CLAUSOLE MAC E MAE.
Le clausole contrattuali denominate “material adverse change” (MAC) e “material adverse effect” (MAE), sono inserite sempre più frequentemente nell’ambito dei contratti del diritto commerciale e societario, in particolare, in quelli aventi ad oggetto le operazioni internazionali di acquisizione di partecipazioni societarie e di M&A.
L’esigenza di adottare le cautele ricollegate alle clausole MAC e MAE nasce a partire dagli attacchi terroristici dell’11.09.2001 ed è collegata all’opportunità manifestata dai contraenti di riconoscersi reciprocamente una tutela da collocarsi in una fase precedente a quella esecutiva e che tenga in debita considerazione determinati eventi calamitosi che potrebbero riverberare i propri funesti effetti e ripercussioni, non solo, nel ristretto luogo del loro accadimento, ma, per effetto delle propagazioni del mondo globalizzato (ora più che mai in discussione) anche in altre parti del pianeta in special modo in ambito economico e finanziario tradizionalmente sensibile a potenziali effetti domino.
MAC e MAE sono state oggetto di analisi ed esame nel corso della recente – e purtroppo non ancora del tutto debellata – pandemia di Covid-19 e ancora più recentemente gli studiosi le hanno esaminate alla luce del conflitto in atto tra Russia-Ucraina. Si tratta di eventi per loro natura differenti ma che hanno in comune l’avere generato un imprevedibile shock a livello geopolitico mondiale con gravissimi contraccolpi in ambito economico e finanziario.
Se gli operatori hanno avuto modo di confrontarsi e di esprimersi in maniera più analitica in relazione al rapporto MAC/MAE-Covid-19, taluni hanno già evidenziato che anche la guerra iniziata da quasi due mesi, e l’incertezza ad essa collegata impatteranno negativamente il settore M&A nell’immediato futuro.
Le clausole MAC e MAE di derivazione anglosassone dei paesi di common law, per effetto del noto fenomeno del legal translplant, sono state da tempo introdotte anche nell’ordinamento italiano nell’ambito del quale possono essere tradotte con l’espressione “clausola di assenza di effetti sfavorevoli”. Nel dettaglio, con l’acronimo MAC si intende “un cambiamento rilevante avverso”, mentre con l’acronimo MAE “un effetto negativo rilevante”.
Tali clausole trovano una concreta applicazione soprattutto in quei negozi caratterizzati da uno iato temporale tra il momento del perfezionamento dell’accordo (signing) e quello dell’esecuzione effettiva delle prestazioni oggetto dello stesso (closing), quali, ad esempio, i casi di acquisto di partecipazioni societarie sottoposti a condizione. Dette clausole possono essere collocate in contratti di project financing, di acquisto di ramo d’azienda ed ai progetti di fusione e scissione societaria. In generale, sebbene esse siano germogliate in ambito societario, non è escluso che possono trovare applicazione anche in altre pattuizioni caratterizzate da quel lasso temporale di cui si andava dicendo.
Come si desume dalla stessa loro denominazione, la finalità del meccanismo negoziale in oggetto è collegata alla necessità di offrire una disciplina positiva nell’ipotesi in cui eventuali effetti sfavorevoli dovessero verificarsi medio tempore tra il momento del raggiungimento dell’accordo ed il successivo closing. Gli effetti sfavorevoli rilevanti da tenere in considerazione sono ricollegabili a quegli eventi che comportano un pregiudizio considerevole all’assetto economico dell’operazione immaginata originariamente e idonei a modificare in modo sostanziale la posizione economica-patrimoniale di una delle parti (clausola MAC), ovvero quelli che generano un mutamento generale del contesto nel quale il contratto avrebbe dovuto trovare applicazione (clausola MAE) e, conseguentemente, condizionano l’assetto dell’operazione sottesa all’operazione.
Vale, a questo punto, la pena tracciare, seppur brevemente, una demarcazione tra MAC e MAE, da una parte, e la clausola c.d. di hardship, dall’altra. Quest’ultima, solitamente prevista nei contratti di durata, infatti, tende a regolamentare i casi in cui si verifichino eventi idonei ad alterare in modo sostanziale l’equilibrio economico del contratto e da rendere la prestazione eccessivamente onerosa. L’alterazione in questione è rilevante se occorre durante l’esecuzione delle prestazioni contrattuali e non in un momento antecedente alla esecuzione stessa come per le clausole MAC e MAE.
