RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA: LA NUOVA DIRETTIVA AMPLIA L’AMBITO SOGGETTIVO DI APPLICAZIONE E AUMENTA GLI ADEMPIMENTI PER IL REPORTING SULLA SOSTENIBILITÀ.
Lo scorso 28 novembre è stata adottata dal Consiglio in via definitiva la direttiva relativa alla comunicazione societaria sulla sostenibilità (cd. “Direttiva CSRD”).
L’atto normativo, in attesa di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, si propone l’obiettivo di facilitare la transizione verso un’economia sostenibile agevolando il flusso di informazioni di carattere non finanziario e incrementando gli adempimenti di alcune imprese a divulgare informazioni sul loro impatto sociale, ambientale e di governance.
La Direttiva CSRD interviene modificando le seguenti normative:
(i) Direttiva 2013/34/UE riguardante i bilanci d’esercizio e i bilanci consolidati;
(ii) Direttiva 2004/109/UE avente ad oggetto l’armonizzazione degli obblighi di trasparenza riguardanti le informazioni sugli emittenti ammessi a negoziare in un mercato regolamentato;
(iii) Direttiva 2006/43/CE sui conti annuali;
(iv) Direttiva 2014/95/UE relativa alle informazioni di carattere non finanziario;
(v) Regolamento UE N. 537/2014 sui requisiti specifici relativi alla revisione legale dei conti di enti di interesse pubblico.
Tra le principali novità introdotte, segnaliamo:
1) Estensione dell’ambito soggettivo di applicazione della Direttiva 2014/95/UE relativamente ai soggetti tenuti a fornire l’informativa sulla sostenibilità.
La Direttiva CSRD prevede che gli obblighi di reporting sulla sostenibilità (nella previgente Direttiva 2014/95/UE denominati dichiarazioni di carattere non finanziario) saranno estesi come segue:
– alle imprese di grandi dimensioni di interesse pubblico che abbiano più di 500 dipendenti;
– alle imprese di grandi dimensioni con più di 250 dipendenti e/o più di 40 milioni di euro di fatturato e/o più di 20 milioni di euro in totale di stato patrimoniale;
– alle società quotate in mercati regolamentati, incluse le piccole e medie imprese (PMI), ad eccezione delle microimprese;
– alle imprese non europee che realizzano ricavi netti delle vendite e delle prestazioni superiore a 150 milioni di euro nell’UE e che hanno almeno un’impresa controllata in Unione Europea.
2) Obblighi di certificazione delle informazioni sulla sostenibilità relativamente a fattori ambientali, sociali, governance e maggiore dettaglio nella rendicontazione degli stessi nel rispetto di principi obbligatori europei.
Gli standard di rendicontazione di sostenibilità dovranno tener conto delle seguenti indicazioni:
– in merito ai fattori ambientali: informazioni riguardo la mitigazione dei cambiamenti climatici, l’adattamento ai cambiamenti climatici, le risorse idriche e marine, l’uso delle risorse e l’economia circolare, l’inquinamento, la biodiversità e gli ecosistemi;
– in merito ai fattori sociali: informazioni riguardo alle pari opportunità dei lavoratori e i programmi di sviluppo delle competenze di ciascuno, le condizioni di lavori a cui essi sono sottoposti, il rispetto dei diritti umani;
– in merito ai fattori di governance: informazioni sul ruolo degli organi di amministrazione, gestione e controllo delle imprese, l’etica aziendale e la cultura d’impresa, gli impegni politici delle imprese, la gestione dei rapporti commerciali, il sistema di controllo interno e di gestione del rischio d’impresa.
Le attività di reporting poste in capo alle società dovranno essere svolte secondo il principio della doppia materialità: divulgando sia le informazioni sui rischi ambientali e sociali a cui sono esposte, sia quelle sugli impatti provocati dalle attività aziendali sull’ambiente.
