LE NUOVE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI DISTRIBUZIONE AUTOMOBILISTICA: QUALI SONO LE NOVITÀ?
La scorsa estate, a poco più di due mesi dall’entrata in vigore del nuovo regolamento della Commissione Europea sugli accordi verticali e pratiche concordate (Regolamento UE 720/2022 – VBER), il Parlamento italiano, con la legge di conversione 05.08.2022, n. 108 al Decreto Legge 16.06.2022, n. 68, ha introdotto disposizioni di tutto rilievo in materia di distribuzione automobilistica, disciplinando importanti aspetti del rapporto tra costruttore, importatore e distributore che l’Europa aveva qualche mese prima (volutamente?) tralasciato. Di seguito le principali novità.
Le nuove disposizioni in materia di distribuzione automobilistica sono state inserite in sede di conversione del Decreto Legge 68/2022 da un nuovo art. 7 quinquies che non solo enuncia precise regole sulla durata dei contratti di concessione tra costruttore/importatore e distributore, sui termini di recesso e sugli obblighi di informazione in sede di trattative ma individua pure un inedito e gravoso obbligo di “indennizzo” a carico della società concedente in caso di anticipata cessazione del contratto prima della sua scadenza naturale.
Novità dirompenti di cui, forse, avrebbe dovuto occuparsi la Commissione Europea anziché il Parlamento italiano, anche per preservare una certa omogeneità nella normativa di settore tra gli Stati dell’Unione Europea; così, si è preferito diversificare la realtà italiana con disposizioni precettive che, per tecnica legislativa, si pongono in controtendenza rispetto al precedente Regolamento (UE) 330/2010 e al recente Regolamento (UE) 720/2022, dove le intese o le pratiche concordate tra due o più imprese erano/sono lecite – e quindi meritevoli dell’esenzione per categoria – semplicemente in quanto non contrastanti con le hardcore restrictions.
Con l’art. 7 quinquies, invece, si è ora tornati ad una stringente disciplina degli accordi di distribuzione, con tanto di indicazione di una durata minima dell’accordo, quasi a fare rivivere sotto questo profilo il Regolamento “Monti” 1400/2002.
Ma procediamo con ordine.
Ambito di applicazione
L’art. 7 quinquies si applica agli accordi verticali tra il Costruttore o l’Importatore e i singoli distributori autorizzati per la distribuzione di veicoli non ancora immatricolati o immatricolati dai distributori autorizzati da non più di sei mesi e che non abbiano percorso più di 6.000 km (art. 7 quinquies comma 1°).
Ecco finalmente una definizione di veicolo nuovo che, nella pratica, include anche le autovetture ed i veicoli in genere a “km0”; da notare l’assoluta corrispondenza di tale disposizione con la più risalente ed identica definizione di mezzo nuovo prevista per gli acquisti intracomunitari di beni ai fini dell’applicazione dell’I.V.A. (art. 38 Decreto Legge 30.08.1993, n. 331).
La durata dei contratti di distribuzione e recesso
La nuova VBER di giugno 2022 tace del tutto sul punto mentre l’art. 7 quinquies comma 2° prevede espressamente che gli accordi tra il costruttore o l’importatore ed il distributore “… hanno una durata minima di cinque anni …”. Sembra dunque possibile stipulare ancora contratti a tempo indeterminato purché non inferiori al quinquennio.
La norma lascia aperte alcune questioni: ipotizzando la conclusione di un contratto a tempo determinato della durata di cinque anni, il rinnovo deve necessariamente contemplare un ulteriore quinquennio o è possibile concordare detto rinnovo per un periodo inferiore? Se, scaduti i primi cinque anni, le parti nulla stabiliscono, in contratto si trasforma a tempo indeterminato?
Quanto al recesso, il relativo diritto viene riconosciuto ad entrambe le parti contrattuali fermo l’obbligo per il recedente di inviare all’altra parte una “… nota in forma scritta …” almeno sei mesi prima della scadenza (durata del contratto e recesso prendono sicuramente ispirazione dal Regolamento Monti 1400/2022).
