VIOLAZIONE DEL PATTO PARASOCIALE: UN RIMEDIO ALTERNATIVO.
Il Tribunale di Milano si è espresso in senso favorevole alla possibilità, per i paciscenti, di ottenere in via cautelare una pronuncia che inibisca al parasocio condotte in contrasto con l’assetto negoziale contenuto del patto parasociale stipulato con gli altri soci, prevenendone così il probabile inadempimento.
Con ordinanza del 9 ottobre 2022, il Tribunale di Milano ha accolto un ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. presentato da un parasocio, ammettendo così il rimedio inibitorio in materia di patti parasociali: il provvedimento, pur non recentissimo, é particolarmente interessante poiché, partendo dalla disciplina dei patti parasociali, esso affronta il rilevante tema – collegato all’efficacia dei patti – riguardante le possibili tutela che la giurisprudenza riconosce ai paciscenti nel caso di inadempimento di tali accordi.
La vertenza in relazione alla quale si è pronunciato il Tribunale di Milano ha come protagonisti i soci Tizio e Caio di una società per azioni, i quali avevano a suo tempo concluso un patto parasociale avente ad oggetto l’esercizio del diritto di voto in relazione alla composizione dell’organo amministrativo della società. Nonostante le previsioni del patto, in vista dell’assemblea dei soci di rinnovo dell’organo amministrativo, Caio aveva manifestato apertamente l’intenzione di non dar seguito agli impegni assunti, promuovendo altresì un procedimento di merito volto a far dichiarare la risoluzione del patto parasociale per presunti inadempimenti della controparte. Nel procedimento si era costituito Tizio, il quale si era opposto alla domanda attorea, aveva chiesto in via riconvenzionale l’esatto adempimento del patto e aveva agito in via cautelare chiedendo al Tribunale di inibire Caio dal porre in essere condotte qualificabili come inadempimento degli accordi tra i parasoci. Al termine del procedimento cautelare, il Tribunale di Milano – ritenuti sussistenti i presupposti per la concessione della tutela cautelare – ha accolto la domanda del ricorrente Tizio, inibendo al parasocio di porre in essere condotte in contrasto con l’assetto negoziale contenuto del patto parasociale.
Per comprendere le ragioni che hanno portato il Tribunale ad accogliere il ricorso cautelare, occorre soffermarsi brevemente sulla nozione di patto parasociale. L’accordo concluso tra le parti, infatti, aveva ad oggetto l’esercizio del diritto di voto, diritto disponibile del quale i soci possono liberamente disporre pattuendo, ad esempio, modalità di esercizio e contenuto. Un accordo simile, come noto, ove concluso al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo societario, è espressamente definito dal codice civile patto parasociale: l’art. 2341-bis c.c. prevede infatti che siano qualificabili come tali – e siano quindi assoggetti alla relativa disciplina –quegli accordi che “hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni e nelle società che le controllano”. Una siffatta pattuizione è quindi pienamente legittima, in quanto si ritiene che ciò non contrasti né con la libera espressione del diritto di voto del socio in assemblea, né con i principi del diritto societario che attribuiscono a tale organo il potere/dovere di assumere determinate decisioni relative alla vita della società (prima fra tutte la nomina dell’organo amministrativo) e ciò in quanto tale patto, come si vedrà nel seguito, non limita in alcun modo l’organizzazione societaria.
I patti parasociali sono oggi esplicitamente riconosciuti dall’ordinamento italiano, il quale tuttavia detta una disciplina molto scarna, limitandosi a specificare che: (a) la durata dei medesimi non possa essere superiore ai cinque anni (salvo il diritto di recesso nel caso in cui il patto non indichi la durata) e (b) limitatamente alle società che fanno ricorso al mercato dei capitali, i suddetti patti devono essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea dei soci, pena il divieto per i parasoci di esercitare il diritto di voto. Ulteriori previsioni, poi, sono specificatamente previste per le società quotate, rispetto alle quali gli artt. 122 ss TUF prevedono una disciplina più stringente per quanto attiene alla pubblicità e alla durata (ridotta a tre anni).
