• LATEST NEWS & INSIGHTS 19 MARZO 2021

    Pubblicato il: 19/03/2021


    Workers Buyout: nozione e sviluppi introdotti dalla legge di bilancio 2021.

     

    Il Workers Buyout (WBO) è un’operazione attraverso la quale i dipendenti di un’azienda in crisi, riuniti in una società cooperativa, la acquisiscono proponendosi di risanarla e di salvaguardare lo stato occupazionale e le competenze dei lavoratori.

     

    Tale istituto è stato esteso nel 2014 alle aziende confiscate alla criminalità organizzata e, più di recente, la Legge di Bilancio 2021, oltre ad un ulteriore rafforzamento dei fondi per le agevolazioni erogabili a sostegno di iniziative di WBO, ha previsto la possibilità di realizzare operazioni di WBO anche al di fuori di situazioni di crisi.

     

    Letteralmente “acquisizione da parte dei lavoratori”, il Workers Buyout (o “impresa rigenerata”) consiste in un’operazione di acquisizione o salvataggio di un’impresa da parte dei dipendenti che vi lavorano o vi hanno lavorato. Con questo termine viene cioè indicata una ristrutturazione aziendale, un salvataggio o un processo di conversione, in base al quale i dipendenti si riuniscono in società cooperativa e acquisiscono il possesso (in proprietà o in affitto) dell’intera azienda che li impiega o di una parte di essa.

     

    Il WBO è stato introdotto nel nostro ordinamento nel 1985 con la Legge n. 49 “Provvedimenti per il credito alla cooperazione e misure urgenti a salvaguardia dei livelli di occupazione”, c.d. legge Marcora, che ha promosso la costituzione di cooperative da parte di lavoratori licenziati, cassaintegrati o dipendenti di aziende in crisi o sottoposte a procedure concorsuali attraverso un fondo di rotazione per il finanziamento di progetti presentati da società cooperative, prevalentemente gestito da Cooperazione Finanza Industria (CFI).

     

    La legge Marcora è stata poi riformata dalla legge Marcora II (5 marzo 2001, n. 57) che, tra le altre cose, ha previsto la restituzione del versamento dei dipendenti (inizialmente a fondo perduto) entro 7/10 anni ed ha introdotto la possibilità della presenza all’interno della cooperativa e per tutta la durata dell’investimento, di un socio finanziatore, avente “interessi finanziari”, anziché mutualistici.

     

    Al fine di favorire il WBO, l’articolo 11, comma 2, del decreto legge 23 dicembre 2013, n. 145, ha previsto, per le società cooperative costituite da lavoratori dipendenti dell’impresa sottoposta alla procedura concorsuale, il diritto di prelazione per l’affitto o per l’acquisto dell’azienda.

     

    Sempre allo scopo di promuovere questo strumento, il Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 4 dicembre 2014 (art. 6) ha previsto varie agevolazioni per la nascita di società cooperative che gestiscono aziende confiscate alla criminalità organizzata, mentre il Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 22 (articolo 8 “Incentivo all’autoimprenditorialità”) ha previsto la possibilità per i lavoratori che decidano di partecipare all’iniziativa di workers buyout di richiedere anticipatamente indennità loro spettanti proprio al fine di costituirsi in cooperativa insieme ad altri soci lavoratori.

     

    La legge n. 178 del 30 dicembre 2020 (legge di bilancio 2021) ha introdotto importanti novità nel quadro normativo sopra delineato. Ha rifinanziato la c.d. “Nuova Marcora” con 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021 e 2022 e ha ricompreso nell’ambito del sistema di incentivi già riconosciuti per il recupero delle aziende in crisi da parte di società cooperative costituite da lavoratori provenienti dalle medesime aziende, anche l’ipotesi di aziende i cui titolari intendano trasferirle ai lavoratori a prescindere dalla sussistenza di uno stato di crisi.