Gli obblighi di informazione a carico del Costruttore o dell’Importatore
Nell’ambito delle trattative per giungere alla stipula di un contratto di distribuzione, l’art. 7 quinquies comma 3° ha introdotto un gravoso obbligo di informazione per il Costruttore o l’Importatore al fine di rendere edotto il futuro Partner dei reali rischi (e possibilità di guadagno) legati all’accordo: ora al potenziale distributore autorizzato devono essere fornite “… tutte le informazioni di cui sia in possesso, che risultino necessarie a valutare consapevolmente l’entità degli impegni da assumere e la sostenibilità degli stessi in termini economici, finanziari e patrimoniali, inclusa la stima dei ricavi marginali attesi dalla commercializzazione dei veicoli …”.
Non che prima non vi fosse un obbligo di trasparenza tra le parti nello svolgimento delle trattative (v. canone della buona fede – v. art. 1337 c.c.), ma un tale dovere non prevedeva certo l’impegno per il Costruttore o per l’Importatore di indicare al futuro Partner anche le possibili previsioni di guadagno.
E se simili previsioni si rivelassero poi errate?
L’equo indennizzo in caso di recesso dal contratto di distribuzione
Un’altra importante novità introdotta dall’art. 7 quinquies riguarda l’equo indennizzo che il Costruttore o l’Importatore sono tenuti a corrispondere al Partner in caso di recesso dal contratto di distribuzione prima della sua scadenza naturale; un simile indennizzo deve essere corrisposto tenendo in considerazione:
- a) gli investimenti sostenuti in buona fede dal distributore per l’esecuzione dell’accordo, purché tali investimenti non siano già stati ammortizzati alla data di cessazione del contratto;
- b) l’avviamento dell’attività svolta commisurato al fatturato del distributore autorizzato negli ultimi cinque anni di vigenza dell’accordo.
La norma precisa anche che un simile indennizzo non è comunque dovuto in caso di risoluzione del contratto per inadempimento del distributore o per recesso azionato da quest’ultimo (art. 7 quinquies comma 5°).
L’art. 7 quinquies del D.L. 68/2022 si applica a tutti gli accordi di distribuzione stipulati dopo il 05.08.2022 anche se, sul regime transitorio delle nuove disposizioni permangono incertezze.
LA HIGH COURT OF JUSTICE LONDINESE DICHIARA LA NULLITÀ DEI CONTRATTI DERIVATI STIPULATI DA UN ENTE LOCALE ITALIANO.
Il 14 ottobre 2022, la High Court of Justice inglese ha dichiarato la nullità dei contratti derivati stipulati da un ente locale italiano con alcune banche nel dicembre 2007 (Case FL-2019-000012, ref. [2022] EWHC 2586 (Comm)). La Corte inglese ha dichiarato la carenza della legittimazione a contrarre del Comune in questione in quanto i contratti stipulati hanno natura prevalentemente speculativa ed hanno generato ulteriore indebitamento per l’ente locale non destinato al finanziamento di investimenti, in violazione dell’art. 119, comma 6, della Costituzione italiana.
La sentenza in parola costituisce una svolta significativa nel panorama giurisprudenziale anglosassone. Nel vasto contenzioso che coinvolge le banche e gli enti locali italiani davanti alle corti domestiche, diverse banche si sono rivolte alle corti inglesi sia per risolvere questioni di giurisdizione sia per accertare preventivamente la validità dei contratti swap al fine di evitare le incertezze del contenzioso pendente o potenziale dinanzi ai Tribunali italiani. In contrasto con il consolidato ed univoco orientamento che riconosceva la validità dei contratti derivati, con questa sentenza, per la prima volta, il giudice inglese ha dichiarato la nullità dei contratti swap disciplinati dalla legge inglese e stipulati da un ente locale italiano, applicando i principi enucleati dalle Sezioni Unite nella nota sentenza n. 8770/2020.
Nel caso di specie, le banche hanno chiesto alla Corte inglese di dichiarare la validità e l’efficacia di alcuni contratti di interest rate swap stipulati il 21 dicembre 2007 con un comune italiano ed in subordine di ottenere un risarcimento nel caso in cui tali contratti fossero stati ritenuti invalidi ed inefficaci. Il Comune, d’altro canto, per diverse motivazioni, ha chiesto alla Corte di riconoscere l’invalidità e l’inefficacia dei contratti in questione (insieme alla restituzione delle somme pagate in virtù dei contratti) e, in subordine, il risarcimento nel caso in cui tali contratti fossero stati dichiarati validi ed efficaci.