La più rilevante peculiarità dei patti parasociali è rappresentata dalla loro efficacia nel contesto societario, per la quale essi sono diversi dagli accordi ‘sociali’ (l’atto costitutivo e lo statuto): mentre questi ultimi, per espressa previsione normativa, vincolano tutti i soci (presenti e futuri) ed i loro effetti possono riguardare anche i terzi (c.d. efficacia reale), i patti parasociali – sulla scorta del principio generale di relatività degli effetti del contratto ex art. 1372 c.c. – producono effetti solamente tra i paciscenti (e quindi, potenzialmente, nemmeno tra tutti i soci attuali), essendo escluso qualsivoglia effetto nei confronti dei soci futuri, della società nonché dei terzi (c.d. efficacia obbligatoria).
Nonostante ciò, con il passare del tempo si è registrata una tendenza a riconoscere una più pregnante efficacia a tali pattuizioni: si pensi alla possibilità di stipulare patti parasociali in favore della società ex art. 1411 c.c., o di prevedere statutariamente che la circolazione delle partecipazioni sociali sia subordinata all’adesione dell’acquirente al patto parasociale di cui sia parte il venditore.
Al di là dei particolari casi da ultimo citati, la circostanza che i patti parasociali abbiano efficacia obbligatoria ha una diretta ripercussione sul piano dei rimedi esperibili in caso di violazione. Per quanto attiene in particolare al sindacato di voto, conseguenza immediata dell’efficacia obbligatoria del patto è che le delibere assunte in violazione delle previsioni parasociali non potranno essere impugnate in quanto, non avendo il patto parasociale efficacia nei confronti della società, la delibera risulterà essere priva di vizi, diversamente da quanto accade allorquando vengano violate le previsioni dello statuto. Ecco che allora l’unico rimedio generalmente riconosciuto in questi casi è il risarcimento del danno nei confronti del paciscente che abbia violato gli accordi conclusi. Come si può ben comprendere, tuttavia, tale rimedio non sempre è in grado di assicurare un effettivo ristoro per colui che subisca la violazione degli accordi, motivo per il quale sovente nella prassi si tendono ad inserire, all’interno del patto parasociale, clausole penali di ingente importo così da dissuadere la controparte dal violare le previsioni in esso contenute.
In un’ottica di prevenzione dell’inadempimento, un rimedio alternativo che è stato prospettato è quello della tutela cautelare ex art. 700 c.p.c. sottoforma di inibitoria del comportamento in violazione del patto parasociale. Si tratta di una soluzione innovativa e in parte controversa e criticabile se si considera che il patto ha un’efficacia solo obbligatoria (e non reale) e se si tiene conto dell’ineseguibilità coattiva degli obblighi di fare infungibili (aspetto che riguarda anche l’esercizio del diritto di voto da parte di un paciscente).
Ciò nonostante, con l’ordinanza in commento, il Tribunale di Milano ha ritenuto superabili le possibili critiche alla possibilità di concedere un’inibitoria cautelare: partendo dall’assunto per cui l’azione cautelare era, nella fattispecie, strumentale all’azione di esatto adempimento proposta dal ricorrente nel procedimento di merito e concluso che (i) l’inibizione non assurgeva a tutela di carattere reale (tale da modificare l’efficacia obbligatoria del patto parasociale) poiché il provvedimento sarebbe rimasto vincolante per i soli parasoci, e (ii) che tale possibilità è stata confermata, con riferimento a varie fattispecie, dalla Cassazione che ha riconosciuto la possibilità di emettere sentenze di condanna aventi ad oggetto obblighi di fare infungibili.
