LATEST NEWS & INSIGHTS 10 Febbraio 2023

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IL PROCEDIMENTO NAZIONALE IN TEMA DI “GOLDEN POWER” È BIFASICO: I CHIARIMENTI DEL CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 9 GENNAIO 2023, N. 289 SULL’ESERCIZIO DEI POTERI SPECIALI EX D.L. N. 21/2012.

 

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, si è pronunciato sull’esercizio del potere di veto da parte del Governo in riferimento ad un’acquisizione societaria nel settore alimentare. Tale decisione, a ben vedere, si inserisce tra le limitate decisioni del giudice amministrativo in tema di poteri speciali del Governo.

 

Come noto, con il D.L. n. 21/2012 si abbandona il precedente principio della “golden share”, passando al conferimento allo Stato di alcuni “golden powers” di carattere generale. Tali poteri consistono, sussistendo le condizioni previste dalla normativa, nella facoltà di opporsi e/o porre il veto e/o dettare condizioni alla realizzazione delle operazioni straordinarie. Con tale “istituto” si attribuisce all’ordinamento giuridico statale il potere di controllare le operazioni di investimento finalizzate all’acquisizione di imprese operanti in settori strategici, consentendo in tal modo all’autorità governativa di esercitare un potere di “opposizione” rispetto a talune operazioni societarie. Lo Stato ha il potere di opporsi all’ingresso, nella compagine societaria dell’ente, di soci che risultano “non graditi”.

 

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato ribadisce, in primo luogo, che l’esercizio dei poteri speciali costituisce atto amministrativo (e quindi non politico) e in quanto tale sottoponibile al vaglio del giudice amministrativo. Allo stesso tempo, la giurisprudenza qualifica tali atti come atti di alta amministrazione, riconoscendo al Governo un’ampia discrezionalità in materia e di conseguenza un sindacato giurisdizionale sull’atto meno ampio. Ciò deriva dal fatto che la disciplina dei poteri speciali è orientata alla tutela della sicurezza nazionale, concetto dai confini labili ed indeterminati (al punto tale da ricomprendere sempre più anche la c.d. sicurezza economica). L’intensità del sindacato del giudice amministrativo è dunque limitata a verificare la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dei poteri speciali ed il rispetto dei vincoli di legge. In questo senso la sentenza del 9 gennaio 2023, n. 289 afferma che: “il potere di golden power, infatti, rappresenta il limes provvedimentale posto dalla legge a garanzia ultima dell’interesse nazionale nelle specifiche macro-aree economiche prese in considerazione; come tale, e proprio inquanto dettato a tutela di interessi fondamentali (“strategici”) della collettività nazionale come discrezionalmente apprezzati dal Consiglio dei Ministri, esige un fondamento normativo altrettanto ampio, elastico, flessibile ed inclusivo, che consenta di apprestare la massima e più efficace tutela agli (assai rilevanti) interessi sottostanti: in tale specifica ottica, esula qualunque addebito di indeterminatezza e genericità”.

 

In secondo luogo, a fronte della censura mossa dall’appellante circa l’asserito contrasto tra la fase istruttoria (posta in essere nel caso di specie dal Ministero dell’Agricoltura che in prima battuta aveva dichiarato non sussistente i presupposti per l’esercizio del potere speciale) e quella decisoria presa dal Governo in cui si è deciso di esercitare con il decreto impugnato il potere di veto, il Giudice afferma che: “il procedimento nazionale in tema di “golden power” è, invero, bifasico”.

 

Sotto questo profilo si è chiarito come il suddetto iter procedimentale preveda all’evidenza una prima fase di carattere prettamente istruttoria tesa all’acquisizione di tutti i dati di fatto rilevanti al fine di ricostruire ed inquadrare l’operazione in chiave tanto analitica, quanto sistemica, a beneficio della successiva valutazione finale: tale fase, che il D.P.R. n. 86 del 2014 significativamente definisce come “attività propedeutica all’esercizio dei poteri speciali”, è curata da un apposito Gruppo di coordinamento, composto da personale di livello dirigenziale apicale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei vari Ministeri interessati.