     

    In particolare, in base all’art. 1, comma 270, anche in presenza di WBO che rispondano ad altre motivazioni, come l’assenza di un ricambio generazionale, potrà essere attivato il “Fondo per la crescita sostenibile” di cui all’art. 23 del D.L. 83/2012 che interverrà secondo quanto verrà definito con appositi decreti interministeriali (MISE-MEF). Per tali operazioni ci si potrà avvalere anche degli investitori istituzionali del movimento cooperativo di cui all’art. 111-octies delle disposizioni attuative del Codice Civile (CFI, ma anche fondi mutualistici e i fondi pensione costituiti da società cooperative).

     

    La legge di bilancio 2021 prevede l’esenzione fiscale per i lavoratori relativamente agli importi del TFR che vengono da loro destinati alla sottoscrizione del capitale sociale delle cooperative (comma 271); l’esenzione dall’imposta di successione e donazione per i trasferimenti di aziende, di quote sociali e di azioni, nonché dalla tassazione delle plusvalenze relative alle medesime operazioni (comma 272); la condizione di “mutualità prevalente” di cui all’art. 2513 c.c. soltanto a decorrere dal quinto anno successivo alla costituzione (comma 273).

     

    La legge prevede anche – cc. 259-262 – la possibilità per CFI di svolgere su incarico del MISE attività di assistenza e consulenza per specifiche iniziative di WBO. CFI potrà anche essere destinataria di fondi pubblici nazionali e regionali nonché svolgere attività di promozione, servizi e assistenza nella gestione di fondi affidati a Pubblica Amministrazione ed Enti aventi la finalità di sostenere l’occupazione attraverso la nascita e lo sviluppo di imprese cooperative e di lavoro sociali.

     

    Nel complesso, si tratta di interventi normativi tutti orientati ad incentivare ancora maggiormente il recupero delle imprese da parte dei lavoratori. Il WBO sembra costituire un’operazione di grande interesse e attualità, capace di tutelare l’occupazione integrando politiche attive del lavoro e politiche di sviluppo. Resta da vedere se e come questi incentivi e strumenti verranno concretamente recepiti e attuati nel prossimo futuro.
     

    s.rossi@macchi-gangemi.com
    g.bonfante@macchi-gangemi.com

     

     

     

    Giurisdizione della Corte dei Conti: la sentenza della Corte di Cassazione n. 2157 del 1 febbraio 2021 chiarisce i presupposti del “rapporto di servizio” ed i limiti della discrezionalità amministrativa.

     

    Il 1 febbraio 2021 è stata pubblicata la sentenza n. 2157/2021 della Suprema Corte di Cassazione che fornisce utili chiarimenti sul concetto di “rapporto di servizio” quale presupposto per l’affermazione della giurisdizione della Corte dei Conti su soggetti privati, nei casi in cui sussista la concorrente giurisdizione di altri tribunali (in particolare, quelli civili).

     

    Il caso in questione riguarda una serie di presunte operazioni speculative in derivati stipulate tra Morgan Stanley (“Banca”) e il Ministero delle Finanze italiano (“MEF”) che, secondo la Procura contabile, avrebbero causato un danno erariale di circa 4 miliardi di euro. Sia in primo grado che in appello, la Corte dei Conti ha costantemente declinato la propria giurisdizione su tutti gli imputati (la Banca ed ex funzionari apicali del MEF).

     

    Nel confermare la sentenza d’appello, con riguardo alla posizione della Banca, la Corte Suprema ha ribadito che la circostanza che un soggetto non faccia formalmente parte di un’amministrazione pubblica non è di per sé sufficiente ad escludere la giurisdizione contabile e che tale giurisdizione esiste nei casi in cui si stabilisca effettivamente un “rapporto di servizio” tra soggetto privato ed ente pubblico.

     

    Tuttavia, alcuni elementi devono essere imprescindibilmente presenti perché il “rapporto di servizio” sia definito come tale, tra cui, in particolare:

     

    1. il fatto che il soggetto privato sia incaricato di svolgere un servizio o un’attività pubblica, nell’interesse della pubblica amministrazione e utilizzando le risorse di quest’ultima, e, di conseguenza, sia effettivamente inserito o collocato, per quanto temporaneamente, nella struttura organizzativa di detta amministrazione;

     

    2. la circostanza che il rapporto tra soggetto privato e soggetto pubblico sia tale che il primo partecipi all’attività del secondo in qualità di vero e proprio agente dell’amministrazione, vincolato da specifici obblighi limitativi e funzionali volti a garantire gli obiettivi generali dell’amministrazione;

     

    3. l’irrilevanza della fonte formale del potere conferito a detto soggetto privato, sia esso un accordo di diritto privato, una concessione amministrativa, un rapporto formale di pubblico impiego o anche un mero rapporto di fatto.