Sotto un ulteriore profilo, va ricordato che la tutela d’urgenza può essere riconosciuta solo se sussistono i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora. Nel caso di specie, il Tribunale di Milano ha ravvisato il presupposto del fumus nel fatto che l’assemblea dei soci fosse già stata convocata e avesse ad oggetto proprio il rinnovo delle cariche dell’organo amministrativo (prevedendone inoltre la riduzione del numero dei componenti, in violazione del patto parasociale), mentre il periculum è stato ritenuto sussistere in considerazione della manifestata volontà del paciscente di non voler dar seguito alle previsioni del patto, rendendo quindi ammissibile l’inibizione cautelare d’urgenza al parasocio dal porre in essere comportamenti configuranti inadempimento del patto parasociale.
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WHISTLEBLOWING: LE PRINCIPALI NOVITÀ PER LE AZIENDE DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DEL D. LGS. N. 24 DEL 10 MARZO 2023.
Il decreto legislativo n. 24 del 10 marzo 2023, attuativo della Direttiva 2019/1937 ha ampliato l’ambito di applicazione della disciplina in materia di “whistleblowing”, prevedendo quattro principali novità: l’estensione dell’obbligo a tutti i soggetti privati con almeno 50 lavoratori subordinati anche se non dotati di modello organizzativo, l’introduzione di un nuovo canale esterno di segnalazione, la possibilità di effettuare divulgazioni pubbliche, oltre a maggiori garanzie per i segnalanti.
Il D. Lgs. 10 marzo 2023, n. 24, in attuazione alla “Direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio, riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione e recante disposizioni riguardanti la protezione delle persone che segnalano violazioni delle disposizioni normative nazionali” è stato pubblicato in G.U. il 15 marzo 2023 ed entrerà in vigore il prossimo 15 luglio 2023.
Fino ad oggi la materia trovava la propria disciplina nella Legge 179/2017 “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”, la quale aveva esteso l’obbligo di dotarsi di canali di segnalazione anche alle aziende del settore privato dotate di modello organizzativo, ai sensi del D. Lgs. 231/2001.
La nuova normativa, nello specifico, ai commi 1 e 2 dell’articolo 3, individua differenti regimi normativi applicabili alle diverse categorie di soggetti tenuti ad applicarla:
(i) per i soli soggetti del settore pubblico, le garanzie di tutela riguardano sia le segnalazioni interne che esterne, ossia tutte quelle relative a violazioni elencate nell’articolo 2, comma 1, lett. a), quali i “comportamenti, atti od omissioni che ledono l’interesse pubblico o l’integrità dell’amministrazione pubblica”;
(ii) per quanto attiene al settore privato, l’articolo 3, comma 2, lett. a), trova applicazione con riferimento ai soggetti operanti in Italia che:
– nell’ultimo anno, abbiano impiegato in media almeno 50 lavoratori subordinati con contratti di lavoro a tempo indeterminato o determinato, indipendentemente dal fatto che abbiano optato per l’adozione di un modello organizzativo ai sensi del D. Lgs. 231/2001;
– rientrino nell’ambito di applicazione del D. Lgs. 231/2001 e adottino i modelli di organizzazione ivi previsti;
– a prescindere dal numero di dipendenti impiegati, rientrino nell’ambito di applicazione degli atti/previsioni dell’Unione Europea, in materia di servizi, prodotti e mercati finanziari, prevenzione del riciclaggio e finanziamento del terrorismo, sicurezza dei trasporti e tutela dell’ambiente, quali indicati nell’ “Allegato” al decreto legislativo, ossia quelle norme che prevedono una protezione dei consumatori e degli investitori nei mercati dei servizi finanziari e dei capitali dell’Unione (Allegato I della Direttiva 2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013).