In un’ottica di standardizzazione e quindi maggiore fruibilità a terzi, le informazioni dovranno essere riportate nella relazione sulla gestione sulla base di standard comuni di rendicontazione sviluppati dall’European Financial Reporting Advisory Group (EFRAG) e successivamente pubblicate in formato digitale.
Tali rendicontazioni dovranno essere poi certificate da revisori contabili o legali (in linea con quanto già previsto dalla Direttiva 2013/34/UE), i quali dovranno acquisire un elevato livello di competenze tecniche e specialistiche nel settore della sostenibilità.
Regime transitorio ed entrata in vigore
I nuovi obblighi previsti dalla Direttiva si applicheranno secondo un regime transitorio articolato in più fasi. La normativa entrerà in vigore come segue:
– nel 2025 (comunicazione sull’esercizio finanziario 2024) per le grandi imprese già soggette alla direttiva 2014/95/UE sulla rendicontazione non finanziaria;
– nel 2026 (comunicazione sull’esercizio finanziario 2025) per le grandi imprese attualmente non soggette alla direttiva sulla rendicontazione non finanziaria;
– nel 2027 (comunicazione sull’esercizio finanziario 2026) per le PMI quotate (a eccezione delle microimprese), gli enti creditizi piccoli e non complessi e imprese di assicurazione;
– nel 2029 (comunicazione sull’esercizio finanziario 2028) per imprese non europee.
La Direttiva CSRD costituisce un ulteriore tassello (si pensi al recente Regolamento UE 2020/852 che individua i criteri in base ai quali un investimento possa essere considerato ecosostenibile) della politica che l’Unione Europea sta promuovendo per integrare la sostenibilità nell’assetto organizzativo aziendale degli operatori economici. Questi ultimi dovranno, pertanto, attivamente integrare la sostenibilità nella propria organizzazione in modo che tale promozione sia svolta per tutta l’intera catena del valore. Sempre sul presupposto che tali iniziative debbano essere interpretate non solo come meri adempimenti e fardelli, ma come attività di promozione e di sviluppo, considerata ormai l’attenzione di molti stakeholder (clienti, media, investitori) al tema della tutela ambientale e sociale.
c.colamonico@macchi-gangemi.com
e.casciani@macchi-gangemi.com
LETTERA A BABBO NATALE. ATTENZIONE A COSA (E COME) SI DONA.
Come noto, le donazioni sono considerate “disposizioni testamentarie anticipate” e, non a caso, sono disciplinate nel libro secondo del codice civile, dedicato alle successioni. E come le disposizioni testamentarie, anche le donazioni non possono ledere il diritto degli eredi legittimari (coniuge, figli o ulteriori discendenti e, eventualmente, genitori etc.) a ricevere la propria quota di patrimonio ereditario stabilita dalla legge, indipendentemente e anche contro la volontà del testatore.
Laddove con una o più donazioni sia stata lesa la quota che spetta all’erede legittimario, questi può esperire l’azione di riduzione ed ottenere l’attribuzione dei beni donati fino al raggiungimento della propria quota di spettanza.
La tutela dell’erede legittimario è molto forte e prevale sui diritti di eventuali terzi che nel frattempo abbiano acquistato dal donatario il bene immobile oggetto della donazione in questione (e ciò fino a venti anni dopo la donazione ed entro dieci anni dalla morte del donante). In altre parole, chi ha acquistato un bene immobile proveniente da una donazione può vedersi tenuto a restituire il bene immobile anche dopo un considerevole lasso di tempo, ai sensi dell’art. 563 c.c. (si tratta della c.d. restituzione “in natura”).
La conseguenza è molto rilevante, sia sul piano individuale – per gli acquirenti dell’immobile che lo vedrebbero venir meno – sia su di un piano generale – per la certezza degli scambi e per l’affidabilità della circolazione dei beni.
In questo quadro, si pone il problema della disciplina applicabile nel caso di una c.d. “donazione indiretta”: laddove, cioè, un soggetto non abbia donato un immobile, ma abbia pagato il prezzo di acquisto di un immobile che abbia però intestato ad un terzo il quale, quindi, diviene proprietario dell’immobile beneficiando del medesimo effetto di una donazione.