     

    La decisione della Suprema Corte è basata su numero cospicuo di precedenti in materia (tutti datati tra il 2014 e il 2020) che delineano i prerequisiti di tale “rapporto di servizio” quale elemento fondante la giurisdizione della Corte dei Conti sui soggetti privati, ed ha ritenuto che nessuno dei suddetti elementi fosse applicabile al caso in questione.

     

    In particolare, nel proporre, negoziare e chiudere le operazioni sui derivati, la Banca non ha mai assunto un ruolo interno al MEF che comportasse l’autorità di fare valutazioni e decisioni per suo conto, o addirittura al suo posto. Tutti gli aspetti sollevati e contestati dal Pubblico Ministero (ad es. la presunta sproporzione e asimmetria tra le rispettive posizioni contrattuali delle parti, l’inserimento di clausole ATE (Additional Termination Events), l’assenza di garanzie collaterali, il presunto conflitto di interessi e l’approfittarsi del ruolo di specialista in titoli di debito pubblico, nonché la presunta illiceità della causa dei relativi contratti) sono indicativi di una tipica azione di responsabilità contrattuale o precontrattuale ma non sono sufficienti a determinare l’esistenza del “rapporto di servizio” con il MEF. Mancando gli elementi costitutivi di tale rapporto, l’azione rientra nella competenza del giudice civile, e non in quella della Corte dei Conti.

     

    In altre parole, ciò che la Corte Suprema ha ritenuto essenziale ai fini dell’affermazione della giurisdizione della Corte dei Conti, è il conferimento e l’esercizio da parte di un soggetto privato di un potere pubblico derivante dall’inclusione strutturale e operativa di questo all’interno di una PA, in modo che il soggetto privato si comporti come un vero e proprio agente di detta PA.

     

    È interessante notare che la Corte Suprema ha raggiunto la conclusione opposta per quanto riguarda i funzionari pubblici del MEF coinvolti.

     

    Sovvertendo l’esito dei primi due gradi di giudizio, la Corte di Cassazione ha stabilito che la Corte dei Conti ha giurisdizione sull’azione per danno erariale contro i funzionari del Ministero, cassando con rinvio la relativa parte della sentenza della Corte d’appello.

     

    Secondo la Suprema Corte, infatti, ferma restando l’insindacabilità giurisdizionale del merito delle scelte di gestione del debito pubblico mediante ricorso a contratti in strumenti finanziari derivati da parte degli organi governativi, rientra invece nella giurisdizione contabile il vaglio del rispetto dei parametri di legittimità dell’agire amministrativo. È pertanto ammissibile – secondo la sentenza in esame – l’azione di responsabilità nei confronti dei funzionari del MEF per danno erariale dinanzi la Corte dei Conti con la quale si faccia valere, quale petitum sostanziale, la loro presunta mala gestio consistente, in concreto, in comportamenti negligenti tenuti nella pattuizione di specifiche condizioni negoziali e nell’esecuzione e gestione dei menzionati contratti derivati.

     

    Il procedimento per presunta mala gestio e condotta illecita in relazione agli strumenti derivati in questione riprenderà, quindi, in primo grado davanti alla Sezione Giurisdizionale del Lazio della Corte dei Conti nei confronti dei soli convenuti di cui sopra.

     

     

    m.settimi@macchi-gangemi.com
    m.patrignani@macchi-gangemi.com

     

     

     

    Nuova mediazione obbligatoria per tutte le controversie in materia contrattuale in cui venga in rilievo un inadempimento del debitore originato dal rispetto delle misure di contenimento disposte durante l’emergenza da COVID-19. L’Ambito di applicazione e un dubbio interpretativo.

     

    Nella proliferazione normativa volta a fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, potrebbe essere sfuggita l’introduzione, da parte del legislatore, di una nuova ipotesi di mediazione obbligatoria nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali.

