, potrebbe contribuire ad uniformare il trattamento delle modifiche apportate agli accordi di ristrutturazione dei debiti che dovessero trovarsi in una situazione di stallo per assenza di indicazioni formali, come avveniva in precedenza.

     

    Resta da capire, in concreto, quali modifiche – di carattere “sostanziale” – potrebbero essere legittimamente apportate a seguito della normativa citata e, in particolare, se le modifiche debbano essere limitate solo alle modalità e ai tempi di adempimento, ovvero possano estendersi anche al quantum del credito da soddisfare.

     

     

    s.rossi@macchi-gangemi.com
    g.bonfante@macchi-gangemi.com

     

     

     

    Quali sono i poteri del liquidatore di S.r.l. di nomina giudiziale?

     

    I Tribunali di Milano e di Roma confermano l’ormai consolidato orientamento in giurisprudenza attribuendo ai liquidatori di nomina giudiziale, anche in assenza di delibera dell’assemblea, tutti i poteri assegnati dal codice civile ex art. 2489 primo comma affinché questi possano compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società.

     

    La nomina dei liquidatori per le società a responsabilità limitata, così come la loro sostituzione e la determinazione dei loro poteri, è oggetto di decisione dei soci adottata con le maggioranze previste per le modificazioni dell’atto costitutivo, secondo quanto previsto dall’art. 2487 c.c.

     

    Pur mancando nell’art. 2479 bis un espresso riferimento alle decisioni di cui all’art. 2487 c.c., deve ritenersi che si tratti di decisioni che debbano necessariamente adottarsi con metodo assembleare, sia per la formulazione della norma in commento, sia soprattutto per l’analogia della fattispecie che ci occupa con quella di cui all’art. 2479, n. 5.

     

    La disciplina della liquidazione individua tre distinte ipotesi nelle quali i soggetti legittimati – ovvero i singoli soci o amministratori o i sindaci – possono ricorrere al Tribunale:

    – la prima prevista dal 2 co. dell’art. 2485, per l’accertamento della causa di scioglimento, in caso di inerzia degli amministratori nella rilevazione della causa di scioglimento;

    – una volta accertata e pubblicizzata la causa di scioglimento e qualora non vi abbiano provveduto gli amministratori, per la convocazione dell’assemblea;

    – nell’evenienza in cui l’assemblea non si costituisca o non deliberi, per la pronuncia del decreto per le decisioni di cui all’art. 2487c..

     

    Con riferimento a tale ultima ipotesi, ove l’assemblea dei soci, seppur convocata, non provveda alla nomina del liquidatore, il codice civile prevede un potere suppletivo del Tribunale (art. 2487 c.c., 2 comma), che compete alla Sezione Imprese del Tribunale determinata in base alla sede legale della società, ovvero – secondo un diverso orientamento – al Tribunale ordinario.

     

    Ricorrendo tale ipotesi, si ritiene che parti necessarie del procedimento per la nomina del liquidatore siano, oltre alla società, tutti i soci, salvo quelli tra loro che in sede di assemblea abbiano dato mandato all’organo amministrativo di presentare il ricorso per la nomina giudiziale del liquidatore.

     

    La nomina del liquidatore ai sensi dell’art. 2487, secondo comma, c.c.,(così come l’accertamento dello stato di scioglimento ex artt. 2485, secondo comma, c.c., da parte del Tribunale si inseriscono nel novero dei procedimenti di volontaria giurisdizione, vale a dire quei procedimenti nei quali il Tribunale non risolve un contenzioso su diritti ma emana, su ricorso degli interessati, provvedimenti destinati a integrare la fattispecie normativa che non assumono carattere decisorio rispetto alle questioni dibattute tra le parti, non hanno valore di giudicato.

     

    La valutazione del Giudice adito, dunque, è svolta incidenter tantum, senza alcun accertamento in via definitiva né dell’intervenuto scioglimento né delle cause che lo avrebbero prodotto e sussiste anche in presenza di contrasto tra le parti sulla causa di scioglimento, tanto che ciascun interessato, purché legittimato all’azione, può promuovere un giudizio ordinario su dette questioni e, ove provi l’insussistenza della causa di scioglimento, può ottenere la rimozione del decreto e dei suoi effetti.

     

    La nomina del liquidatore da parte del Tribunale, pertanto, non dà luogo ad alcuna procedura di liquidazione giudiziale, trattandosi di un mero intervento sostitutivo rispetto alla inconcludenza dell’assemblea, i cui poteri, superato lo stallo, permangono quelli ordinari, con la conseguenza che l’assemblea, con le maggioranze previste per i vari casi: potrà stabilire i criteri di liquidazione ex art. 2487 c.c. e così anche modificare i poteri attribuiti al liquidatore dal Tribunale, stabilire il compenso del liquidatore, procedere alla revoca del liquidatore e alla sua sostituzione. peraltro, il liquidatore di nomina giudiziale non è qualificato dalla legge come ausiliario del giudice ovvero quale pubblico ufficiale.