 

La seconda fase, invece, è decisoria ed è ad appannaggio esclusivo del Consiglio dei Ministri, che: “non si limita ad una ricognizione atomistica, puntiforme e, per così dire, “contabile” ed anodina delle caratteristiche specifiche dell’operazione, ma la traguarda nell’ambito e nel contesto dei fini generali della politica nazionale, ponderandone gli impatti sia sull’assetto economico-produttivo del settore socio-economico interessato, sia sulla più ampia struttura dell’economia nazionale, sia, infine, sui rapporti internazionali e sul complessivo posizionamento politico-strategico del Paese nell’agone internazionale”.

 

Per queste ragioni, data la struttura bifasica del procedimento ex d.l. n. 21/2012, il Consiglio di Stato conclude per ritenere legittimo e scevro dai vizi denunciati il decreto di veto posto dal Governo all’operazione societaria. La fase decisoria prevede la partecipazione dei vertici politici di tutte le amministrazioni dello Stato, per cui pur prendendo le mosse dai dati di fatto acquisiti in sede istruttoria, costituisce una fase altamente discrezionale la cui decisione deve essere presa in un’ottica non solo economica e finanziaria, “ma in senso più globale strategica”.

 

Vi è da osservare, infine, che la sentenza del Consiglio di Stato, pur essendo una delle poche decisioni emanate in tema di golden power, potrebbe aprire “la strada” ad altre pronunzie in materia: ed invero, una volta che i giudici amministrativo hanno qualificato l’esercizio del potere di veto quale atto c.d. di “alta amministrazione”, va da sé che da un lato si è riconosciuto al Governo un’ampia discrezionalità in materia, dall’altro, atteso l’incremento delle operazioni notificate ai fini della valutazione Golden Power, è possibile immaginare sempre più pronunzie che tentando di fornire chiarimenti e regole, pian piano alzano la soglia di sindacabilità e di cognizione dei provvedimenti adottati dal Governo.

 

 

n.digiandomenico@macchi-gangemi.com

 

 

 

IL CONCORDATO LIQUIDATORIO SEMPLIFICATO: PRIME PRONUNCE DI OMOLOGAZIONE.

 

Il Tribunale di Como – soffermandosi sull’estensione del vaglio che il giudicante è chiamato ad effettuare di fronte ad una domanda di omologazione di concordato liquidatorio semplificato – ha recentemente accolto una domanda di omologa di un concordato semplificato sebbene non prevedesse alcun soddisfacimento per una larga parte del ceto creditorio del proponente e nonostante l’opposizione di alcuni creditori non coinvolti nelle trattative.

 

Con decreto del 3 ottobre 2022, il Tribunale di Como ha accolto la domanda di omologazione del concordato semplificato ex art. 18 D.L. 118/2021 (la cui disciplina è ora contenuta negli artt. 25-sexies e 25-septies del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza – “CCII”) al termine delle verifiche che il legislatore impone al Collegio giudicante in questa particolare procedura di recente introduzione.

 

Il provvedimento in commento è di particolare interesse in quanto rappresenta probabilmente la prima pronuncia di omologazione di un concordato semplificato e offre un quadro molto utile delle valutazioni demandate al Tribunale ai fini dell’omologazione, valutazioni che dipendono in parte proprio dalle marcate peculiarità che contraddistinguono questo nuovo istituto rispetto al tradizionale concordato preventivo.

 

Il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, infatti, si caratterizza principalmente per la mancanza dell’approvazione dei creditori, non chiamati a esprimersi sulla proposta concordataria formulata dal debitore, mentre nel concordato preventivo non è possibile pervenire all’omologa senza che i creditori si esprimano e siano raggiunte le maggioranze prescritte dalla legge. Ulteriori differenze, poi, riguardano la mancata previsione dell’attestazione di veridicità dei dati rappresentati dal debitore e sulla fattibilità del piano proposto – laddove, invece, nel concordato preventivo è richiesto che un professionista indipendente si esprima su tali aspetti cruciali e la fattibilità è successivamente oggetto del vaglio del Tribunale in sede di omologazione, ove si verifica la non manifesta attitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati. Inoltre, non è prevista una soglia minima di soddisfacimento dei creditori che, al contrario, condiziona l’ammissibilità del concordato preventivo (se di tipo liquidatorio, come lo è peraltro anche il concordato semplificato).

 

A questa nuova tipologia di concordato – che, come visto, determina indubbi vantaggi per il debitore – non si può tuttavia accedere liberamente: la legge prevede infatti che il debitore possa proporre una domanda di concordato semplificato solo ove abbiano avuto esito negativo le trattative condotte, in buona fede e correttamente, nell’ambito della nuova procedura di composizione negoziata della crisi disciplinata oggi dagli artt. 12 e ss. del CCII. Si tratta quindi di uno strumento residuale e che non può essere invocato sin dall’inizio dal debitore: il debitore che acceda alla composizione negoziata all’esclusivo scopo di addivenire all’omologazione di un concordato semplificato incorrerebbe in un uso distorto e abusivo dello strumento.