Quest’ultime, su di un piano concreto, si configurano come una sorta di “scappatoia” dal contratto, consentendo alla parte interessata di recedere, oppure di invocare una rimodulazione della prestazione originariamente pattuita. Ciò potrebbe avvenire in presenza di eventi del calibro della perdita di un cliente strategico per la società target della quale è prevista l’acquisizione, oppure un factum principis che nuoce irrimediabilmente al business della medesima o, ancora, una riduzione consistente del patrimonio nel periodo intercorrente tra accordo e closing.
Da un punto di vista redazionale, si osserva che, nella prassi, invece di individuare analiticamente gli eventi che potrebbero dar scattare il meccanismo di protezione fornito dalle clausole MAC o MAE, si individuano una serie di eccezioni che escludono l’applicazione delle suddette (carve-outs), rendendone il congegno di tutela valido per tutte le altre ipotesi che non sono state specificamente menzionate.
Nonostante le clausole in esame, come visto, non siano tipiche degli ordinamenti di Civil Law, in ottica comparatistica si può ravvisare una qualche similitudine con gli istituti della impossibilità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1463 c.c. -impossibilità totale- cc e dell’eccessiva onerosità ai sensi dell’art. 1467 c.c. – contratto con prestazioni corrispettive- con la precisazione, che le norme testé richiamate si riferiscono a contratti già in essere e non ad periodo antecedente l’esecuzione degli stessi.
In altri termini, le clausole MAC e MAE offrono una tutela limitata alla “fase embrionale” dell’accordo consentendo il recesso unilaterale al ricorrere di determinate circostanze, mentre gli istituti tipizzati dal legislatore hanno una portata più ampia che contempla anche la fase di esecuzione delle prestazioni. Le clausole in questione possono quindi essere sussunte nell’ambito di una ipotesi di recesso unilaterale e convenzionale ai sensi dell’art. 1373 c.c.: “Se a una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, tale facoltà può essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione”.
Ora, se la diffusione del Covid-19 poteva rilevare ai fini poter avvalersi del dispositivo delle clausole in questione, nella misura in cui:
– un’epidemia non rientrasse nel novero degli eventi esclusi dall’ambito di applicazione delle clausole;
– costituisse un evento tale da ripercuotersi sul contesto generale nel quale il rapporto contrattuale avrebbe dovuto essere eseguito e/o sulla sfera delle parti (ciò potrebbe difficilmente accadere per i contratti stipulati dopo il marzo del 2020 quando la situazione pandemica era conclamata e non più imprevedibile);
– e potesse essere qualificata come “material”, ovvero come un evento rilevante in grado di incidere in maniera significativa sull’operazione economica oggetto del contratto (ciò al contrario non varrebbe per eventi che producano effetti pregiudizievoli ma reversibili nel breve o medio periodo).
Per quanto concerne l’applicazione delle clausole MAC e MAE nell’attuale contesto bellico, il quadro non è ancora del tutto nitido. Pur considerando il conflitto Russo-Ucraino come una circostanza, in tesi, idonea ad alterare l’equilibrio sinallagmatico e far venire meno la ratio, ad esempio, di un’acquisizione di una società target (si pensi ad una società target con stabilimenti produttivi nelle zone del combattimento), si dubita che la tutela offerta dalle clausole in questione possa essere invocata in ogni caso a prescindere da una analisi concreta del caso singolo. Infatti, difficilmente una parte potrebbe beneficiare dei rimedi offerti dalle clausole MAC e MAE, quando gli effetti negativi sulla società target dovessimo derivare da un cambiamento generale delle condizioni economiche legate al mercato di riferimento ovvero da un aumento generalizzato delle materie prime.
Ciò potrebbe valere anche con riferimento alle sanzioni economiche collegate al conflitto con la conseguenza che potersi avvalere del relativo rimedio sarà necessario fornire la prova secondo cui l’evento pregiudizievole è fonte di danno persistente alla redditività della società target, valutabile anche nel lungo periodo.
Si pensi ad esempio ad una società target i cui impianti operativi dislocati all’estero in territorio Ucraino sono stati danneggiati irrimediabilmente dai bombardamenti, oppure ad una azienda manufatturiera del lusso che ha come mercato di riferimento quello Russo e rischia la sopravvivenza per il blocco dell’export determinato dalle sanzioni. Un mero calo dei ricavi, anche se consistente, ma temporaneo non basterebbe invece per invocare l’operatività di una delle due clausole.