Secondo un primo orientamento (Cass. 12.05.2010 n. 11496), nel caso della donazione indiretta non troverebbe applicazione l’art. 563 c.c.: se è vero che con la donazione indiretta si ottiene lo stesso effetto di far beneficiare un soggetto dell’acquisto di un bene immobile, l’operazione economica è differente in quanto il donante non diventa mai titolare del bene, ma impiega solo una somma di denaro per far acquistare la proprietà al beneficiario.
L’erede legittimario, pertanto, non potrà soddisfarsi sul bene immobile, ma solo sul suo controvalore in denaro.
Successivamente, però, la Suprema Corte ha cambiato atteggiamento ed ha ritenuto che l’azione restitutoria prevista dall’art. 563 c.c. possa essere esperita nei confronti dei terzi acquirenti anche nel caso in cui l’immobile sia stato oggetto di una donazione indiretta (Cass. 11.02.2022 n. 4523). L’erede legittimario potrebbe quindi ottenere dal terzo la restituzione in natura del bene immobile.
Ora, con una recentissima sentenza, la Suprema Corte (Cass. 2.12.2022 n. 35461) è tornata sull’argomento, criticando la propria precedente pronuncia e dando, invece, continuità al primo orientamento. La donazione indiretta, in conclusione, viene assimilata da un punto di vista sostanziale ad una vera e propria donazione, ma le conseguenze e gli effetti di tale donazione indiretta, sia per gli eredi legittimari sia – ed è probabilmente l’aspetto più rilevante – per i terzi acquirenti, sono molto diversi.
Anche nel pieno dello spirito natalizio, in conclusione, è sempre opportuno considerare che i regali hanno un preciso inquadramento giuridico, possono comportare problemi rilevanti e, pertanto, devono essere adeguatamente preparati.
RESPONSABILITÀ DA REATO DEGLI ENTI EX D.LGS. 231/2001: IN ASSENZA DI SISTEMATICITÀ DELLE VIOLAZIONI, L’ESIGUITÀ DEL RISPARMIO PUÒ ESCLUDERE LA RESPONSABILITÀ.
Con sentenza n. 33976/2022, la Cassazione è intervenuta nuovamente sull’interpretazione dei criteri dell’interesse e del vantaggio in relazione ai reati presupposto di natura colposa specificando come, in assenza di una sistematicità delle violazioni e in presenza di un vantaggio “esiguo”, la limitatezza del risparmio conseguito dall’ente può comunque rilevare per escludere il profilo dell’interesse e/o del vantaggio, e con essa la responsabilità dell’ente stesso, a condizione che la violazione si collochi in un contesto di generale osservanza, da parte dell’ente, di tutte le disposizioni in materia di sicurezza e non sia inquadrabile su un’area di rischio di rilievo.
Il 15 settembre 2022, la Corte di Cassazione ha reso pubbliche le motivazioni di una discussa pronuncia in tema di responsabilità amministrativa degli enti da reato. L’intento del giudice di legittimità, come ben argomentato in sede di motivazione, è quello di scongiurare un’automatica applicazione dell’art. 5 del d. lgs. 231/2001 (che prevede, come noto, che l’ente sia responsabile per i reati commessi, nel suo interesse o a suo vantaggio, da persone che rivestono posizioni apicali, dai loro sottoposti o da chi ne esercita, anche di fatto, la gestione e il controllo) poiché ciò comporterebbe una immediata condanna per l’ente in caso di mancata attuazione di qualsiasi misura di prevenzione, anche isolata.
Venendo al fatto in concreto, la Suprema Corte è stata chiamata ad un giudizio di legittimità su una pronuncia della Corte d’Appello di Venezia che aveva confermato la sentenza di condanna di primo grado nei confronti dell’ente ritenuto responsabile dell’illecito amministrativo da reato di cui all’art. 25 septies, comma 3 del D. lgs. 231/2001, con riferimento ad alcune gravi lesioni riportate da un dipendente durante lo svolgimento delle proprie mansioni.