     

    Come noto, con il comma 6 bis dell’art. 3 del D.L. n. 6/2020, il legislatore ha previsto che il rispetto delle misure di contenimento disposte dalla normativa emergenziale va sempre valutato ai fini dell’esclusione della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati omessi adempimenti.

     

    Successivamente, ancor prima che detta norma trovasse concreta applicazione nelle aule di Tribunale, il legislatore – con il D.L. 30 aprile 2020, n. 28 (convertito in Legge 25 giugno 2020, n. 70) – ha introdotto un ulteriore comma (6 ter) all’art. 3 del D.L. n. 6/2020.

     

    Il comma 6 ter dell’art. 3 ha stabilito, appunto, che il preventivo esperimento del procedimento di mediazione costituisca condizione di procedibilità della domanda nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento disposte durante l’emergenza epidemiologica da COVID-19 può essere valutato ai sensi del comma 6-bis.

     

    La norma ha un’indubbia finalità di deflazione del contenzioso che potrebbe originare dalle conseguenze della pandemia e delle misure di contenimento imposte al Paese nei giorni duri (ed incerti) del lockdown.

     

    In particolare, essa trova applicazione in tutto il contenzioso nel quale rilevi un inadempimento o un inesatto adempimento di obbligazioni.

     

    Nel considerare il preventivo esperimento della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda, la norma – tuttavia – non tiene conto del fatto che chi propone in giudizio la domanda di adempimento (e perciò, il creditore) non è il soggetto che può avvalersi dell’esclusione di responsabilità posta dall’art. 3, comma 6 bis, del D.L. n. 6/2020. Questa è, infatti, una difesa e/o un’eccezione che potrebbe (non necessariamente) essere esperita dal solo debitore.

     

    In attesa delle prime applicazioni, ci si chiede, quindi, se la mediazione obbligatoria possa ritenersi immediatamente deflattiva del futuro contenzioso. Infatti, solo con l’avvenuta costituzione in giudizio del debitore, il creditore (ed il Giudice) saranno posti nella condizione di verificare la concreta riconducibilità della causa (e del rapporto sottostante) all’ipotesi prevista dalla norma (ovvero, se il rispetto delle misure di contenimento debba essere valutato o meno ai fini dell’esclusione di responsabilità del debitore). Diversamente, dovrà assumersi che per tutte le controversie in materia di obbligazioni contrattuali rimaste inadempiute, o non esattamente adempiute nel periodo in cui erano in vigore le misure di contenimento, l’obbligo del preventivo esperimento della procedura di mediazione gravi sul creditore procedente e ciò indipendentemente dalle ragioni di merito che potrebbero essere successivamente addotte in giudizio dal debitore.

     

     

    v.spinelli@macchi-gangemi.com

     

     

     

    E’ ragionevole escludere i dirigenti dal blocco dei licenziamenti?

     

    La recente ordinanza dello scorso 26 febbraio dal Tribunale di Roma, sezione lavoro, riaccende un dibattito sorto all’inizio di questa pandemia ed offre lo spunto per alcune riflessioni sulla ragionevolezza o meno di applicare anche ai dirigenti l’attuale divieto temporaneo (ma tutt’altro che breve) di licenziamento per motivo oggettivo. Il giudice del lavoro capitolino, nel caso sottoposto al suo esame, ha ritenuto di rispondere positivamente a tale dubbio.

     

    Esattamente un anno fa entrava in vigore il Decreto Cura Italia che, tra l’altro, stabiliva la preclusione per i datori di lavoro di recedere dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo “ai sensi dell’art. 3 L. 604/66”, dal cui campo di applicazione è pacificamente esclusa la categoria dei dirigenti.

     

    Dal che se ne era dedotto che, se pur in tempo di pandemia, non fosse precluso licenziare dirigenti per motivi oggettivi, ossia per motivi attinenti all’organizzazione aziendale. Tuttavia, non erano mancate interpretazioni contrarie, anche se minoritarie, secondo le quali sarebbe stato contradittorio includere i dirigenti nella moratoria sui licenziamenti collettivi ed al contempo escluderli dal blocco dei licenziamenti individuali per motivi oggettivi.