     

    Nella prassi, i Tribunali di Milano e di Roma, per orientamento consolidato e salvo il caso di specifiche richieste delle parti, conferiscono al liquidatore i “poteri di legge”, vale a dire quelli assegnati dal codice civile all’art. 2489 primo comma: “il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società”. Tali poteri si concretizzano, in particolare, nella realizzazione delle attività e nel pagamento dei debiti sociali (cfr. Cass. 13867/2017), senza necessità della successiva “autorizzazione” da parte del Tribunale per il compimento di singoli atti. Inoltre, il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione attribuiti al liquidatore di nomina giudiziale dalla richiamata disposizione codicistica opera di per sé e non necessita di una successiva delibera da parte dell’assemblea, la quale, al più, potrà indicare al liquidatore, con le maggioranze statutariamente previste, i criteri di liquidazione o stabilire alcune delimitazioni ai suoi poteri, senza tuttavia limitarli a tal punto dal precludere il fine liquidativo della società.

     

    L’art.2487 – bis c.c. fa gravare sul liquidatore, anche di nomina giudiziale, l’obbligo di provvedere alla iscrizione della propria nomina nel Registro delle imprese. Si ritiene, quindi, che ove il provvedimento non sia stato adottato in udienza, la cancelleria del Tribunale debba comunicare il provvedimento di nomina sia alle parti che al liquidatore, che, ove intenda accettare, provvederà all’iscrizione della propria nomina. Da tale momento il liquidatore assume la legale rappresentanza della società.

     

    Infine, con il decreto di nomina, il Tribunale non provvede alla quantificazione del compenso del liquidatore e spetta dunque all’assemblea stabilire un corrispettivo per l’attività svolta dal liquidatore medesimo. Ove l’assemblea non provveda, il compenso sarà stabilito dal Tribunale all’esito di un processo di cognizione. A tali fini, un parametro da tenere in considerazione per la determinazione del compenso sono le tariffe previste dall’art. 20 del D.M. 140/2012 per l’attività di liquidazione di aziende ovvero, nel caso in cui sia previsto l’esercizio provvisorio del complesso aziendale della società in liquidazione, dall’art. 19 del medesimo D.M. per l’attività di amministrazione di aziende.

     

     

    m.patrignani@macchi-gangemi.com
    m.dragone@macchi-gangemi.com

     

     

    Pari opportunità (di genere e generazionali) nelle assunzioni per il PNRR: qualcosa si muove?

     

    L’imminente apertura di procedure relative a contratti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse previste dal Piano di Ripresa e Resilienza (“PNRR”) e dal Piano Nazionale Complementare (“PNC”) ha fornito l’opportunità di introdurre misure utili al perseguimento di politiche di pari opportunità, sia generazionali che di genere.

     

    In particolare, ai sensi dell’art. 47 DL 77/2021 (c.d. Decreto Semplificazioni), le imprese che intendano partecipare ad una gara o presentare un’offerta relativa a tali contratti pubblici devono fornire documentazione attestante la situazione del personale nel rispetto delle pari opportunità ed assicurare l’assunzione di giovani e donne.

     

    Gli obblighi variano in base al numero dei dipendenti dell’operatore economico richiedente:

     

    (i) quelli che occupano più di cento lavoratori sono tenuti a produrre il rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile al momento della presentazione della domanda di partecipazione o dell’offerta, pena l’esclusione dalla gara o dell’offerta;

     

    (ii) i datori di lavoro che occupano un numero pari o superiore a quindici dipendenti, invece, devono consegnare alla stazione appaltante, entro sei mesi dalla conclusione del contratto, una relazione di genere sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta.

     

    Inoltre, le stazioni appaltanti devono prevedere nei bandi di gara, oppure negli avvisi e negli inviti, specifiche clausole dirette all’inserimento di criteri diretti a promuovere la parità di genere e l’assunzione di giovani (i.e. età inferiore a trentasei anni) e donne, sia come requisiti necessari che come ulteriori requisiti premiali dell’offerta.

     

    Nello specifico, è requisito necessario per la partecipazione l’obbligo di assicurare una quota pari almeno al 30% delle assunzioni per l’esecuzione del contratto o per la realizzazione di attività ad esso connesse o strumentali, all’occupazione giovanile e femminile.