Gli enti rientranti nelle categorie sopramenzionate dovranno adeguarsi a tali disposizioni entro il 15 luglio 2023 se enti pubblici o enti privati con 250 o più dipendenti, ovvero entro il 17 dicembre 2023 se enti privati con 50 o più dipendenti, prevedendo:
– l’istituzione di canali interni per consentire segnalazioni in forma scritta, anche attraverso modalità telematiche o in forma orale e la loro relativa gestione da personale qualificato, ovvero da soggetti esterni qualificati (artt. 4 e 5);
– l’istituzione di canali esterni e di specifiche procedure per poter effettuare divulgazioni pubbliche e per consentire segnalazioni sia in forma scritta che orale, all’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) o a soggetto diverso che a quest’ultima dovrà trasmetterla (artt. 6 e 7);
– l’adozione di procedure specifiche relative alla gestione dei sopracitati canali, prevedendo che i potenziali segnalanti ricevano informazioni chiare e precise sulle procedure applicabili, un avviso di ricevimento della segnalazione entro 7 giorni dalla presentazione ed un riscontro sull’esito della medesima entro i successivi 3 mesi;
– l’adozione di misure di protezione idonee a tutelare i soggetti segnalanti.
Inoltre, il decreto individua un ulteriore regime normativo alternativo applicabile agli enti che abbiano adottato il Modello 231 ma non abbiano impiegato in media 50 lavoratori subordinati: i relativi whistleblower avranno la sola possibilità di segnalare violazioni interne, rilevanti ai fini del Modello 231 adottato, ma non avranno a disposizione i nuovi canali esterni e le procedure di divulgazione pubblica.
Per quanto attiene all’ambito di applicazione soggettivo della normativa, ossia ai soggetti segnalanti, nonché alle relative tutele, le nuove disposizioni si applicano a tutti coloro che operano, in qualità di dipendenti, collaboratori, lavoratori subordinati ed autonomi, liberi professionisti, volontari, tirocinanti, azionisti ed altre categorie elencate agli articoli 3 e 4 del decreto legislativo, e che possano trovarsi nella condizione di segnalare violazioni di cui siano venuti a conoscenza nel contesto lavorativo.
L’ANAC potrà applicare sanzioni amministrative fino a 50.000 €, nel caso in cui venga accertato che la ricezione o la gestione della segnalazione sia stata, in qualche modo, ostacolata o nei casi in cui i sopracitati canali di segnalazione non siano stati correttamente istituiti.
Fin qui le disposizioni. Dall’analisi delle medesime, alcuni commentatori hanno inteso ricavare anche ambiti diversi di segnalazione a seconda che la medesima provenga da soggetti del settore pubblico o privato, per questi ultimi arrivando ad escludere la possibilità di segnalare i reati presupposto del D.lgs. 231/2001. La disciplina va senz’altro digerita e sono necessarie alcune riflessioni sulle modalità pratiche di implementazione, anche in considerazione dell’attività svolta dal soggetto.
e.pucci@macchi-gangemi.com
c.gentile@macchi-gangemi.com
CONTRATTO DI COMPRAVENDITA INTERNAZIONALE: LE SEZIONI UNITE, GLI INCOTERMS… E L’IMPORTANZA DI SCRIVERE BENE LE CLAUSOLE.
Uno degli aspetti più delicati nei contratti internazionali (quelli, cioè, in cui le parti sono di Paesi diversi) è individuare quale sia il giudice competente a decidere le controversie che ne possano derivare. Lo conferma un caso recente, nel quale è dovuta intervenire la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, per stabilire se la giurisdizione (o meglio la competenza internazionale) spettasse ai giudici italiani o a quelli francesi (Cass. SU 2.05.2023 n. 11346).
Come noto, il Regolamento UE n. 1215/2012 prevede diversi criteri di riferimento per l’individuazione del foro competente:
– il principio generale, dettato dall’art. 4, stabilisce che è competente il Giudice del Paese in cui il convenuto ha il proprio domicilio (e, per le società, la sede legale);
– il principio speciale, in materia contrattuale, dettato invece dall’art. 7, n. 1, ai sensi del quale un soggetto può essere convenuto anche dinanzi al giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio;
– nel riferimento alla compravendita, la lettera b) del medesimo articolo 7 ove si specifica che il luogo di esecuzione è “il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto”.