Cruciale, dal punto di vista fattuale, è la circostanza per cui nella fattispecie le operazioni swap ristrutturavano, fra l’altro, un precedente derivato posto in essere con una banca statunitense. Tale posizione veniva chiusa anticipatamente a fronte di un pagamento corrisposto dalle banche. Il costo della chiusura del precedente derivato, sopportato dalle banche, veniva successivamente “assorbito” nelle condizioni contrattuali delle operazioni a sfavore del Comune, alterando significativamente gli equilibri contrattuali.
In particolare, l’invalidità dei contratti è stata sostenuta in base a due principali argomentazioni: (i) la Corte inglese ha ritenuto che i contratti fossero speculativi e come tali non potessero essere stipulati dal Comune e (ii) ha considerato gli stessi come indebitamento per il Comune, indebitamento che non è stato impiegato per finanziare spese di investimento, in ossequio all’articolo 119, comma 6 della Costituzione, ma per finanziare l’estinzione del precedente derivato.
i) Per quanto concerne la natura speculativa dei contratti, in base ad un’analitica ed approfondita analisi della Sentenza delle Sezioni Unite n. 8770/2020 nonché del quadro normativo e giurisprudenziale italiano e del panorama giurisprudenziale inglese, il giudice conclude che “un tribunale italiano avrebbe chiaramente ritenuto che le Operazioni fossero speculative”.
Il giudice ha ritenuto che il costo di estinzione del precedente derivato avesse avuto un considerevole impatto negativo per il Comune sulle condizioni contrattuali pattuite. Ciò testimonierebbe il carattere speculativo delle operazioni, le quali presentavano alla stipula un considerevole MtM negativo per il Comune (10,5 milioni) proprio a causa del costo di estinzione “assorbito” dalle componenti strutturali del nuovo derivato.
Nei contratti in parola, difatti, il collar presentava un significativo squilibrio a favore delle Banche: il valore del floor corrispondeva a cinque volte il valore del cap; il floor si attestava tra gli 80 e i 100 punti base in più di quanto sarebbe stato altrimenti. Il tasso di interesse minimo che il Comune si impegnava a pagare non era allineato alla curva dei tassi forward all’epoca della stipula, conseguentemente, la probabilità che il Comune perdesse denaro sulle operazioni era più elevata rispetto ai rischi che si sarebbe assunto considerando solo la passività sottostante.
In buona sostanza, come accade in molte operazioni che assorbono il MtM negativo di un precedente derivato, i livelli del collar non erano ancorati solo alle condizioni del debito sottostante, ma erano significativamente influenzati dai costi di chiusura del precedente derivato che venivano assorbiti nei nuovi contratti.
Ciò ha portato il giudice inglese a ritenere le operazioni prevalentemente speculative.
ii) Le operazioni presentavano un ulteriore profilo di illiceità in quanto creavano ulteriore indebitamento per l’ente locale senza che tale indebitamento fosse destinato a finanziare spese di investimento come richiesto dall’art. 119, comma 6 della Costituzione.
Il giudice Foxton non ha ritenuto sufficiente, come sostenuto dalle banche, considerare che il debito sottostante fosse stato emesso per finanziare una spesa di investimento e che il costo della chiusura del precedente derivato fosse parte di una transazione effettuata per ristrutturare tale debito. Al contrario, il giudice ha considerato tale costo come un pagamento anticipato (upfront), incorporato nelle operazioni, il quale, in base ai principi enucleati dalle Sezioni Unite, costituisce un finanziamento. L’upfront in questione, tuttavia, era finalizzato a coprire i costi di chiusura del precedente derivato e non a finanziare spese di investimento come richiesto dall’art. 119, comma 6 della Costituzione. Per questa ragione, il giudice ha ritenuto che le operazioni in parola siano state compiute in violazione dell’art. 119, comma 6 della Costituzione.
Il carattere prevalentemente speculativo insieme all’illeceità dell’ulteriore indebitamento sotteso alle operazioni ha portato il giudice Foxton a dichiarare la nullità e l’inefficacia dei contratti swap in quanto il Comune non aveva la legittimazione a contrarre, essendo, come noto, vietata agli enti locali italiani la stipula di operazioni speculative e il ricorso all’indebitamento se non per finanziare spese di investimento.