In definitiva e per concludere, nonostante i problemi interpretativi da risolvere inevitabilmente attraverso l’indagine del caso concreto, appare, in ogni caso, opportuno inserire nell’ambito dei contratti aventi ad oggetto operazioni societarie (ma non solo) le clausole MAC & MAE soprattutto in un periodo siffatto di grave incertezza dal momento che l’escalation del conflitto ovvero la sua recrudescenza potrebbero avere ulteriori conseguenze negative.
Né, d’altronde, appare del tutto percorribile l’alternativa dell’hardship che non risulta sovrapponibile ed è più adatta a regolare i rapporti di durata di quanto lo sia nelle operazioni societarie potendo semmai ove applicabile ad una rinegoziazione delle condizioni contrattuali ma non alla possibilità di recedere dal contratto.
FIDEIUSSIONE PRESTATA DA IMPRESA NON ISCRITTA NELL’APPOSITO ELENCO: QUALE SORTE AL CONTRATTO?
In una recente Sentenza, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno (parzialmente, con particolare riferimento al caso di specie) risolto il contrasto giurisprudenziale attinente alla sorte dei contratti conclusi dall’impresa esercente attività bancaria in mancanza delle prescritte autorizzazioni. La questione era stata deferita alle Sezioni Unite dalla Prima Sezione con l’ordinanza interlocutoria n. 24016 del 2021.
La vicenda trae origine dalla richiesta di insinuazione al passivo avanzata da una società in virtù di un credito assistito da fideiussione prestata dalla società in fallimento, nel caso di specie un “confidi minore”. L’insinuazione al passivo era stata negata dal giudice delegato sulla scorta della nullità della fideiussione perché prestata da soggetto non legittimato, un confidi minore, nei confronti di una società ad esso associata ed a garanzia di un contratto non bancario.
Dopo che il giudice delegato aveva rifiutato l’insinuazione al passivo ed il Tribunale di Roma l’aveva invece successivamente accolta, veniva proposto ricorso per Cassazione e la questione viene deferita alle Sezioni Unite.
L’ordinanza interlocutoria con la quale la Prima Sezione ha deferito la questione alle Sezioni Unite chiarisce la disciplina di riferimento e la distinzione tra “confidi minori” e “confidi maggiori”. Dove i confidi minori, iscritti nell’elenco di cui all’art. 155, comma 4 TUB, svolgono in via esclusiva attività di garanzia collettiva dei fidi e servizi strumentali volti a favorire il finanziamento delle altre consociate del gruppo da parte delle banche mentre i confidi maggiori, tenuti invece all’iscrizione nell’elenco di cui all’articolo 107 TUB, svolgono in via prevalente attività di garanzia collettiva dei fidi ed in via residuale tutte le attività riservate agli intermediari finanziari iscritti nello stesso elenco. Secondo la Prima Sezione, la fideiussione prestata dal confidi minore nei confronti della società sua associata sarebbe nulla perché i confidi minori potrebbero prestare fideiussioni in favore dei propri assistiti soltanto con riferimento a contratti bancari e conclusi con le banche, mentre soltanto i confidi maggiori, iscritti nell’albo di cui all’articolo 107 TUB, sarebbero autorizzati a prestare fideiussioni di qualunque tipo.
La questione rimessa alle Sezioni Unite attiene, dunque, alla validità o nullità della fideiussione prestata ad una propria associata da un confidi minore iscritto nell’apposito elenco di cui all’articolo 155, comma 4 TUB atteso che la norma prevede che, in mancanza dell’iscrizione all’elenco di cui all’art. 107 TUB, tali operatori possono esclusivamente svolgere attività di garanzia collettiva di fidi e servizi strumentali aventi ad oggetto la prestazione di garanzie volte al finanziamento da parte della banche di e che il quadro normativo non contempla una nullità testuale per le altre attività eventualmente poste in essere da detti soggetti.