La vicenda in esame trae origine da un contratto di compravendita di acqua minerale tra una società venditrice italiana ed una società acquirente francese. Le parti avevano previsto, per quanto qui rileva, la clausola degli Incoterms (International Commercial Terms, termini contrattuali codificati dalla Camera di Commercio Internazionale) denominata “ex works”, ovverosia la consegna della merce presso i locali della venditrice. Effetto tipico di tale clausola è il passaggio del rischio (di perimento, di trasporto, etc.) nel momento in cui la merce viene messa a disposizione della controparte presso i locali della venditrice.
Nel corso dell’esecuzione del rapporto sono sorte delle contestazioni e l’acquirente ha interrotto i pagamenti. La venditrice ha quindi richiesto ed ottenuto dal Tribunale di Brescia un decreto ingiuntivo.
La società acquirente ha proposto opposizione, sollevando in via pregiudiziale la carenza di giurisdizione del Tribunale di Brescia a favore del Tribunale di Versailles. Il Tribunale di Brescia ha accolto l’opposizione, ritenendo che la giurisdizione spettasse ai Giudici francesi in quanto (i) la società convenuta aveva sede in Francia e (ii) la clausola “ex works” rilevava esclusivamente ai fini del passaggio del rischio e non era, pertanto, sufficiente a radicare la giurisdizione del Giudice italiano ai sensi dell’art. 7, n. 1 lett. b) Reg. (UE) n. 1215/2012. La Corte di Appello ha confermato la decisione di primo grado.
La società venditrice ha quindi impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di Cassazione, e la Prima Sezione ha rimesso il giudizio dinanzi alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto di orientamenti sul punto in questione.
Ebbene, le Sezioni Unite, richiamando i principi statuiti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza “Electrosteel” del 9 giugno 2011, resa nella Causa C-87/10 e sentenza “Granarolo” del 14 luglio 2016 nella Causa C-196/15) ha chiarito che una clausola “ex works”, che preveda, quindi, la consegna della merce presso i locali del venditore, vale non solo ai fini del passaggio del rischio, ma anche a identificare quale sia il luogo, concordato tra le parti, di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 7, n. 1, lett. b) Reg. (UE) n. 1215/2012. Di conseguenza, la giurisdizione spetterà al Giudice di quel luogo.
Nel caso in esame era stabilito che la consegna della merce avvenisse in Italia e, pertanto, la Cassazione ha ritenuto errata la decisione della Corte di Appello ad affermare la giurisdizione del Giudice francese e non di quello italiano.
Tanto chiarito, le Sezioni Unite evidenziano due ulteriori aspetti problematici:
(i) spesso le clausole che richiamano gli Incoterms non sono affatto chiare ed univoche e, pertanto, non è agevole ricollegarle con certezza alla clausola “ex works”;
(ii) ancora più spesso la clausola “ex works” è apposta unilateralmente da una sola delle parti (ad esempio sull’accettazione dell’ordine o sulla fattura) e, pertanto, non si può ritenere con certezza che si sia formato un accordo tra le parti sul punto.
La conclusione che se ne ricava, dunque, è che occorre la massima precisione nella redazione e nella negoziazione di simili clausole.
Sia consentita, infine, un’ultima considerazione. L’art. 25 del medesimo Reg. (UE) n. 1215/2012 prevede la facoltà, per le parti, di stabilire di comune accordo il foro competente a conoscere eventuali controversie nascenti dal contratto (c.d. proroga di giurisdizione). Tale pattuizione prevale su tutti gli altri criteri previsti per la determinazione del Giudice competente. Una clausola di questo tipo chiara, esplicita, ben scritta ed approvata dalle parti avrebbe evitato in radice le complicazioni della vicenda in esame.
GARANTE PRIVACY: AZIENDA SANZIONATA PER MANCATO CONTROLLO DEI PROPRI FORNITORI.