 

Come si può intuire, il concordato semplificato potrebbe portare ad un deterioramento della posizione dei creditori rispetto a quella di cui godono nel concordato preventivo, motivo per il quale lo scrutinio del Tribunale in sede di omologazione è più pregnante, dovendo sopperire – almeno in parte – alla mancata previsione di un’approvazione da parte dei creditori cui la proposta concordataria è rivolta, creditori ai quali è esclusivamente riconosciuto il diritto di opporsi all’omologazione.

 

Nella sentenza in commento, il Tribunale illustra con chiarezza l’estensione e le caratteristiche del vaglio che è chiamato ad effettuare in sede di omologa. Preliminarmente, viene verificata la qualifica di imprenditore in capo al debitore, il presupposto dello stato di crisi, la competenza territoriale del Tribunale adito, l’integrità del contraddittorio e la tempestività della domanda. Fatto ciò, il Tribunale passa allo scrutinio delle condizioni di ammissibilità della domanda attraverso il richiamo alla relazione dell’esperto che ha seguito la composizione negoziata, dalla quale deve emergere che le trattative sono state condotte da debitore e creditori secondo buona fede e correttezza, non hanno nondimeno avuto esito positivo, e sono state ritenute impraticabili le soluzioni alla crisi individuate dall’art. 23, commi 1 e 2 del CCII. Completate queste analisi, ai sensi dell’art. 18 D.L. 118/2021 il Tribunale è chiamato alla verifica (i) del rispetto delle cause legittime di prelazione e (ii) della mancanza di pregiudizio della proposta concordataria nei riguardi dei creditori, ovvero della destinazione al singolo creditore di una utilità, non inferiore a quanto da egli conseguibile nell’ambito di un’eventuale liquidazione giudiziale.

 

Il Tribunale di Como si è soffermato in particolar modo su tale ultimo aspetto, in quanto la proposta concordataria prevedeva il pagamento non integrale di alcuni creditori privilegiati (dipendenti e creditore ipotecario), mentre nessun pagamento era previsto a favore dei creditori chirografari in ragione dell’insufficienza dell’attivo. Sul punto, il Tribunale ha ritenuto di condividere l’opinione dell’esperto e dell’ausiliario, i quali non avevano valutato la proposta come deteriore rispetto alla prospettiva della liquidazione giudiziale, avendo verificato che non vi erano voci dell’attivo o del passivo tali da poter essere rappresentate diversamente in uno scenario liquidatorio e che nemmeno la ripartizione dell’attivo tra i creditori sarebbe stata differente. Nella fattispecie, il Tribunale ha valorizzato il fatto che, nei due scenari (concordatario semplificato e liquidatorio) la cessione atomistica dei beni avrebbe consentito lo stesso realizzo e la circostanza che, quanto alle prospettive di realizzo attraverso le azioni giudiziali esperibili, la liquidazione giudiziale non avrebbe portato a risultati migliori di quelli ottenibili in sede concordataria. Oltretutto la proposta di concordato prevedeva un fondo rischi e oneri che costituiva un possibile attivo ulteriore non presente nello scenario liquidatorio e contemplava una manifestazione di interesse all’acquisto di un bene del debitore condizionato all’omologa e sicuramente non concreta nello scenario alternativo. Il Tribunale, quindi, pur stigmatizzando la natura “eccessivamente premiale” dell’istituto, ha concluso per la non configurabilità, nell’alternativa della liquidazione giudiziale, di prospettive di utilità superiori rispetto a quelle che potevano emergere dalla proposta di concordato, né per i chirografari (che non avrebbero trovato soddisfazione in nessuna delle due procedure) né per i privilegiati (cui era prospettato un rimborso parziale).