Secondo le Sezioni Unite, non sussiste la nullità della fideiussione prestata dal confidi minore. L’interpretazione della Suprema Corte si basa sul fatto che l’eventuale divieto alla prestazione della fideiussione da parte dei confidi minori non deriverebbe da un’ipotesi di nullità testuale ma deriverebbe soltanto in via indiretta dalla disciplina. Secondo le Sezioni Unite, dalle norme che stabiliscono che i confidi minori svolgono esclusivamente l’attività di garanzia collettiva dei fidi, al fine di favorire l’accesso al credito bancario delle piccole e medie imprese associate non può desumersi un divieto assoluto di svolgere attività diverse. Ciò porterebbe alla conclusione che chiunque potrebbe prestare fideiussioni ad eccezione dei confidi minori con le proprie associate.
Secondo la Corte, la nullità negoziale ex art. 1418 c.c. deve discendere dalla violazione di norme aventi contenuti sufficientemente specifici, precisi ed individuati in mancanza dei quali non è possibile comminare la sanzione della nullità negoziale.
Gli ermellini hanno risolto la questione enunciando il seguente principio di diritto:” La fideiussione prestata da un cd. confidi minore, iscritto nell’elenco di cui all’art. 155, comma 4 T.u.b., nell’interesse di un proprio associato a garanzia di un credito derivante da un contratto non bancario, non è nulla per violazione di norma imperativa, non essendo la nullità prevista in modo testuale, né ricavabile indirettamente dalla previsione secondo la quale detti soggetti svolgono “esclusivamente” la “attività di garanzia collettiva dei fidi e i servizi a essa connessi o strumentali” per favorire il finanziamento da parte delle banche e degli altri soggetti operanti nel settore finanziario. Il rilascio di fideiussioni è attività non riservata a soggetti autorizzati (come gli intermediari finanziari ex art. 107 T.u.b.), né preclusa alle società cooperative che operino in coerenza con l’oggetto sociale.”
COME SI CALCOLANO GLI INTERESSI DA CORRISPONDERE IN CASO DI MORATORIA COVID?
L’art. 56 del Decreto Cura Italia, come successivamente prorogato, al fine di sostenere le attività imprenditoriali danneggiate dalla crisi epidemiologica da Covid 19 e garantire liquidità alle imprese, ha previsto, tra l’altro, la possibilità di sospendere la corresponsione dei canoni di leasing o delle rate relative a mutui e ad altri finanziamenti.
Il quadro normativo in oggetto non ha definito in maniera certa le modalità di calcolo degli interessi e di restituzione del debito sospeso. A tal riguardo, le recenti pronunce dell’ABF di Roma hanno fornito un’interpretazione sulle modalità di calcolo degli interessi da applicarsi per il debito sospeso durante il periodo di moratoria. Considerata la notevole adesione alla moratoria adottata dal Governo, la richiamata normativa è senza dubbio di particolare interesse per tutte le imprese beneficiarie, ora interessate a rimodulare il rimborso delle proprie linee di credito e definire il pagamento degli interessi dovuti per la sospensione dei pagamenti.
Il Decreto-Legge 17 marzo 2020, n. 18 (“Cura Italia”) ha formalmente riconosciuto il Covid 19 come evento eccezionale e di grave turbamento dell’economia, prevedendo la possibilità per le imprese (i) qualificabili come PMI ai sensi della definizione europea, (ii) che non presentavano posizioni debitorie classificate come esposizioni deteriorate, e (iii) in difficoltà a causa delle dell’epidemia, di beneficiare di un periodo di sospensione dal pagamento delle rate o canoni finanziari.
La durata delle misure, contenute nel Decreto Cura Italia, originariamente prevista fino al 30 settembre 2020, è stata più volte prorogata, in ultimo con il Decreto-legge n. 73 del 2021 (cd. Decreto sostegni bis, in vigore dal 26 maggio 2021) fino al 31 dicembre 2021, ma limitatamente alla sola quota capitale dei rapporti di finanziamento.
In questo contesto, per le imprese beneficiarie della moratoria Covid è sorta l’esigenza di definire le modalità di calcolo degli interessi per il periodo di sospensione del rimborso delle rate dei finanziamenti e canoni di leasing.
Le pronunce dell’Arbitro Bancario e Finanziario (“ABF”) n. 1411 del 21 gennaio 2022 e n. 2286 del 8 febbraio 2022, rispettivamente una avente ad oggetto un contratto di leasing finanziario e l’altra un mutuo fondiario, affrontano il tema facendo emergere una zona d’ombra circa l’operatività della norma in relazione al rimborso dei pagamenti sospesi e al calcolo degli interessi dovuti.