     

    Riguardo ai requisiti premiali, invece, è previsto un punteggio aggiuntivo all’offerente o al candidato che, tra l’altro:

     

    – non sia incorso in comportamenti discriminatori;

    – utilizzi o si impegni ad utilizzare specifici strumenti di conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro per i propri dipendenti, nonché modalità innovative di organizzazione del lavoro;

    – preveda assunzioni di giovani e donne oltre la quota del 30% prevista obbligatoriamente;

    – abbia rispettato nell’ultimo triennio i principi della parità di genere e adottato specifiche misure per promuovere le pari opportunità generazionali e di genere, anche tenendo conto del rapporto tra uomini e donne nelle assunzioni, nei livelli retributivi e nel conferimento di incarichi apicali.

     

    Interessanti, anche, le misure sanzionatorie applicate in caso di violazione degli obblighi previsti dal decreto esaminato.

     

    Si è già detto dell’esclusione dalla gara di quei datori di lavoro con più di 100 lavoratori che omettano di trasmettere il rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile, contestualmente alla presentazione della domanda di partecipazione o dell’offerta.

     

    Negli altri casi, invece, i contratti di appalto devono prevedere l’applicazione di penali, in misura proporzionale all’importo del contratto, in caso di violazione dell’obbligo di assunzione delle quote previste di giovani e donne.

     

    Relativamente ai datori di lavoro con almeno 15 dipendenti, poi, il mancato invio della relazione di genere comporta, in aggiunta alle penali, l’impossibilità per l’impresa di partecipare, nemmeno in raggruppamento temporaneo, per un periodo di 12 mesi, ad ulteriori procedure di affidamento afferenti agli investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse del PNRR e del PNC.

     

    C’è ora da augurarsi che non tardino ad arrivare le linee guida ministeriali dirette a definire “modalità e i criteri applicativi delle misure previste (…), indicate misure premiali e predisposti modelli di clausole da inserire nei bandi di gara differenziate per settore, tipologia e natura del contratto o del progetto” che, nelle intenzioni del governo, dovrebbero essere emanate entro il 31 luglio 2021.

     

    In tema di attese, una nota di colore: dopo sei mesi dall’entrata in vigore della Legge di Bilancio 2021, l’agevolazione contributiva prevista in quella sede e consistente nell’esonero totale in caso di assunzione di donne “svantaggiate”, non può essere ancora fruita in quanto subordinata all’autorizzazione della Commissione europea. E non è chiaro se il Governo italiano abbia dimenticato di inoltrare la notifica alla Commissione europea, oppure se sia quest’ultima a non essersi ancora espressa sulla concessione della relativa autorizzazione.

     

     

    e.noto@macchi-gangemi.com

     

     

     

    È legittima la notifica dell’avviso di accertamento alla precedente residenza indicata in dichiarazione dei redditi?

     

    È legittima la notifica dell’avviso accertamento al contribuente che ha cambiato residenza anagrafica ma ha inserito nella dichiarazione dei redditi, anche per gli anni successivi, la vecchia residenza. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 18343, depositato lo scorso 20 maggio.

    In tema di notificazione, nella ipotesi in cui l’avviso di accertamento venga notificato presso la vecchia residenza fiscale del contribuente, tale notifica è valida se l’indirizzo è quello indicato nella dichiarazione dei redditi, l’unico da tenere in considerazione in virtù del principio dell’affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario.

     

    Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13843 del 20 maggio 2021 con cui i giudici di ultima istanza hanno rigettato il ricorso di un contribuente confermando la legittimità di una cartella scaturita dalla mancata impugnazione di un prodromico avviso di accertamento.

     

    In particolare, la Cassazione ha precisato che un conto è il cambio di residenza, altra cosa è l’originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi (c.d. “domicilio fiscale”). In quest’ultimo caso, infatti, la notifica effettuata presso l’indirizzo indicato nella dichiarazione dei redditi deve ritenersi valida, nonostante tale indicazione sia difforme, non importa se per errore o per malizia, rispetto alle risultanze anagrafiche.

     

    A sostegno di tali conclusioni i giudici della Corte di Cassazione richiamano l’orientamento consolidato secondo cui l’indicazione nella dichiarazione dei redditi della propria residenza va effettuato in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario (cfr. Cassazione, sentenze nn. 4412/2020 e 24292/2018).

     

    Ne consegue che il contribuente che abbia indicato nella propria dichiarazione dei redditi il domicilio fiscale in un luogo diverso da quello attuale, non può invocare detta difformità, sfruttando a suo vantaggio anche un eventuale errore, al fine di eccepire, sotto il profilo dell’incompetenza per territorio, l’invalidità dell’atto di accertamento compiuto dall’ufficio finanziario del domicilio da lui stesso dichiarato.

     

     

    a.salvatore@macchi-gangemi.com
    f.dicesare@macchi-gangemi.com

     

     

    DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.

     

     

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