È interessante notare che, sebbene il Comune abbia diritto alla restituzione delle somme versate alle banche ai sensi delle operazioni dichiarate invalide, il giudice ha ritenuto applicabile al caso di specie la cd. “change of position defence”, che consentirebbe alle banche di limitare tali pagamenti restitutori opponendo i pagamenti effettuati in virtù delle operazioni di copertura (cd. back-to-back).
In base a questa difesa, in linea di principio non disponibile nel nostro ordinamento, sarebbe iniquo richiedere la restituzione integrale dell’indebito oggettivo in quanto, successivamente alla stipula delle operazioni con il Comune, la posizione delle banche sarebbe cambiata per via delle operazioni di copertura assunte per coprirne i rischi.
Il giudice ha riconosciuto l’applicabilità di questa difesa al caso di specie al fine di stemperare le conseguenze che altrimenti deriverebbero dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 8770/2020 “la quale porterebbe a considerare nulla fin dall’inizio un’operazione che entrambe le parti avevano considerato vincolante per quasi 13 anni”.
Vedremo se e come tale eccezione renderà il ricorso alle corti inglesi più favorevole per le banche in caso di riconoscimento della nullità dei contratti swap stipulati con enti locali italiani.
m.divincenzo@macchi-gangemi.com
NOVITÀ IN TEMA DI ENERGIA – LE AUTORITÀ PRENDONO SUL SERIO LA VOLATILITÀ DEI PREZZI SULL’ENERGIA?
Lo scorso 22 settembre 2022, l’ESMA (European Securities and Markets Authority) (ESMA 24-436-1414) si è espressa sulla volatilità dei mercati dei derivati sull’energia, chiarendo che:
– i recenti sviluppi geo-politici e di mercato hanno favorito un significativo aumento dei prezzi e della volatilità sui mercati energetici;
– tali incrementi dei prezzi e della volatilità hanno di conseguenza portato a sostanziali aumenti dei margini richiesti per coprire le relative esposizioni degli operatori;
– si sono registrate tensioni di liquidità sulle controparti non finanziarie, costringendole a ridurre le loro posizioni o lasciandole non adeguatamente coperte e, quindi, esposte a ulteriori variazioni di prezzo.
In tale prospettiva, l’ESMA e le autorità nazionali competenti saranno chiamate a cooperare per combattere eventuali minacce alla integrità dei mercati e seguiranno ogni potenziale segnale di manipolazione degli stessi.
L’ESMA quindi suggerisce l’adozione delle misure atte a contenere l’eccessiva volatilità, al fine di migliorare il funzionamento dei mercati.
L’Autorità propone di implementare – su base temporanea e solo per il mercato dei derivati energetici – un meccanismo di contenimento della volatilità. Si tratta dei c.d. “interruttori di circuito” (di cui all’art. 48 della direttiva 2014/65/EU, c.d. MIFID II), ovvero misure temporanee che sospendono le negoziazioni, affinché possa essere fornito ai partecipanti al mercato più tempo per elaborare il flusso di informazioni durante gli scenari di stress di mercato estremi. Gli interruttori di circuito (i c.d. “circuit breakers”) costituiscono strumenti da adottare esclusivamente per periodi limitati e in circostanze eccezionali, ad esempio in caso di picchi di volatilità estremi che potrebbero portare a condizioni di trading disordinate. Tali strumenti permetterebbero al meccanismo di formazione dei prezzi di riprendere in modo ordinato e, auspicabilmente, di far diminuire la volatilità sui mercati. L’ESMA non esclude che possano essere necessari ulteriori interventi regolatori al fine di chiarire il meccanismo di funzionamento degli interruttori di circuito, ridurre la discrezionalità delle sedi di negoziazione ed eventualmente introdurre nuovi strumenti per aumentare la trasparenza dei mercati.
Per quanto riguarda il funzionamento dei margini, a parere dell’ESMA l’incremento dei medesimi ha determinato delle maggiori difficoltà soprattutto a carico delle controparti non finanziarie del mercato, legate alla minore liquidità, comportando una ridotta attività di copertura e quindi, una loro maggiore esposizione al rischio. Quanto detto non costituisce tuttavia una critica all’utilità del meccanismo dei margini, funzionale alla resilienza delle Controparti Centrali (ovvero alle persone giuridiche che si interpongono tra le controparti di contratti negoziati su uno o più mercati finanziari agendo come acquirente nei confronti di ciascun venditore e come venditore nei confronti di ciascun acquirente). Per quanto attiene invece le garanzie (il c.d. collateral), l’ESMA ritiene opportuno prevedere dei meccanismi specifici per i mercati energetici in considerazione dei recenti sviluppi degli stessi. Sulle soglie di compensazione (di cui al Regolamento UE 2019/834) l’Autorità continua a ritenere validi i suggerimenti già formulati, incrementando la soglia da 1 miliardo a 4 miliardi.