     

    Ora, l’ordinanza di cui si discute sembra prendere una posizione netta: l’esclusione dei dirigenti dal divieto dei licenziamenti individuali porrebbe un problema di ragionevolezza con riferimento all’art. 3 Cost. In particolare, sarebbe difficile giustificare il motivo per cui, a differenza degli altri lavoratori, il blocco per i dirigenti opererebbe senz’altro in caso di licenziamento collettivo, mentre sarebbe escluso in caso di licenziamento individuale. Inoltre, sempre secondo il giudice capitolino, l’inapplicabilità ai dirigenti della reintegra nel posto di lavoro, rende tale categoria maggiormente esposta al rischio occupazionale e perciò l’esigenza di “non lasciare che il danno pandemico si scarichi sistematicamente ed automaticamente sui lavoratori” deve riferirsi anche ai dipendenti apicali.

     

    A sostegno di una tesi opposta vale la pena ricordare che la moratoria dei licenziamenti per motivi oggettivi è stata inizialmente disposta per un periodo di 60 giorni (dal 17 marzo 2020) ma, stante il perdurare della crisi pandemica, il termine è stato via via esteso, da ultimo, al 31 marzo prossimo e sappiamo già che verrà prorogato ulteriormente quanto meno fino al 30 giugno 2021. Tutte tali proroghe sono state accompagnate dalla messa in campo o dall’estensione di ammortizzatori sociali.

     

    E allora appare rilevante il fatto che i dirigenti non possano beneficiare della “cassa covid” e precludere la possibilità di licenziarli, anche in caso di obiettiva sospensione o riduzione del lavoro, comporterebbe addossare interamente sui datori di lavoro il peso economico della pandemia relativamente a tale categoria di dipendenti. Da questo punto di vista, i dubbi di costituzionalità del blocco dei licenziamenti per contrasto con il principio di libertà dell’iniziativa economica privata, sarebbero ancor più forti se si estendesse la moratoria anche ai licenziamenti dei dirigenti basati su motivi oggettivi.

     

    Sta di fatto che una lettura costituzionalmente orientata delle norme che disciplinano il blocco dei licenziamenti per motivi oggettivi potrebbe portare a conclusioni opposte a seconda se, nel bilanciamento degli interessi delle parti coinvolte, si ritenga prevalente l’art. 41 o l’art. 3 Cost.

     

    Anche la presidente della commissione Lavoro della Camera ha recentemente dichiarato che “nella stesura della norma sui licenziamenti, mi aspetto che vengano confermate le attuali deroghe, e che siano espressamente esclusi dal blocco i dirigenti per i quali queste normative sono inapplicabili”, di fatto schierandosi in posizione critica rispetto alla pronuncia del Tribunale di Roma qui esaminata.

    Seppure dall’applicabilità della norma che prorogherà il blocco dei licenziamenti verranno espressamente esclusi i dirigenti, è comunque possibile che le conclusioni cui è giunto il giudice della prima fase vengano confermate. Infatti, nel caso di specie, è di fondamentale rilievo il fatto che il dirigente licenziato lamentava di essere uno “pseudo-dirigente” ossia di rientrare in tale categoria solo formalmente. Si tratta di quei dipendenti che, pur essendo inquadrati nella categoria dirigenziale, di fatto svolgono mansioni caratterizzate da un grado di autonomia non corrispondente al profilo, con poteri di iniziativa circoscritti e corrispondente limitazione di responsabilità proprie di una categoria inferiore come quella dei quadri.

     

    Se il giudice della (verosimile) opposizione ammetterà la prova di tale circostanza e la tesi dello pseudo-dirigente risultasse dimostrata, dovrà essere confermato che al ricorrente licenziato è applicabile la disciplina prevista per la generalità dei lavoratori, così come dovrà essere confermata la nullità (ex comma 1, art. 18 L. 300/1970) del recesso intimato in violazione del blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, con conseguente condanna della società alla reintegra del dirigente ed al risarcimento del danno.

     

     

    e.noto@macchi-gangemi.com

     

     

     

    Fideiussioni redatte secondo lo schema ABI e competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa.