Sotto un diverso profilo, è di particolare interesse quanto il Tribunale afferma relativamente al rigetto di una delle opposizioni all’omologazione promossa da un creditore, il quale lamentava il mancato rispetto del requisito dello svolgimento delle trattative secondo buona fede e correttezza: alcuni creditori, secondo l’opponente, non erano stati chiamati a parteciparvi nell’ambito della composizione negoziata. Ebbene, il Tribunale ha ritenuto di rigettare l’opposizione nel presupposto che, per come era stato elaborato il piano imprenditoriale presentato in sede di composizione negoziata, risultava fondamentale e prioritario un accordo con i lavoratori dipendenti al fine di convertire l’attività industriale: non essendosi concretizzato tale accordo, era sostanzialmente inutile una trattativa effettiva con altri creditori, pertanto il mancato coinvolgimento di questi non è stata ritenuta tale da ostacolare l’omologazione del concordato.

 

 

g.bonfante@macchi-gangemi.com
g.rossetti@macchi-gangemi.com

 

 

 

LE NOVITÀ IN TEMA DI IMPOSIZIONE DEI NON RESIDENTI SULLE PLUSVALENZE IN SOCIETÀ ED ENTI “IMMOBILIARI”.

 

Con la legge di bilancio 2023 (L. 197/2022) il legislatore ha introdotto rilevanti modifiche normative al fine di prevedere l’assoggettamento ad imposta in Italia sui redditi dei soggetti non residenti derivanti dalla cessione di partecipazioni in società ed enti non residenti ma il cui valore deriva, direttamente o indirettamente, in prevalenza da immobili siti in Italia.

 

In particolare, si prevede l’assoggettamento ad imposta sostitutiva del 26% delle plusvalenze realizzate da investitori esteri sulla cessione della partecipazione in una società o ente non residente il cui valore deriva, per oltre il 50%, in qualsiasi momento nel corso dei 365 giorni che precedono la cessione, dall’investimento diretto e indiretto in immobili situati in Italia.

 

Il riferimento all’investimento indiretto implica che la disposizione si applichi anche all’ipotesi in cui siano cedute partecipazioni in una società o ente non residente che partecipa a uno o più veicoli che investono prevalentemente in immobili in Italia.

 

Non rilevano ai fini del computo della percentuale del 50% gli immobili strumentali (ossia quelli utilizzati direttamente nell’esercizio dell’impresa) né gli immobili che costituiscono beni merce (ossia quelli alla cui produzione o scambio è diretta l’attività di impresa).

 

Non sono assoggettate ad imposta le plusvalenze da cessione di titoli quotati e si attende un chiarimento volto ad escludere anche le cessioni di quote di fondi di investimento immobiliare.

Non sono soggette ad imposizione le plusvalenze realizzate da OICR UE o SEE conformi alla direttiva UCITS o il cui gestore sia soggetto a forme di vigilanza in base alla direttiva AIFM.

 

Le nuove disposizioni devono comunque essere coordinate con le convenzioni per evitare le doppie imposizioni che per la maggior parte (ma vi sono importanti eccezioni) attualmente non consentono all’Italia di assoggettare ad imposta tali redditi e dunque impediscono il pieno funzionamento delle novità introdotte

 

La modifica normativa va, tuttavia, letta in relazione alle modifiche alle convenzioni per evitare le doppie imposizioni previste dal Multilateral Convention to Implement Tax Treaty Related Measures to Prevent Base Erosion and Profit Shifting (MLI), una convenzione multilaterale promossa in sede OCSE – sottoscritta già da 100 stati inclusa l’Italia – il cui effetto sarà di modificare in modo sostanzialmente automatico le convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni sottoscritte dagli stati aderenti.

 

L’art. 9 del MLI prevede il diritto dello stato in cui si trovano gli immobili che costituiscono più del 50% del valore di una società o ente di assoggettare a tassazione il reddito derivante dalla cessione delle partecipazioni in tale società o ente. Una volta che il MLI entrerà in vigore per l’Italia (non prima del 2024) saranno modificate una serie di convenzioni per evitare le doppie imposizioni concluse dall’Italia nel senso di consentire l’assoggettamento ad imposta delle plusvalenze su cessioni di partecipazioni in società immobiliari.

 

 

b.pizzoni@macchi-gangemi.com

 

 

 

“PRIVACY BY DESIGN”: VERSO UNA PIENA EFFETTIVITÀ DEL PRINCIPIO CON LA NUOVA ISO 31700.

 

Lo scorso 8 febbraio 2023 la Organization for Standardization ha adottato la regola ISO 31700. I titolari del trattamento hanno ora a loro disposizione una guida, con principi e requisiti da implementare di default sin dalla fase di progettazione di un processo, prodotto o servizio che implichi trattamento di dati personali – al fine di garantire la corretta protezione delle informazioni di identificazione personale (PII) dei consumatori.