Andando alle nuove misure, l’ESMA ritiene sia necessario introdurre dei meccanismi ulteriori di vigilanza per incrementare la trasparenza e una corretta valutazione del rischio. In particolare, per fornire alle autorità nazionali una migliore visibilità sui prodotti energetici, l’ESMA suggerisce di:
– incrementare la reportistica sulle transazioni OTC (“over the counter”), eliminando, fra l’altro, l’esenzione contenuta nell’EMIR relativa a operazioni concluse fra due società appartenenti allo stesso gruppo non finanziario e
– introdurre degli obblighi minimi di reportistica anche sui prodotti energetici all’ingrosso (non qualificabili come strumenti finanziari ai sensi della MiFID), i quali vengono liquidati mediante consegna fisica e non sono coperti dagli obblighi di trasparenza e rendicontazione né ai sensi della MiFID II né ai sensi dell’EMIR; nonché
– regolamentare e vigilare sui traders attivi nel mercato dei derivati su merci e che si comportano come società di investimento, al fine di far sì che i maggiori soggetti siano sottoposti ad autorizzazione e vigilati quali società di investimento. E’ opportuno rilevare che quest’ultimo suggerimento sia particolarmente dirompente, in ragione del fatto che mirerebbe ad assoggettare i traders ai rigorosi requisiti stabiliti dalla regolamentazione finanziaria per le imprese di investimento mentre ad oggi gli stessi possono negoziare e fornire servizi di investimento in derivati su merci senza essere autorizzati come imprese di investimento (in virtù dell’”esenzione per attività accessorie” contemplata da MiFID II e basata sul principio che, finché l’attività di negoziazione di un’entità non finanziaria rimane accessoria all’attività commerciale principale, non è soggetta agli stessi requisiti richiesti ad un’impresa di investimento).
s.dellatti@macchi-gangemi.com
g.pappacena@macchi-gangemi.com
NUOVA PRONUNCIA DELLA CASSAZIONE SU INTERPRETAZIONE ED AMBITO DI APPLICAZIONE DELLE CLAUSOLE ARBITRALI.
Con ordinanza n. 31350/22, depositata il 24 ottobre 2022, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in merito all’interpretazione ed estensione delle clausole arbitrali inserite in contratti.
Nella fattispecie sottoposta al vaglio della Corte:
– la formulazione letterale della clausola era la seguente: “Qualunque controversia dovesse insorgere in ordine al presente contratto, sia per ciò che attiene alla sua interpretazione, ovvero di singole clausole, sia relativamente all’esecuzione dello stesso, dovrà essere decisa da un collegio arbitrale”;
mentre
– la domanda proposta in sede arbitrale era di risarcimento dei danni richiesti in via extra-contrattuale, seppur collegati all’esecuzione del contratto in cui la clausola arbitrale era inserita.
Il lodo arbitrale (pronunciato a novembre 2013 e recante pronuncia di condanna al risarcimento dei danni) veniva impugnato dalla società soccombente dinanzi alla Corte d’Appello per vari motivi tra cui, principalmente, per l’incompetenza degli arbitri (che avevano pronunciato al di fuori dei limiti della clausola compromissoria).
La Corte d’Appello riteneva, tuttavia, che anche le questioni in tema di inadempimento, risoluzione e risarcimento dei danni fossero riconducibili alla clausola compromissoria e, dunque, respingeva l’impugnazione.
A distanza di quasi dieci anni dalla pronuncia del lodo, la Cassazione ha dato ragione al ricorrente, escludendo la competenza degli arbitri a pronunciarsi sulla domanda.
I giudici hanno, infatti, ritenuto che la clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale solo le controversie aventi “causa petendi” nel contratto medesimo.