     

    Con la decisione n. 6523 del 10 marzo 2021 la Corte di Cassazione ha stabilito che la domanda volta a far dichiarare la nullità di una fideiussione omnibus, per violazione della normativa antitrust, è di competenza delle sezioni specializzate del Tribunale delle imprese ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. c) e d), d. lgs. n. 168/2003.

     

    Si ricorda che con provvedimento n. 55 del 2005 la Banca d’Italia aveva accertato che determinati articoli dello schema contrattuale di fideiussione posta a garanzia di operazioni bancarie (c.d. fideiussione omnibus), predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana), determinavano un’intesa restrittiva della concorrenza vietata, ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. a), della legge 10 ottobre 1990 n. 287.

     

    Secondo parte della giurisprudenza, la nullità dell’intesa vietata comporterebbe anche la nullità delle fideiussioni che ne costituiscono esecuzione. Per lo più, secondo questa interpretazione, la nullità riguarderebbe non l’intero contratto di fideiussione, ma soltanto le clausole oggetto dell’intesa vietata.

     

    Altre sentenze, invece, ritengono che il fideiussore potrebbe soltanto proporre un’azione di risarcimento del danno, mentre, secondo altre decisioni, la normativa antitrust si applicherebbe nei confronti del cliente della banca, ma non del fideiussore.

     

    In effetti, in molte sentenze la Corte di Cassazione ha ribadito chiaramente che: (i) il consumatore finale è legittimato a proporre l’azione di nullità dell’intesa illecita e a chiedere il risarcimento del danno subìto a causa dell’intesa stessa; (ii) il giudice competente a decidere su tali domande è quello specificamente indicato dall’art. 33, comma 2, l. n. 287/1990 (e cioè la Corte d’Appello, e, oggi, dopo le modifiche apportate dal decreto legge n. 1/2012, le sezioni specializzate del tribunale in materia di impresa).

     

    Non sembra, invece, che la Corte di Cassazione abbia chiaramente affermato che la nullità dell’intesa vietata comporti anche la nullità della fideiussione che di quell’intesa costituisce esecuzione. Tale questione, infatti, è stata affrontata dalla Corte in diverse occasioni in via incidentale, per valutare la fondatezza di altri aspetti di natura processuale ad essa collegati.

     

    La sentenza in commento conferma che “spetta il risarcimento del danno per tutti i contratti che costituiscano applicazione delle intese illecite”, e che tale azione implica l’accertamento della nullità dell’intesa vietata da parte del giudice competente ai sensi dell’art. 33, comma 2, l. n. 287/1990.

     

    È vero che, nel caso oggetto della decisione della Corte, il fideiussore non aveva proposto la domanda risarcitoria, ma quella di nullità. Tuttavia, la Corte di Cassazione non esamina la fondatezza della domanda di nullità, che viene considerata soltanto ai fini della individuazione del giudice competente a decidere. Infatti, anche per poter esaminare tale domanda occorre che venga previamente accertata, da parte di tale giudice, la nullità dell’intesa di cui la fideiussione costituisce esecuzione.

     

     

    m.deboni@macchi-gangemi.com

     

     

     

    Le modifiche e le integrazioni al Codice della Crisi e dell’insolvenza (prima parte).

     

    Il Decreto Legislativo del 26 ottobre 2020, n. 147 ha introdotto alcune correzioni ed integrazioni al c.d. codice della crisi d’impresa (“Codice”) e dell’insolvenza di cui Decreto Legislativo del 12 gennaio 2019, n. 14 in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155. Vediamo quali sono le principali novità.

     

    L’entrata in vigore.

    Con tale intervento, l’entrata in vigore del Codice è stata rinviata al primo di settembre del 2021, anche se da diverse parti, si vocifera un ulteriore proroga per un altro anno.

     

    Novità per quanto riguarda le definizioni.

    In prima battuta, vengono modificate le definizioni di cui all’art. 2 del Codice.

    Alla lettera a) il concetto di crisi non viene più definito come lo stato di difficoltà economico-finanziaria, bensì come lo squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore. Si tratta di una novità non solo lessicale ma che attribuisce una chiara colorazione tecnica al concetto di crisi.