 

La cd “Privacy by design” ha origini anteriori allo stesso Reg. UE 2016/679 (GDPR), che oggi la sancisce all’art. 25 par. 1. Per quanto tale principio sia stato anche oggetto di discussione nella trentaduesima Conferenza mondiale dei Garanti per la privacy, tenutasi a Gerusalemme nel 2010, la sua prima elaborazione risale alla fine degli anni ’90, ad opera di Anna Cavoukian (all’epoca Commissaria per l’informazione e la privacy dell’Ontario ed oggi Direttore esecutivo del Global Privacy and Security by Design Centre di Toronto).

 

La ratio della Privacy by design è quella di far sì che le organizzazioni non si limitino al mero rispetto formale della normativa, ma adottino – con un approccio proattivo, preventivo e di default – misure tecnico organizzative (quali la pseudonimizzazione e l’anonimizzazione) “[…] tenendo conto dello stato dell’arte e dei costi di attuazione, nonché della natura, dell’ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento, come anche dei rischi”.

 

Lo scopo è quello di garantire: protezione e sicurezza durante tutto il ciclo di vita del prodotto/servizio offerto; visibilità e trasparenza dell’intero processo di trattamento del dato personale; centralità dell’utente, che deve essere messo al primo posto attraverso il pieno rispetto dei suoi diritti.

 

La crucialità che la Privacy by design riveste in relazione ai principi di accountability, nonché di effettività della tutela per i diritti e le libertà degli interessati ha fatto sì che la ISO 31700 venisse accolta con grande favore dagli esperti del settore.

 

Già nei giorni precedenti all’8 febbraio, sul sito dell’International Organization for Standardization sono stati pubblicati gli standard ISO 31700-1:2023 (“Protezione dei consumatori -Vita privata fin dalla progettazione per beni e servizi di consumo- Parte 1: Requisiti di alto livello”) e ISO/TR 31700-2:2023 (“Protezione dei consumatori- Vita privata fin dalla progettazione per beni e servizi di consumo- Parte 2: Casi d’uso”).

 

Il primo documento mira a stabilire requisiti di alto livello finalizzati a garantire la privacy durante l’intero ciclo di vita del prodotto o servizio; il secondo ha ad oggetto tre casi d’uso (vendita al dettaglio on-line, azienda di fitness, serrature intelligenti), con annesse analisi, al fine di aiutare i titolari a comprendere i requisiti di cui alla ISO 31700-1.

 

Trattasi di 30 requisiti/ linee guida che coadiuvano i titolari nella piena e corretta implementazione dei principi privacy. Tra le aree interessate troviamo, a titolo esemplificativo, ma non esaustivo: dichiarazioni sulla privacy; metodi di due diligence sulla privacy; trasparenza e responsabilità nella progettazione e nel funzionamento dei prodotti di consumo che trattano le PII; analisi e implementazione di controlli sulla privacy basati su contesto ed esigenze del consumatore; gestione di eventuali data breach.

 

Lo standard è destinato a un’ampia platea di destinatari (startup, multinazionali, organizzazioni di ogni dimensione) e si applica a tutti i prodotti che utilizzano le PII, sia che si tratti di beni fisici che di servizi immateriali (come il SaaS – Software as a Service).

 

In un mercato come quello odierno – sempre più digitale e caratterizzato da piattaforme condivise e dispositivi interconnessi – diventa fondamentale responsabilizzare i titolari nell’ottica di una maggiore tutela del consumatore e dei suoi dati personali.

 

Sulla scorta delle considerazioni sopra esposte, nonostante l’adozione del nuovo standard ISO costituirebbe un costo ulteriore e anche non irrilevante per l’organizzazione (CHF166 e CHF145), in un bilanciamento costi-benefici occorrerebbe dare peso superiore ai vantaggi futuri di cui l’organizzazione beneficerebbe: maggiori garanzie di compliance rispetto a quanto richiesto dal GDPR; maggiore fiducia dei clienti/ consumatori, con conseguente maggiore competitività sul mercato; minori rischi legali o reputazionali per l’azienda; maggiori probabilità di riuscire a dimostrare all’autorità la propria diligenza nella protezione dei dati personali.

 

 

f.montanari@macchi-gangemi.com
l.laterza@macchi-gangemi.com

 

 

DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.

 

 

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