Dal momento che l’azione proposta in sede arbitrale era, invece, di natura aquiliana (e, dunque, trovava nel contratto esclusivamente un presupposto storico, ma non il suo fondamento) la Corte ha ritenuto insussistente la competenza degli arbitri.
A sostegno della propria pronuncia la Corte di Cassazione ha poi richiamato:
– Cass. 23088/2007, secondo cui la clausola che demanda agli arbitri la cognizione di controversie attinenti alla interpretazione ed esecuzione del contratto non è applicabile alla domanda di risarcimento dei danni. Comunque, a fronte di più domande connesse, di cui solo alcune rientrino nella competenza arbitrale, questa viene assorbita ed esclusa da quella ordinaria;
e
– Cass. 3795/2019, secondo cui in mancanza di espressa volontà contraria, la clausola compromissoria deve essere interpretata nel senso di attribuire alla competenza arbitrale tutte le controversie che hanno la loro “causa petendi” nel contratto in cui detta clausola è inserita.
La redazione della clausola compromissoria assume, dunque, decisivo rilievo, al fine di stabilire la competenza degli arbitri.
Ciò è stato messo recentemente in risalto anche dalla Sezione Imprese del Tribunale di Milano che, con sentenza dell’8 gennaio 2020, ha invece ritenuto compresa nella competenza arbitrale anche una controversia avente natura extra-contrattuale proprio in virtù del tenore letterale della clausola compromissoria inserita nel contratto (ossia, “qualunque controversia, disputa o disaccordo sarà risolta mediante arbitrato sito in Milano secondo le regole stabilite dalla Camera Arbitrale di Milano, delle quali le parti riconoscono di essere a conoscenza. Il collegio sarà composto da tre arbitri nominati dalla Camera arbitrale.”)
Pertanto, “Rem tene, verba sequentur” (“concentrati sul concetto, le parole seguiranno”, cit. Catone).
LA NUOVA PROPOSTA DI RIFORMA DELLA DISCIPLINA IN MATERIA DI TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI E DELLA PRIVACY IN REGNO UNITO.
Il 18 luglio 2022 è stato presentato alla Camera dei Comuni inglese il Data Protection and Digital Information Bill (Bill 143 2022-23). Se approvato, questo nuovo disegno di legge andrebbe a modificare, ammorbidendo gli oneri per gli operatori, la disciplina sul trattamento dei dati personali e sulla privacy attualmente vigente nel Regno Unito.
La seconda lettura del disegno di legge, che era prevista per il 5 settembre 2022 è stata rinviata a causa del repentino cambio alla guida del governo britannico che ha visto Liz Truss prendere il posto di Boris Johnson; nelle more Rishi Sunak ha sostituito Liz Truss al governo. Con una nota ufficiale il nuovo esecutivo comunicava che il rinvio era essenzialmente dovuto alla decisione di garantire alla nuova squadra di ministri la possibilità di analizzare più a fondo la questione ed il disegno di legge stesso. Il risultato è che ad oggi resta chiara l’intenzione del Regno Unito di modificare il regime sulla gestione del flusso dei dati ereditato dall’Unione Europea (GDPR), ma non è ancora definita la forma che tale iniziativa assumerà in concreto. L’azione riformatrice non ha l’obbiettivo di fare tabula rasa della disciplina europea ma intende spingere quest’ultima verso una liberalizzazione e semplificazione normativa che però assicuri comunque degli elevati standard di protezione e sicurezza.
Il progetto, come si evince, è molto ambizioso e ad oggi è difficile prevederne la riuscita poiché il disegno di legge si trova ancora in una fase preliminare, considerando che è stato sottoposto solo alla prima lettura alla Camera dei Comuni. Nonostante ciò, gli obbiettivi che il governo inglese vuole raggiungere sono stati apertamente dichiarati nell’Impact Assessment condotto dal Departement for digital, culture, media and sport (DDCMS) pubblicato il 6 luglio 2022. Nello specifico le proposte contenute nel disegno di legge mirano a creare un regime di protezione dei dati che:
1) Sostenga e promuova concorrenza e innovazione in modo da favorire la crescita economica;
2) Mantenga elevati standard di protezione dei dati senza creare inutili ostacoli;
3) Mantenga il passo con la rapida innovazione delle tecnologie ad alta intensità di dati;
4) Aiuti le aziende nell’utilizzo dei dati in modo responsabile, senza incertezze o rischi, sia nel Regno Unito che a livello internazionale;
5) Renda più facile la condivisione di dati vitali da parte degli enti pubblici, migliorando l’erogazione dei servizi pubblici.