Il Garante all’esito di un procedimento istruttorio ha emesso una sanzione nei confronti di una società per non aver adottato le opportune cautele nella scelta dei proprio subfornitori sotto il punto di vista della compliance privacy.
L’ordinanza di ingiunzione è stata emanata nei confronti di un’azienda attiva nel settore dell’organizzazione di eventi, per violazione della normativa sulla protezione dei dati personali. Il relativo procedimento era originato da un reclamo formulato da una persona fisica che aveva ricevuto una e-mail senza che avesse prestato il proprio consenso.
In particolare, l’azienda a cui era stata commissionata la campagna pubblicitaria dal titolare del trattamento, aveva selezionato un subfornitore con disponibilità di liste di e-mail per l’invio di comunicazioni pubblicitarie. Al ricevimento del reclamo, il Garante ha richiesto chiarimenti all’azienda, che non ha mai riscontrato l’Autorità.
A seguito della mancata risposta, è stata avviata l’istruttoria. L’azienda si è difesa sostenendo l’assenza di qualsiasi ruolo privacy all’interno del rapporto commerciale, esplicitando che si limitava solamente a mettere in contatto il titolare del trattamento dei dati (committente) con il fornitore che inviava le email.
Diversamente, il Garante, a conclusione del procedimento, ha rilevato che l’azienda:
– non aveva dato alcuna spiegazione in merito alla mancata risposta alla richiesta di informazioni;
– non aveva dato alcuna prova di aver raccolto il consenso dei destinatari delle email;
– aveva selezionato autonomamente il fornitore che inviava in concreto le email, a seguito del conferimento di incarico da parte del committente.
Quanto sopra è stato ritenuto sufficiente a negare l’estraneità dell’azienda al trattamento dei dati personali. Infatti, l’azienda – atteso che i dati personali venivano trattati per conto del committente – avrebbe dovuto qualificarsi come responsabile del trattamento e ottenere/verificare il consenso per ciascuno dei destinatari delle e-mail.
In particolare, a carico dell’azienda vi erano una serie di obblighi, specialmente di controllo, quali: la verifica che il fornitore individuato rispettasse i criteri previsti dal GDPR e in generale dell’affidabilità del fornitore dal punto di vista della tutela dei dati personali, mentre Nulla di questo era stato fatto dall’azienda.
In conclusione, quindi, è stata contestata la mancata risposta alle richieste del Garante, l’illegittimità del trattamento dei dati personali per l’invio delle comunicazioni commerciali (operato senza il necessario consenso degli interessati) e soprattutto la violazione degli obblighi di controllo e verifica che ogni soggetto ha sui propri fornitori (che sia un rapporto titolare/responsabile o che sia responsabile/sub responsabile).
Questa pronuncia è molto interessante perché evidenzia un aspetto spesso trascurato dalle aziende nella scelta dei loro fornitori: la compliance privacy.
Nella scelta di un fornitore che nello svolgimento dell’incarico tratti dati personali, il committente deve:
– selezionarlo, valutando la conformità alla normativa privacy e richiedendo anche i documenti interni (come procedure, nomine degli autorizzati, nomine dei subfornitori) se necessario;
– fornire adeguate e complete istruzioni allo stesso sulle modalità di trattamento dei dati personali e in generale sulla loro tutela, secondo le policy interne del titolare;
– svolgere attività di audit periodico, anche solo tramite checklist, dell’operato dei fornitori sia in fase di esecuzione del contratto che dopo la conclusione dello stesso.
In questo modo si può limitare il rischio di incorrere in sanzioni economiche derivanti dall’operato di un fornitore. Il testo dell’ordinanza è consultabile su QUI.
f.montanari@macchi-gangemi.com
l.laterza@macchi-gangemi.com
PRESUNZIONE DI “ESTEROVESTIZIONE”: LA CORTE DI CASSAZIONE CHIARISCE CHE NON RILEVA IL CONTROLLO “MEDIATO”.