    Viene rimodulata poi la definizione di gruppo di imprese, da una parte, ampliando la gamma delle eccezioni tra cui non rientra più solo lo Stato bensì anche l’ente territoriale, dall’altra rimodulando la presunzione di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento ora riferibile alla società o ente tenuto al consolidamento dei bilanci ovvero alla società o ente controllanti anche indirettamente ed in caso di controllo congiunto.

    Alla lettera p) si specifica, poi, che le misure protettive contro atti di aggressione individuale da parte dei creditori, devono essere richieste dalle parti e quindi non operano mai automaticamente.

     

    I crediti prededucibili.

    All’art. 6 si è sentita l’esigenza di ulteriormente specificare che tra i crediti prededucibili sorti durante le procedure concorsuali rientrano i crediti derivanti da attività non negoziali degli organi preposti, purché connesse alle loro funzioni, i crediti risarcitori derivanti da fatto colposo degli organi predetti, il loro compenso e le prestazioni professionali richieste dagli organi medesimi.

     

    L’obbligo del revisore contabile.

    Da segnalare tra gli obblighi di segnalazione che incombono sull’organo di controllo ai sensi dell’art. 14 del Codice anche l’aggiunta del dovere di informativa al revisore contabile o la società di revisione. Allo stesso modo, il revisore contabile o la società di revisione dovranno quindi informare l’organo di controllo della segnalazione effettuata all’organo amministrativo.

     

    Procedura di allerta.

    Assai rilevante con riferimento all’art. 15 ed all’obbligo di segnalazione del creditore pubblico qualificato Agenzia delle Entrate è l’attenuazione delle soglie al verificarsi delle quali scatta detto obbligo. Ora per l’Agenzia delle entrate tale obbligo è previsto quando l’ammontare totale del debito scaduto e non versato per IVA è superiore ai seguenti importi: euro 100.000, se il volume di affari risultante dalla dichiarazione relativa all’anno precedente non e’ superiore ad euro 1.000.000; euro 500.000, se il volume di affari risultante dalla dichiarazione relativa all’anno precedente non è superiore ad euro 10.000.000; euro 1.000.000 se il volume di affari risultante dalla dichiarazione relativa all’anno precedente è superiore ad euro 10.000.000.

     

    I componendi dell’OCRI.

    All’art. 17 è ora previsto che quanto alla nomina e composizione del collegio dell’OCRI – Organismo di Composizione della Crisi uno dei componenti sia designato dall’associazione rappresentativa del settore di riferimento del debitore.

     

    Attività istruttorie del tribunale in pendenza di una procedura di composizione.

    Interessante l’introduzione del comma 4 bis all’art. 19 che prevede la possibilità per il Tribunale adito con una domanda di apertura della procedura di liquidazione giudiziale di compiere attività istruttorie ritenute necessarie benché sia pendente una procedura di composizione della crisi all’esito della quale sarà procedibile la istanza per l’apertura della liquidazione giudiziale.

     

    Il ruolo del PM.

    Risulta poi modificato l’art. 38 che disciplina l’iniziativa del Pubblico Ministero per l’apertura della liquidazione giudiziale. Vengono aggiunti in questo caso due commi: il terzo ed il quarto. Degna di nota è la previsione di cui al terzo comma che contempla il potere di intervento del Pubblico Ministero in tutti i procedimenti diretti all’apertura di una procedura di regolazione della crisi e dell’insolvenza.

     

    Gli obblighi del debitore.

    L’art. 39 del Codice che regola gli obblighi del debitore che chiede l’accesso a una procedura regolatrice della crisi o dell’insolvenza prevede ora che gli elenchi dei creditori dei titolari di diritti reali e personali che ne siano muniti debbano contenere l’indicazione del domicilio digitale. È altresì stabilito che la relazione riepilogativa degli atti di straordinaria amministrazione, compiuti nel quinquennio anteriore possa essere depositata anche in formato digitale.

    Per le imprese non soggette all’obbligo di redazione del bilancio, è necessario depositare anche le dichiarazioni IRAP concernenti i tre esercizi precedenti.

     

    Enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatoria.