Nel concreto, il disegno di legge, al fine di realizzare gli obiettivi appena enunciati propone le seguenti novità di rilievo:
1) Un nuovo regime sulla revisione delle richieste di accesso ai dati, le cosiddette“DSARs” (Le DSARs sono richieste effettuate da singoli individui per sapere quali dei propri dati personali sono stati raccolti da una determinata organizzazione). Nello specifico, l’obiettivo é quello di consentire alle organizzazioni di rifiutare le richieste DSAR “vessatorie o eccessive” o di addebitare un costo per la risposta. Ciò si discosterebbe dall’attuale disciplina GDPR dell’Unione Europea che prevede l’obbligo da parte delle organizzazioni di rispondere a tutte le richieste, ad eccezione di quelle “manifestamente infondate”.
2) Un nuovo regime di responsabilità. Nello specifico il disegno di legge propone la sostituzione dei “Data Protection Officers” con i “Senior Responsible Individuals” (ISRs). Questi ultimi devono essere membri della direzione dell’organizzazione. L’ISR dovrà effettuare valutazioni sulla sicurezza dei trattamenti di dati basati sul rischio che il singolo trattamento comporta, consentendo un programma di gestione della privacy più flessibile e adattabile alle specificità delle attività svolte dalle organizzazioni, nonché alla natura stessa dei dati trattati. Inoltre, le organizzazioni estere soggette alle disposizioni extraterritoriali del nuovo disegno di legge non dovrebbero più avere bisogno di rappresentanti nel Regno Unito.
3) Un nuovo regime sulla regolamentazione dei cookies. I requisiti di consenso per i cookies verrebbero ammorbiditi in determinate circostanze, diminuendo al minimo le richieste di consenso “pop-up” che compaiono quotidianamente agli utilizzatori di internet;
4) Una nuova definizione di dati personali. Il disegno di legge propone una nuova sezione che limiterebbe la definizione di dati personali alle circostanze caratterizzanti i singoli trasferimenti di dati. Nello specifico si parlerebbe di dati personali nei seguenti casi:
(a) Il responsabile del trattamento è in grado di ricollegare e quindi identificare una persona tramite il trattamento stesso delle informazioni durante il procedimento;
(b) Il responsabile del trattamento sa o dovrebbe sapere che il soggetto terzo che otterrà le informazioni in seguito al trasferimento potrebbe essere in grado di identificare la persona alla quale i dati appartengono.
È dunque chiaro che, la modifica proposta limiterebbe la valutazione dell’identificabilità al responsabile del trattamento e ai soggetti terzi che ricevono i dati in seguito al trasferimento, e non a “chiunque nel mondo”, come invece previsto dall’attuale disciplina GDPR. Si tratta di un punto spesso dibattuto, anche se la modifica proposta dal disegno di legge sembrerebbe solamente normare la posizione che la CJEU ha già adottato in Patrick Breyer v. Bundesrepublik Deutschland nel 2016;
5) Una nuova disciplina per i trasferimenti internazionali di dati. Il DDCMS avrà molta più libertà di scelta nel determinare se una giurisdizione estera offre un livello di protezione comparabile a quello garantito dalla disciplina inglese del trattamento dei dati. In caso affermativo, il Regno Unito sarà libero di instaurare regimi di libero scambio con le nuove giurisdizioni tramite l’emanazione di “adequacy decisions”.
È proprio quest’ultimo punto a destare le maggiori preoccupazioni. Dopo la Brexit, infatti, l’Unione Europea ha adottato nei confronti del Regno Unito una “adequacy decision” con la quale è stato mantenuto il libero scambio dei dati.
Il fatto che il Regno Unito possa in un vicino futuro, nel tentativo di liberalizzazione della disciplina della protezione dei dati, riconoscere come adeguate, giurisdizioni che l’Unione Europea non ritiene tali, potrebbe spingere quest’ultima e revocare l’”adequacy decision” sopra citata. Se ciò avvenisse l’impatto dell’interruzione del libero scambio di dati con l’Unione Europea costerebbe al Regno Unito, secondo una stima, tra i 210 e i 410 milioni di sterline di mancati ricavi dalle esportazioni di dati. Tali perdite andrebbero a surclassare i guadagni che porterebbe la riforma e, che sono stati stimati e pubblicati dal governo inglese nell’Impact Assessment del DDCMS, che si aggirerebbero tra gli 80 e i 160 milioni di sterline all’anno.