In tale frangente la società era stata condannata dal giudice di merito a causa di una violazione in materia di sicurezza sul lavoro ascrivibile al presidente del consiglio di amministrazione in relazione al reato previsto all’art. 71 del d. lgs. 81/2008, per negligenza, imprudenza e malcostume, per aver messo a disposizione del lavoratore un’attrezzatura priva dei requisiti di sicurezza. Nel caso di specie, la violazione nasceva da un infortunio occorso sul lavoro ad un dipendente stagionale che, nell’esecuzione delle proprie mansioni, a causa del pavimento bagnato, era scivolato inserendo la mano sinistra all’interno della vasca di raccolta dell’uva priva del dispositivo di sicurezza (griglia di protezione).
La responsabilità dell’ente in ordine al reato presupposto, invece, scaturiva dal vantaggio derivante da un risparmio di spesa conseguito mediante l’omessa installazione del citato dispositivo di sicurezza, circostanza ritenuta sufficiente ai fini della sussistenza del criterio oggettivo d’imputabilità della responsabilità all’ente, in quanto connessa al mancato rispetto di regole cautelari. In particolare, il giudice di merito accertava un risparmio pari a 1.860,00 euro, ritenuto sì minimo, rispetto alla maggior somma impiegata per l’adeguamento del complessivo sistema antinfortunistico, ma comunque consistente.
Successivamente, la società impugnava la decisione dinanzi alla Suprema Corte lamentando l’esistenza di vizi che sostanzialmente afferivano alle modalità con le quali il vantaggio di cui all’art. 5 del d.lgs. 231/2001 si era manifestato, in termini di concreta apprezzabilità del vantaggio stesso, soprattutto nelle ipotesi non caratterizzate da una violazione sistematica della normativa antinfortunistica.
La Suprema Corte ha dapprima ribadito il principio contenuto in una precedente pronuncia per specificare come “ai fini di una responsabilità dell’ente da reato, non sia necessaria una sistematica violazione di norme antinfortunistiche” poiché la stessa può essere ravvisata anche in relazione a trasgressioni isolate a patto che vengano riscontrate delle evidenze fattuali che dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l’interesse dell’ente.
La Corte ha poi richiamato il principio già esplicitato nella precedente sentenza cd. “Canzonetti”, in virtù del quale “l’esiguità del risparmio può rilevare per escludere il profilo dell’interesse e/o del vantaggio, e, quindi, la responsabilità dell’ente, ove la violazione si collochi in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza”, ritenendo però di dover circoscrivere l’applicazione di tale principio esclusivamente nel caso in cui la violazione non insista su un’area di rischio di rilievo, perché “diversamente risulta impraticabile sostenere l’assenza della colpa in organizzazione, rispetto ad una violazione di una regola cautelare essenziale per il buon funzionamento del sistema di sicurezza”.
Applicando i principi sopra richiamati, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso formulato dall’ente ritenendo inesistente il requisito dell’esiguità del risparmio ed evidenziando come nello specifico, nonostante, la mancanza di sistematiche violazioni e l’esiguità del risparmio conseguito dall’ente, la violazione della regola cautelare fosse essenziale al buon funzionamento del sistema di prevenzione di un’intera area di lavoro e, pertanto, non sia possibile sostenere l’assenza di colpa in organizzazione nel caso di specie.
m.divincenzo@macchi-gangemi.com
a.buttarelli@macchi-gangemi.com
L’IMPUGNAZIONE DELLE SENTENZE DA PARTE DEL CONTUMACE NEL RISPETTO DEL TERMINE BREVE.
La regola è semplice: per il contumace il termine per impugnare la sentenza decorre dal momento in cui ha avuto conoscenza della decisione a sé sfavorevole, sia che si tratti di giudizio ordinario di cognizione (art. 163 e ss. c.p.c.) sia che si tratti di procedimento sommario di cognizione (art. 702 bis e ss. c.p.c.). Analizziamo le due ipotesi.