    Secondo la nuova versione dell’art. 48 il Tribunale omologa ora gli accordi di ristrutturazione o il concordato preventivo anche in mancanza di adesione da parte, non solo, dell’amministrazione finanziaria, ma anche, degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali previste dalla legge e quando la proposta di soddisfacimento della predetta degli stessi è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.

     

    Misure protettive.

    Con riferimento alle misure protettive di cui agli artt. 55 e 56 del Codice viene stabilita una durata non superiore a quattro mesi.

     

    Nella seconda parte – che verrà pubblicata in una prossima newsletter – verranno trattate le novità che riguardano gli accordi in esecuzione dei piani attestati di risanamento, gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, l’esecuzione del piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore, il concordato preventivo, la revocatoria fallimentare, il procedimento di accertamento del passivo, l’esdebitazione, l’albo dei gestori della crisi ed infine gli assetti organizzativi delle società.

     

     

    g.scotti@macchi-gangemi.com

     

     

     

    Il nuovo regime di rivalutazione dei beni d’impresa.

     

    Il legislatore, a più riprese, ha previsto regimi di rivalutazione dei beni d’impresa e delle partecipazioni. Il nuovo regime, previsto dall’art. 110 del D.L. n. 104/2020, può essere effettuato ai soli fini civilistici (senza assolvimento di imposte) oppure, se effettuato anche ai fini fiscali, vede il beneficio dell’imposizione sostitutiva ridotta al 3%.

     

    Con l’art. 110 del D.L. n. 104 del 14 agosto 2020 convertito, con modificazioni, nella Legge 13 ottobre 2020, n. 126, è stato (re)introdotto un regime di rivalutazione “generale” dei beni rivolto a tutti i soggetti imprenditori (incluse le società di capitali, gli enti commerciali e le società di persone residenti, le stabili organizzazioni di soggetti non residenti, ecc.) che non adottano i principi contabili internazionali nella redazione del bilancio.

     

    Questo “nuovo” regime, la cui disciplina rimanda espressamente alle precedenti (e simili) leggi di rivalutazione emanate in passato, prevede che possono essere oggetto di rivalutazione sia le immobilizzazioni materiali – ad esclusione degli immobili alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività di impresa – che i beni immateriali, anche se completamente ammortizzati, nonché le partecipazioni immobilizzate di controllo e collegamento risultanti dal bilancio dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2019.

     

    La rivalutazione può essere effettuata “separatamente” per ciascun bene e deve essere eseguita nel primo bilancio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2019, ovvero, nella generalità dei casi, nel bilancio al 31 dicembre 2020. Per i soggetti con esercizio sociale non coincidente con l’anno solare, è possibile eseguire la rivalutazione nel bilancio 2019/2020, purché esso sia approvato in data successiva al 14 ottobre 2020 e i beni risultino dal bilancio dell’esercizio precedente.

     

    Il maggior valore attribuito ai beni in sede di rivalutazione può essere riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP (ad es. ai fini dell’ammortamento, della disciplina delle società non operative, ecc.) a decorrere dall’esercizio successivo a quello con riferimento al quale la rivalutazione è stata eseguita (ovvero, dall’esercizio chiuso al 31 dicembre 2021, per i soggetti “solari”) mediante il versamento di una imposta sostitutiva del 3%, che può essere versata in tre rate di pari importo.

     

    Tuttavia, ai soli fini della decorrenza degli effetti per le plusvalenze e minusvalenze, il legislatore ha previsto che le stesse siano calcolate avendo riguardo al costo dei beni “ante rivalutazione” qualora la cessione (o la destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa) dei beni rivalutati avvenga in data anteriore a quella di inizio del quarto anno successivo a quello nel cui bilancio la rivalutazione è stata eseguita (ovvero, in data anteriore al 1 gennaio 2024 per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare).

     

    Il saldo attivo di rivalutazione costituisce una riserva in sospensione d’imposta che può essere affrancata dall’impresa ai fini fiscali pagando, in luogo delle imposte ordinarie, una “ulteriore” imposta sostitutiva del 10%. Qualora detta riserva non sia affrancata, la stessa sarà assoggettata ad imposizione (secondo le modalità ordinario) in caso di sua distribuzione ai soci.

     

     

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