Del pari, potrebbe anche accadere che la riforma in corso di approvazione da parte del Regno Unito porti ad una semplificazione degli adempimenti per gli operatori e che, ove ciò mantenga un buon livello di tutela per i dati personali, l’Unione Europea possa trarre qualche spunto nei prossimi aggiornamenti della normativa.
Al momento non resta che aspettare le prime mosse a riguardo del governo guidato da Rishi Sunak.
s.macchi@macchi-gangemi.com
p.marangoni@macchi-gangemi.com
IL “REGIME DEGLI IMPATRIATI” È APPLICABILE AL CEO DI UNA HOLDING ESTERA CHE RIENTRA IN ITALIA PER ASSUMERE LA CARICA DI AMMINISTRATORE DI UNA SOCIETÀ ITALIANA DELLO STESSO GRUPPO.
Con la risposta a interpello n. 524 del 25 ottobre 2022, l’Agenzia delle Entrate ha confermato l’applicazione del c.d. “regime degli impatriati” introdotto dall’articolo 16 del d.lgs. n. 147 del 14 settembre 2015, in capo ad un amministratore delegato di una holding inglese che intende trasferire la propria residenza fiscale in Italia per (a) assumere la carica di amministratore di una società italiana dello stesso gruppo, e (b) sviluppare il business della medesima società nel territorio italiano.
L’articolo 16 del d.lgs. n. 147/2015 prevede al comma 1 che il regime degli impatriati (che comporta una detassazione del reddito imponibile nella misura del 70%, salvo eccezioni) spetta ai lavoratori che trasferiscono la residenza nel territorio dello Stato che soddisfano le seguenti condizioni:
– non devono essere stati residenti in Italia nei due periodi d’imposta precedenti il predetto trasferimento; e
– tali soggetti si impegnano a risiedere in Italia per almeno due anni; e
– l’attività lavorativa deve essere prestata prevalentemente nel territorio italiano.
L’agevolazione in esame è fruibile dai contribuenti per un quinquennio a decorrere dal periodo d’imposta in cui trasferiscono la residenza fiscale in Italia, ai sensi dell’articolo 2 del TUIR, e per i quattro periodi d’imposta successivi, salvo eventuale proroga per ulteriori cinque anni.
I chiarimenti ufficiali circa i requisiti soggettivi e oggettivi necessari per accedere all’agevolazione sono stati forniti con la Circolare n. 33/E del 28 dicembre 2020, ove, tra l’altro, è stato evidenziato che il regime degli impatriati non richiede che l’attività sia svolta per un’impresa operante sul territorio dello Stato. Inoltre, con la Risoluzione n. 72/E del 26 settembre 2018, richiamata nella risposta dell’Agenzia, è stato precisato che: “l’autonomia dei rapporti contrattuali nell’ambito di un gruppo societario con diverse società ubicate ed operanti in Stati differenti non esclude, al verificarsi di tutti gli altri requisiti richiesti dalla norma in esame, la possibilità di accedere al regime speciale per lavoratori impatriati, a nulla rilevando la circostanza che l’attività lavorativa sia stata prestata con società appartenenti allo stesso gruppo”.
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Nell’interpello, l’istante riteneva di soddisfare le condizioni richieste per essere ammesso a beneficiare del suddetto regime – a decorrere dal periodo d’imposta 2023 (ovvero, dal periodo d’imposta di trasferimento della residenza ai fini fiscali in Italia) – nonostante:
– il mantenimento della carica amministrativa con la società inglese; e
– l’aver già ricoperto in precedenza l’incarico di amministratore per la società italiana, in via ancillare al ruolo di CEO per la società inglese.
L’Agenzia delle Entrate ha aderito l’interpretazione prospettata dall’istante. In conclusione, ha ritenuto applicabile il regime degli impatriati nel caso di specie non essendo ostativo per il lavoratore (a) il ruolo di CEO con la società inglese, e (b) il precedente incarico di amministratore ricoperto con la società italiana prima del trasferimento in Italia.
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