Affinché nel giudizio ordinario di cognizione decorra il termine breve di impugnazione per il contumace, occorre che a quest’ultimo sia notificata la decisione personalmente: questo dispone l’art. 292 ultimo comma c.p.c..
Da notare che il termine breve per l’appello decorre per il contumace sia che vi sia stata la notificazione della sentenza ai sensi dell’art. 326 c.p.c. (notificazione della sola sentenza), sia che la stessa sia stata notificata in forma esecutiva contestualmente all’atto di precetto (art. 479 c.p.c.); in buona sostanza, per consolidato orientamento giurisprudenziale, non ha rilevanza il fine processuale per il quale la notificazione è stata eseguita, ovvero fare decorrere i termini per l’impugnazione o promuovere l’azione esecutiva, ciò che conta è che la notifica in sé risulti idonea ad assicurare al contumace la conoscenza legale della decisione (cfr. Cass. Civ. Sez. II, 05.04.1996, n. 3188 in Giust. Civ. Mass. 1996, 510).
Per completezza, va anche segnalato un orientamento di apparente senso opposto e formatosi per la sola parte costituita, secondo cui “… La notificazione della sentenza in forma esecutiva (nella specie, unitamente all’atto di precetto) eseguita alla controparte personalmente anziché al procuratore costituito a norma degli artt. 170, comma 1, e 285, c.p.c., è inidonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione sia nei confronti del notificante che del destinatario …” (Cass. Civ. Sez. III, 13.08.2015, n. 16804 – conforme Cass. Civ. Sez. III, 01.06.2010, n. 13428).
Principi del tutto simili governano l’impugnazione nel rito sommario: per la parte costituita, il termine breve per impugnare l’ordinanza ex art. 702 ter comma 6° c.p.c. può decorrere non solo in conseguenza di un impulso proveniente dall’altra parte – tipicamente, la notificazione della sentenza – ma anche a seguito di un’attività dell’ufficio giudiziario ovvero dalla comunicazione dell’ordinanza da parte della cancelleria; il termine per l’appello è comunque di trenta giorni.
Così, se l’ordinanza viene emessa in udienza e la parte interessata ad appellarla è già costituita, non vi sarà alcuna comunicazione alla stessa perché si ritiene conosciuta ai sensi dell’art. 176 comma 2° c.p.c; di contro, se l’ordinanza viene pronunciata fuori udienza, il termine di 30 giorni decorrerà dalla notifica del provvedimento da parte della cancelleria (v. art. 702 quater c.p.c. – anche Cass. Sez. II, 14.07.2021, n. 20071).
In presenza invece della parte contumace, indipendentemente dal fatto che l’ordinanza ex art. 702 ter comma 6° c.p.c. sia stata pronunciata in udienza o fuori udienza, il termine breve per l’impugnazione decorrerà solo a seguito della notificazione della decisione alla parte non costituita (su iniziativa della parte vittoriosa, ovviamente); qualora ciò non fosse, per l’appello si applicherà il termine lungo ex art. 327 c.p.c. che, è giusto ricordarlo, decorrerà dalla data di pubblicazione del provvedimento.
Un’ulteriore distinzione va fatta per il contumace “involontario”, ovvero per il convenuto che sia stato erroneamente dichiarato contumace perché il giudice ha omesso di rilevare un vizio dell’atto di citazione o della notificazione: in questo caso, si può andare ben oltre il termine lungo di pubblicazione della sentenza purché sussistano le nullità di cui all’art 327 comma 2° c.p.c., fermo restando che il termine breve per l’impugnazione decorrerà regolarmente in caso di “… valida notificazione della sentenza al contumace …” (cfr. Cass. Civ. Sez. III, 13.11.2018, n. 29037).