In entrambe le controversie la parte ricorrente contestava che la quota interessi fosse stata calcolata dall’intermediario sulla base dell’intero debito residuo e non delle singole rate sospese.
In particolare, una delle parti ricorrenti eccepiva l’illegittimità degli interessi applicati e la violazione dell’art. 56, comma 2, lettera c del Decreto Cura Italia nella parte in cui si stabiliva che la sospensione non avrebbe dovuto comportare “nuovi o maggiori oneri per entrambe le parti”.
Su tale assunto, la ricorrente contestava, in primo luogo, la legittimità dell’intero addebito di interessi, e, in subordine, la legittimità del metodo di calcolo utilizzato dall’intermediario, ritenendo che gli interessi di moratoria andassero semmai calcolati non sull’intero importo del credito, ma sulla sola quota capitale non incassata durante il periodo di sospensione, al tasso definito dal contratto stesso.
Secondo la ricostruzione normativa adottata dall’ABF, l’applicazione degli interessi di sospensione sarebbe legittima in quanto, a norma dell’art. 56, la dilazione del piano di rimborso delle rate sospese deve avvenire “secondo modalità che assicurino l’assenza di nuovi o maggiori oneri per entrambe le parti”; in sostanza, la dilazione non può recare pregiudizio alle aspettative dell’intermediario che ha fatto affidamento, nella gestione del rischio di credito, sul rientro di una somma computata in modo previsionale al momento dell’erogazione del credito.
Sul punto, l’ABF richiama anche la soluzione proposta dal MEF mediante le FAQ pubblicate sul proprio sito, in cui si prevede che, in caso di sospensione dell’intera rata (quota capitale e quota interessi), si determina lo spostamento in avanti del piano di ammortamento per un periodo pari alla sospensione accordata e gli interessi che maturano durante il periodo della sospensione sono calcolati sull’intero capitale residuo al tasso di interesse del contratto di finanziamento o di leasing originario.
Seguendo questa impostazione, l’allungamento del piano di ammortamento del finanziamento o la durata del contratto di leasing sarebbe un requisito per l’applicazione di detto metodo di calcolo degli interessi.
Il calcolo degli interessi potrebbe, invece, essere diverso nell’ipotesi in cui il debitore non intenda prolungare il rimborso del credito per il periodo pari a quello di moratoria, provvedendo ad un rimborso anticipato oppure sottoscrivendo un accordo negoziale con un apposito piano di ammortamento.
L’eterogeneità della casistica impone dunque un’attenta valutazione di ciascuna fattispecie, in modo da adottare le modalità di calcolo degli interessi di volta in volta appropriate al caso in questione.
m.patrignani@macchi-gangemi.com
m.dragone@macchi-gangemi.com
g.pappacena@macchi-gangemi.com
LA CORTE DI CASSAZIONE TORNA A PRONUNCIARSI, IN MANIERA CONTRADDITTORIA, SULLA C.D. DOMANDA TRASVERSALE.
Con due sentenze depositate a distanza di pochi mesi, la Corte di Cassazione torna ad affrontare la delicata questione processuale relativa alle modalità di proposizione della domanda c.d. trasversale di un convenuto contro altro convenuto nello stesso giudizio.
Con la sentenza del 12/05/2021 n. 12662, la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare la questione, innovando il precedente orientamento giurisprudenziale (che consentiva la proposizione della domanda trasversale direttamente nella comparsa di costituzione e risposta depositata nei 20 giorni antecedenti l’udienza) ed aprendo la strada alla sua sostanziale equiparazione alla chiamata in causa di un terzo, ex art. 269 c.p.c. (che – come noto – impone al convenuto di chiedere al giudice il differimento dell’udienza di prima comparizione onde poter notificare al terzo la propria chiamata).
Con detta innovativa sentenza, i giudici della Corte Suprema hanno statuito il principio di diritto per cui “Nel processo civile, caratterizzato da un sistema di decadenze e preclusioni, conseguente alla novella di cui alla l. n. 353 del 1990 e successive plurime modifiche e integrazioni, un convenuto può proporre una domanda nei confronti di altro soggetto, pure convenuto in giudizio dallo stesso attore, in caso di comunanza di causa o per essere da costui garantito, facendo a tal fine istanza con la comparsa di risposta tempestivamente depositata a norma degli artt. 166 e 167 c.p.c. e procedendo quindi ai sensi dell’art. 269 c.p.c., previa richiesta al giudice di differimento della prima udienza allo scopo di provvedere alla citazione dell’altro convenuto nell’osservanza dei termini di rito.”
