Quali sono i limiti applicativi della sospensione dell’obbligo di riduzione del capitale per perdite nell’ipotesi di esito infausto della procedura di concordato preventivo?
L’art. 182-sexies l. fall. prevede che le norme societarie poste a salvaguardia dell’integrità del capitale sociale rimangano sospese dal deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo sino all’omologazione, senza specificare cosa accade nei casi in cui la procedura di concordato non abbia buon fine.
Il Tribunale di Palermo si è pronunciato specificando che tale sospensione deve intendersi condizionata alla pronuncia di ammissibilità della domanda di concordato preventivo, al fine di scongiurare il rischio di comportamenti dilatori dell’amministratore.
Ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2447 e 2484 c.c., se la perdita sofferta da una società di capitali risulta superiore ad 1/3 del capitale sociale e, in conseguenza di ciò, questo scende sotto il minimo legale, si ritiene verificata una causa di scioglimento della persona giuridica. In tali ipotesi l’organo amministrativo è tenuto a convocare d’urgenza l’assemblea dei soci affinché questa valuti l’opportunità di continuare (o meno) l’attività sociale, deliberando a tal fine l’aumento del medesimo capitale ad una cifra non inferiore al minimo mediante conferimenti idonei a coprire le perdite.
L’art. 182-sexies della l. fall. (introdotto dal D.L. 22 giugno 2012 n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012 n. 134) prevede che “[d]alla data del deposito della domanda per l’ammissione al concordato preventivo, anche a norma dell’articolo 161, sesto comma, […] sino all’omologazione non si applicano gli articoli 2446, commi secondo e terzo, 2447, 2482 bis, commi quarto, quinto e sesto, e 2482 ter del codice civile. Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, n. 4, e 2545 duodecies del codice civile”.
Quindi, per effetto della presentazione di una domanda di concordato o di accordo di ristrutturazione, le norme poste a tutela del capitale sociale subiscono una sospensione automatica. Sospensione limitata fino al decreto di omologazione del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti.
La normativa nulla dispone sull’applicabilità di tale sospensione ai casi patologici in cui la procedura concordataria non abbia avuto buon fine e in particolare nei casi in cui la domanda sia stata dichiarata inammissibile.
Su questo argomento si è recentemente espresso il Tribunale di Palermo con sentenza del 31 marzo 2021 n. 1393/2021. In particolare, nel caso in esame la curatela di una S.r.l. contestava ad un ex amministratore la mancata tempestiva convocazione dell’assemblea per l’adozione dei provvedimenti ex art. 2482-ter c.c. a fronte della riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale (ex art. 2484 n. 4 c.c.) registrata già nell’esercizio 2013.
Al fine di escludere la sua responsabilità per mancata convocazione dell’assemblea per l’adozione dei provvedimenti imposti dalla legge, il convenuto adduceva di aver presentato (già prima del 2013) domanda di concordato di preventivo, circostanza che avrebbe determinato la temporanea sospensione, per tutta la durata della procedura concorsuale, delle norme del codice civile poste a salvaguardia del capitale sociale in base all’art. 182-sexies l. fall.
Una parte della dottrina, muovendo dal dato letterale della disposizione citata, si era orientata per la disapplicazione delle norme societarie poste a salvaguardia dell’integrità del capitale sociale nel periodo intercorrente tra la data di deposito della domanda di concordato preventivo (o di accordo di ristrutturazione dei debiti) e quella di decisione da parte del Tribunale sull’omologazione, indipendentemente dall’esito del relativo giudizio e quindi anche in caso di diniego del provvedimento di omologazione o, addirittura, di declaratoria di inammissibilità della domanda per vizi formali o carenze documentali.
Il Tribunale di Palermo ha evidenziato il rischio che una tale interpretazione possa favorire la presentazione di domande di concordato preventivo manifestamente infondate – e destinate ad essere rigettate o dichiarate inammissibili – al solo fine di ritardare la ricapitalizzazione della società o, in alternativa, la sua messa in liquidazione, con conseguente aggravamento del deficit patrimoniale in pregiudizio dei creditori sociali.
Il Tribunale di Palermo, in considerazione della necessità di scongiurare il rischio di comportamenti dilatori dell’amministratore, ha quindi interpretato l’art. 182-sexies l. fall. nel senso che la sospensione della normativa societaria sul capitale sociale sia in ogni caso condizionata alla pronunzia di ammissibilità della domanda di concordato preventivo, ritenendo. In questo modo, secondo il Tribunale siciliano, si coniuga l’esigenza di risanamento dell’impresa e di continuità aziendale con la necessità di salvaguardare gli interessi degli altri soggetti del mercato che si pongono in rapporto con la società in crisi, primi tra tutti i creditori sociali; questi ultimi sarebbero irragionevolmente pregiudicati ove si consentisse la sospensione indiscriminata delle norme sulle perdite di capitale.
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Decadenza dalle business warranties nella cessione di partecipazione sociali.
Nel contratto di cessione di partecipazioni sociali un tema classico è quello rappresentato dal diritto del cessionario ad essere indennizzato dal cedente in presenza di perdite o sopravvenienze passive della società le cui partecipazioni sono state cedute.