LA SOSTITUZIONE DELL’ORIGINARIO DESTINATARIO DEI BENI NEL REGIME DI “CALL-OFF STOCK”: PUBBLICATI I CHIARIMENTI UFFICIALI DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE.
Con la risposta a interpello n. 574 del 25 novembre 2022, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che, in caso di accordi c.d. “call-off stock”, il regime agevolativo IVA continua ad applicarsi se, entro dodici mesi dall’arrivo dei beni nel territorio dell’altro Stato membro, il destinatario della merce è sostituito da un altro soggetto passivo, purché siano soddisfatte le condizioni previste dalla normativa e il cedente indichi la sostituzione in un apposito registro.
Lo schema negoziale del call-off stock (o consignment stock), disciplinato dall’articolo 17-bis, par. 5 della Direttiva 2006/112/CE e molto diffuso nella prassi commerciale, specie in ambito transfrontaliero, elimina, a favore delle imprese che trasferiscono beni tra due Stati membri in vista di una loro successiva cessione ad un acquirente destinatario già noto, l’onere amministrativo collegato all’obbligo di adempiere ai requisiti IVA nello Stato membro in cui si trova il deposito.
Tale agevolazione è stata recepita nell’ordinamento domestico dal D.Lgs. 5 novembre 2021, n. 192, che ha introdotto, tra gli altri, gli articoli 38-bis e 41-bis al D.L. 30 agosto 1993, n. 331 che, ai fini dell’applicabilità del call-off stock, richiedono, cumulativamente, che:
– il fornitore e l’acquirente siano soggetti passivi IVA (requisito soggettivo);
– l’identità del destinatario, identificato ai fini IVA nello Stato membro di trasferimento dei beni, sia nota al fornitore sin dall’inizio della spedizione/trasporto (requisito oggettivo);
– il fornitore non abbia stabilito la sede della propria attività economica né disponga di una stabile organizzazione nello Stato membro verso cui i beni sono spediti o trasportati (requisito territoriale).
L’articolo 50, comma 5-bis del D.L. n. 331/1993 richiede altresì, al fine di prevenire frodi e/o abusi, che le movimentazioni dei beni effettuate nell’ambito di call-off stock siano: a) annotate dal cedente e dal destinatario in un apposito registro, e b) indicate separatamente negli elenchi riepilogativi delle cessioni e degli acquisti intracomunitari, c.d. “Intrastat”.
In tale scenario, la risposta a interpello n. 574/2022 dell’Agenzia delle Entrate ha esaminato il trattamento IVA del call-off stock nell’ipotesi in cui il soggetto originariamente designato quale destinatario della merce sia sostituito da un diverso soggetto.
Sulla base dell’attuale quadro normativo, l’Agenzia delle Entrate ne ha confermato l’applicabilità, subordinando la sostituzione dell’originario destinatario dei beni ai requisiti previsti dalla normativa domestica (vedi sopra) e all’ulteriore condizione che:
– la sostituzione avvenga prima del prelievo della merce; e
– il trasferimento dei beni avvenga entro i dodici mesi dall’arrivo di questi nello Stato membro di destinazione.
Questi chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate seguono quanto già riportato nelle Note esplicative redatte dai servizi della Commissione europea nel dicembre 2019 dove, al fine di garantire trasparenza e certezza all’operazione, era stata rilevata la necessità: a) che la sostituzione dell’originario destinatario col nuovo soggetto passivo si verificasse prima del prelievo della merce da parte di quest’ultimo, e b) che non ci sia soluzione di continuità tra la cessazione dell’accordo di call-off stock concluso con l’originario destinatario e la stipulazione di un analogo accordo con il nuovo.
Restano fermi in capo al fornitore gli obblighi di compilazione del registro relativo alle movimentazioni nonché degli elenchi riepilogativi “Intrastat” riportanti le informazioni concernenti le sostituzioni dell’acquirente destinatario.
a.salvatore@macchi-gangemi.com
f.dicesare@macchi-gangemi.com
DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.
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