Con la sentenza n. 9400 del 5 aprile 2023, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di esterovestizione, chiarendo che, per accertare se una società estera sia o meno soggetta al controllo di una società italiana, la verifica del controllo interno di diritto impone sempre che la maggioranza delle quote della società estera sia detenuta dalla società italiana, senza che rilevino forme di esercizio del controllo c.d. “mediato” tramite terzi.
La controversia ha ad oggetto quattro avvisi di accertamento che erano stati notificati a una società residente in Italia (“ItaCo”) in materia di IRES e IRAP e di omessa effettuazione e versamento di ritenute imputabili a una società regolata dal diritto lussemburghese (“LuxCo”). Tali avvisi di accertamento costituivano l’esito di una verifica portata avanti dall’Agenzia delle Entrate, dalla quale emergeva che LuxCo era, in realtà, un soggetto d’imposta italiano esterovestito.
Seguiva il giudizio di I grado ad esito del quale la posizione dell’Agenzia sopra citata veniva confermata dalla Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Brescia, che aveva respinto il ricorso di ItaCo.
Indi, anche la Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia, respinse il ricorso della società contribuente. I giudici di secondo grado ritennero dimostrata l’esterovestizione nel caso di specie, ritenendo persuasive le conclusioni alle quali era addivenuto il giudice di primo grado in ordine all’omesso versamento di ritenute e alla non deducibilità dei costi.
La ItaCo, di conseguenza, impugnava la sentenza d’appello, denunciandone la violazione dell’art. 73, commi 3 e 5-bis, d.P.R. n. 917 del 1986 (“TUIR”), poiché la sentenza d’appello aveva dato rilievo, per l’individuazione della residenza di LuxCo, a tutte le partecipazioni di controllo, rispetto alle quali l’Ufficio aveva compiuto un mero calcolo matematico, qualificando LuxCo come un soggetto italiano “esterovestito”.
Ebbene, i giudici della Suprema Corte hanno ritenuto fondato il motivo addotto da ItaCo, accogliendo il ricorso e cassando la sentenza di secondo grado.
L’art. 73, co. 5-bis, TUIR, infatti, disciplina una presunzione legale di localizzazione nel territorio dello Stato (c.d. “esterovestizione”), ai fini fiscali, delle sole società aventi sede all’estero che detengono partecipazioni di controllo ai sensi dell’art. 2359, co. 1, c.c., in società di capitali ed enti commerciali residenti.
In tal senso, l’art. 2359, co. 1, c.c. elenca tre fattispecie di controllo: 1) la maggioranza dei voti nell’assemblea ordinaria (controllo interno di diritto); 2) la disponibilità di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (controllo interno di fatto); 3) l’influenza dominante di una società in virtù di vincoli contrattuali. Ai fini dell’applicazione delle prime due fattispecie, il comma 2 evidenzia che si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta, ma non si computano i voti spettanti per conto di terzi.
Ebbene, per una corretta applicazione e interpretazione della disciplina sopra richiamata, il giudice di legittimità ha ritenuto opportuno enunciare il seguente principio di diritto: “In tema di “esterovestizione”, al fine di accertare se una società estera sia soggetta al controllo da parte di una società italiana, la verifica della sussistenza della fattispecie di cui all’art. 2359, comma 1, num. 1, c.c. (cd. controllo interno di diritto) impone di accertare che la maggioranza delle quote della società estera sia concentrata in capo alla sola società italiana, senza che rilevi la possibile titolarità di altre quote da parte dei soci di quest’ultima, a ciò ostando il disposto di cui all’art. 2359, comma 2, c.c., che esclude, al riguardo, il computo di voti spettanti per conto di terzi”.
In altre parole, ai fini dell’esterovestizione, la nozione di controllo per le società controllate richiede che la maggioranza delle quote o l’influenza dominante siano concentrate in capo a una sola società, non rilevando, invece, il controllo c.d. “mediato”, riconducibile alla detenzione di quote da parte di soggetti terzi.
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