Prima di tale sentenza, invece, dottrina e giurisprudenza non nutrivano dubbi circa l’ammissibilità della proposizione di domande tra convenuti che fossero già parti del processo, senza necessità di alcuna notificazione (bensì con il solo rispetto della costituzione in giudizio nei venti giorni prima dell’udienza). Questa soluzione maggioritaria, svincolata dal rispetto del termine a comparire ex art. 163-bis c.p.c., si caratterizzava per l’elasticità del meccanismo di proposizione della domanda contro il coevocato e rispondeva ad un’esigenza di celerità del processo e deflazione del contenzioso. Difatti, il meccanismo ex art. 269 c.p.c. trova la sua ratio nell’esigenza di consentire al destinatario della domanda di conoscere i termini della controversia e di assumere formalmente la qualità di parte in giudizio, necessità – questa – che non sussisterebbe, invece, nei confronti di un soggetto che abbia già assunto tale qualifica poiché contestualmente convenuto dall’attore.
Precedentemente, vi era stata un’isolata pronuncia (non massimata) nel 2011 (sentenza della Sez. 3, 12/04/2011, n. 8315) che aveva, in parte, aderito alla tesi minoritaria che richiedeva la necessità della chiamata in causa ex art. 269 c.p.c. laddove la domanda trasversale si fondava su un titolo diverso da quello dell’attore.
Con la sentenza 12/05/2021, n. 12662 la Cassazione è appunto ritornata sul tema, aderendo alla soluzione patrocinata dall’orientamento minoritario, che vuole una sostanziale equiparazione tra la domanda proposta dal convenuto nei confronti di altro convenuto e quella che egli proporrebbe nei confronti di qualsiasi terzo (con conseguente onere del rispetto della regola processuale di cui all’articolo 167, comma 3, c.p.c. che impone al convenuto di fare dichiarazione della propria intenzione di chiamare un terzo in giudizio e di chiedere il differimento dell’udienza, ai sensi del 269 c.p.c.).
Secondo la Cassazione non esisterebbe una valida ragione per negare al destinatario della domanda cd. trasversale il godimento di un termine “pieno” a comparire (di novanta giorni e non solo di venti) per articolare le proprie difese, soprattutto in considerazione delle decadenze che verrebbero a maturare nei suoi confronti (quanto, ad esempio, al suo diritto di formulare istanze di chiamata di ulteriori soggetti terzi e di proporre domande riconvenzionali).
Sebbene i giudici della Cassazione riconoscano che detta soluzione sia chiaramente “penalizzante”, essi stessi la giustificano con il richiamo:
– al vuoto normativo riguardo ai tempi ed ai modi in cui il coevocato potrebbe formulare le sue difese;
e
– al dato testuale dell’art. 183, 5° comma, c.p.c. che attribuisce al solo attore la facoltà di reagire alla domanda riconvenzionale proposta nei suoi confronti dal convenuto (non menzionando, per l’appunto, gli altri evocati in giudizio).
Tale soluzione, per alcuni discutibile, è stata successivamente sconfessata dalla lapidaria sentenza della Corte di Cassazione del 23/03/2022 n. 9441, che – a distanza di appena otto mesi – ha stabilito il seguente principio di diritto: “Il convenuto che intenda formulare una domanda nei confronti di altro convenuto non ha l’onere di richiedere il differimento dell’udienza ai sensi dell’art. 269 c.p.c., ma è sufficiente che formuli la suddetta domanda nei termini e con le forme stabiliti per la domanda riconvenzionale dall’art. 167, comma 2, c.p.c.”.
In attesa di nuovi sviluppi in argomento e/o di una definitiva pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, sarà comunque bene tenere conto (anche) della pronuncia del 2021 laddove si voglia proporre una domanda trasversale nei confronti di altro convenuto.
v.spinelli@macchi-gangemi.com
c.gentile@macchi-gangemi.com
OPPOSIZONE A DECRETO INGIUNTIVO IN MATERIA LOCATIZIA: RICORSO O ATTO DI CITAZIONE?
Con sentenza 13.01.2022 n. 927 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito quali sono i limiti applicativi della sanatoria per mutamento del rito ex art. 4 del D.lgs. 150/2021 (c.d. «decreto semplificazione dei riti») in caso di opposizione a decreto ingiuntivo in ambito locatizio introdotta con atto di citazione anziché con ricorso ex art 447 bis c.p.c.
Il caso pratico nasceva da un provvedimento monitorio emesso dal Tribunale di Palermo e notificato all’ingiunta il 18.07.2014 per il pagamento di indennità di occupazione e oneri accessori; l’opposizione, erroneamente formalizzata con atto di citazione a udienza fissa e non con ricorso, dopo il mutamento del rito da ordinario a locatizio, veniva dichiarata tardiva in quanto promossa oltre il termine di 40 giorni previsto dall’art. 641 c.p.c..
Il tribunale, similmente a quanto avviene con il deposito del ricorso ex art. 447-bis c.p.c., individuava nell’iscrizione a ruolo della causa (e non alla notifica della citazione) l’avvio vero e proprio della lite; di qui la pronuncia di inammissibilità dell’opposizione.
La Corte d’appello di Palermo, investita del gravame, valutava operante nel caso di specie l’art. 4 comma 5° D.lgs. 150/2011 che, come noto, fa salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda prodottisi prima del mutamento del rito; ad onore del vero, nonostante tale favorevole pronunciamento in punto di diritto l’appello veniva comunque respinto dalla Corte territoriale.
Il tema dell’operatività dell’art. 4 citato nell’ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo veniva quindi riproposto nel terzo grado di giudizio dalla parte soccombente; in seguito, con ordinanza interlocutoria n. 13556/2021 la Terza Sezione del Supremo Collegio rimetteva il ricorso al Primo Presidente per una decisione delle Sezioni Unite.
Venendo quindi alla pronuncia n. 927/2022 qui in commento, il principio recentemente elaborato dai giudici della Suprema Corte è il seguente: allorché l’opposizione al decreto ingiuntivo in materia soggetta al rito speciale previsto dall’art. 447-bis c.p.c. sia erroneamente proposta con atto di citazione anziché con ricorso, non opera la disciplina del mutamento del rito di cui dell’art. 4 comma 5° D.lgs. 150/2011 in quanto tale norma è applicabile solo quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dai modelli regolati dal citato D.lgs. 150/2011 (ovvero, diverse dal rito ordinario di cognizione, dal rito del lavoro/locatizio e dal rito sommario ex art. 702 bis e ss.).
Pertanto, precisano le Sezioni Uniti, in virtù del principio di conversione di cui all’art. 156 comma 3° c.p.c., l’eventuale atto di citazione produce gli effetti del ricorso solo quando viene depositato in cancelleria – iscrizione a ruolo della causa – entro il termine di cui all’art. 641 c.p.c..
La decisione compone un contrasto interpretativo per il quale, da una parte, si assimilava il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ad una sorta di “impugnazione” del provvedimento monitorio, impugnazione che, non introducendo un giudizio vero e proprio autonomo, permetterebbe di applicare l’art. 4 del D.lgs. 150/2021 in quanto riferibile solo a controversie “promosse” con i riti sopra indicati (es. Cass. Civ. Sez. Un. 18.07.2001, n. 9769); dall’altra, alcune pronunce già escludevano tout court l’operatività dell’art. 4 del D.lgs. 150/2021 in caso di opposizione a decreto ingiuntivo (Cass. Civ. Sez. VI, 12.03.2019, n. 7071; Cass. Civ. Sez. III, 25.05.2018, n. 13072).
In conclusione, in caso di opposizione ad un decreto ingiuntivo emesso in materia locatizia è bene non promuovere il giudizio con atto di citazione; in caso di errore, per conteggiare utilmente il termine per l’opposizione occorrerà tenere presente il deposito dell’atto di citazione in cancelleria e non la sua notificazione e ciò in quanto, secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in tale ipotesi non è possibile invocare le salvezze previste dell’art. 4 comma 5° D.lgs. 150/2011.
e.storari@macchi-gangemi.com
f.montanari@macchi-gangemi.com
RIVALUTAZIONE DEI BENI D’IMPRESA E RIALLINEAMENTO FISCALE: PUBBLICATI I CHIARIMENTI UFFICIALI DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE.
L’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 6/E del 1 marzo 2022 (di seguito, la “Circolare”) ha reso chiarimenti in merito alla disciplina di cui all’art. 110 del Decreto Legge n. 104 del 14 agosto 2020, convertito, con modificazioni, nella Legge n. 126 del 13 ottobre 2020 (c.d. “Decreto Agosto”), con cui:
– è stato (re)introdotto un regime di rivalutazione “generale” dei beni rivolto a tutti i soggetti imprenditori (incluse le società di capitali, gli enti commerciali e le società di persone residenti, le stabili organizzazioni di soggetti non residenti, ecc.) che non adottano i principi contabili internazionali nella redazione del bilancio;
– è stata introdotta la possibilità di procedere al riconoscimento fiscale (c.d. “riallineamento”) dei maggiori valori già iscritti in bilancio, anche a beneficio dei soggetti “IAS adopter”.
1. Rivalutazione dei beni d’impresa.
Il “nuovo” regime di rivalutazione, la cui disciplina rimanda espressamente alle precedenti (e simili) leggi di rivalutazione emanate in passato, prevede che possono essere oggetto di rivalutazione sia le immobilizzazioni materiali – ad esclusione degli immobili alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività di impresa – che i beni immateriali, anche se completamente ammortizzati, nonché le partecipazioni immobilizzate di controllo e collegamento.
È possibile procedere alla rivalutazione distintamente per ciascun bene (pertanto, non con riferimento a classi omogenee degli stessi), e la facoltà di rivalutazione opera con riguardo ai beni risultanti dal bilancio dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2019.
La facoltà di rivalutazione opera:
– ai soli fini civilistici (in questo caso, è possibile eseguire l’operazione anche nel bilancio del secondo esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2019, i.e. bilancio al 31 dicembre 2021 per i soggetti che hanno l’esercizio coincidente con l’anno solare); o
– anche con valenza tributaria, per il versamento di un’imposta sostitutiva del 3%.
Il maggior valore può essere riconosciuto ai fini IRES e IRAP a decorrere dall’anno successivo a quello in cui è stata eseguita la rivalutazione. Vi è, inoltre, la possibilità di affrancare anche il saldo attivo di rivalutazione (i.e. le riserve vincolate al regime di sospensione d’imposta), con il versamento di un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, dell’IRAP e delle eventuali addizionali nella misura del 10% del suo ammontare. In tal modo, la riserva viene resa disponibile agli usi civilisticamente consentiti (come, ad esempio, la distribuzione ai soci).
2. Riallineamento fiscale.
Il riallineamento, a differenza della rivalutazione, è rilevante soltanto ai fini tributari previo versamento dell’imposta sostitutiva del 3%.
3. I principali chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate.
I principali chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate con la Circolare possono essere così sintetizzati:
– viene precisato che, tenuto conto che la disciplina prevista dall’art. 110 del Decreto Agosto rinvia a previsioni già presenti nei precedenti regimi di rivalutazione e riallineamento, possono applicarsi, in quanto compatibili, i chiarimenti già forniti dai diversi documenti di prassi (cfr. Circolari n. 14/E del 2017, n. 18/E del 2006, n. 11/E del 2009 e n. 13/E del 2014);
– l’Agenzia delle Entrate, modificando la propria interpretazione precedentemente fornita con la bozza di Circolare del 23 novembre 2021 e con la risposta a interpello n. 316/2019, precisa che, dal punto di vista fiscale, il vincolo di sospensione sulle riserve costituite con il saldo attivo di rivalutazione cessa, nell’ambito di operazioni straordinarie, esclusivamente nel caso in cui le stesse siano attribuite, anche indirettamente o di fatto, al socio o al partecipante;
– possono costituire oggetto di rivalutazione i beni immateriali quali marchi, brevetti, licenze, ecc., purché giuridicamente tutelati e con esclusione di quelli alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività di impresa;
– in linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità, l’Agenzia delle Entrate chiarisce che la base imponibile per l’affrancamento delle riserve in sospensione d’imposta è formata dall’ammontare contabile della riserva, ovvero al netto dell’imposta sostitutiva versata in precedenza;
– viene, infine, precisato che l’estensione da 18 a 50 anni del periodo di ammortamento del valore di rivalutazione imputato alle attività immateriali ai sensi del comma 8-ter dell’art. 110 del Decreto Agosto, come modificato dall’art. 1, comma 622 della Legge di Bilancio 2022, riguarda tutti i beni per i quali fiscalmente è prevista la deduzione, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, delle quote di ammortamento in 18 anni (e, quindi, non solo l’avviamento ma anche i marchi d’impresa).
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