Da diversi anni, ormai, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che un tale diritto sussista soltanto se ciò sia stato espressamente pattuito nel contratto di cessione mediante una apposita clausola di garanzia.
Un aspetto fondamentale di tali clausole riguarda, poi, la decorrenza del termine entro il quale il cessionario è tenuto a far valere la garanzia.
In assenza di previsioni contrattuali, infatti, è tutt’ora dibattuto se trovino applicazione i termini previsti dagli artt. 1497 e 1495 c.c. per il caso di assenza di qualità della cosa venduta, oppure se si applichi il termine ordinario di prescrizione decennale.
La giurisprudenza ormai prevalente ritiene che le clausole in esame costituiscano pattuizioni autonome, alle quali non si applicano i termini stabiliti dai citati articoli, secondo i quali l’acquirente è tenuto a denunciare i vizi della cosa venduta entro otto giorni dalla scoperta, e a proporre l’azione di garanzia entro un anno dalla consegna del bene.
In ogni caso, è facoltà delle parti, ai sensi dell’art. 2965 c.c., stabilire nel contratto il termine entro il quale il cessionario è tenuto a far valere la garanzia per sopravvenienze passive.
A tale riguardo, riveste un particolare interesse la sentenza del Tribunale di Milano n. 2327 del 19 marzo 2021, relativa ad una clausola contrattuale che prevedeva l’obbligo del cessionario di far valere la richiesta di indennizzo, a pena di decadenza, entro il termine di 30 giorni dalla conoscenza della perdita o sopravvenienza passiva della società.
Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che il termine decorresse dalla data della proposta di approvazione del bilancio della società, nel quale era stato appostato un fondo per imposte passive differite, non previsto dai precedenti bilanci.
Infatti, secondo il Tribunale, la presentazione del bilancio agli azionisti presupponeva la conoscenza dell’evento che giustificava la richiesta di indennizzo, dal momento che il cessionario controllava la società, che stava per incorporare, e che l’amministratore unico della società era anche un dirigente della società cessionaria.
Il Tribunale, invece, ha rigettato la difesa del cessionario, secondo il quale il termine di decadenza decorreva dalla data di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea dei soci. Secondo il cessionario, infatti, soltanto in tale momento il bilancio, munito delle relazioni del collegio sindacale e del revisore legale dei conti, poteva considerarsi efficace e quindi aversi conoscenza della necessità di appostare il fondo per imposte passive differite.
Indubbiamente, la soluzione adottata dal Tribunale si fonda sulla identificazione “di fatto” tra il cessionario, la società e i suoi organi, per poter affermare che la presentazione del bilancio, a prescindere dalla sua approvazione formale da parte dell’assemblea dei soci, comportava la conoscenza del fatto che giustificava il diritto all’indennizzo. D’altra parte, si può convenire con la tesi del cessionario che soltanto con l’approvazione del bilancio, completo delle relazioni del collegio sindacale e del revisore, poteva dirsi realizzato il presupposto della richiesta di indennizzo, rappresentato dall’appostazione del fondo per imposte differite passive.
A prescindere dalla soluzione adottata, la sentenza in esame offre l’occasione per sottolineare l’importanza della formulazione delle clausole di garanzia, anche in relazione al momento a partire dal quale decorre il termine per far valere il relativo diritto.
Atto interruttivo della prescrizione: quali forme e contenuti deve avere?
La Cassazione ricorda nuovamente le regole da seguire per la redazione di un atto che miri alla interruzione della prescrizione. Con Ordinanza del 31 maggio 2021 n. 15140, la Seconda Sezione della Cassazione Civile ha ricordato che – in tema di interruzione della prescrizione – affinché possa aversi un effetto interruttivo, l’atto deve essere formalizzato per iscritto e deve contenere:
– la chiara indicazione del soggetto obbligato (ovvero di colui che si assume essere il debitore);
– l’esplicitazione della pretesa (ovvero del diritto che si intende far valere), e
– l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento che sia idonea a manifestare una inequivocabile volontà di far valere il proprio diritto nei confronti del soggetto indicato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora.
Dunque, l’atto interruttivo della prescrizione deve contenere un elemento soggettivo (ossia l’indicazione del soggetto obbligato) ed un elemento oggettivo (ossia la volontà di far valere un proprio diritto nei confronti del soggetto obbligato).
Per quanto riguarda l’esplicitazione dell’elemento oggettivo, la Cassazione ricorda che non si tratta di un requisito soggetto a rigori formalistici, all’infuori della scrittura, e non richiede, pertanto, l’uso di formule solenni, né l’osservanza di particolari adempimenti essendo sufficiente che il creditore manifesti chiaramente la propria volontà di ottenere il soddisfacimento del proprio diritto.
Ne consegue che, per la Cassazione, semplici sollecitazioni prive di carattere di intimazione o di un’espressa richiesta di adempimento sono prive di efficacia interruttiva.
Priva di efficacia interruttiva è altresì la mera riserva, seppur formulata per iscritto, di agire per il risarcimento di danni diversi ed ulteriori da quelli effettivamente lamentati nell’atto, trattandosi di una espressione che per la sua genericità non può in alcun modo equipararsi ad una intimazione o richiesta di pagamento.
Dopo aver ricordato quali sono i requisiti per la valida formulazione di un atto interruttivo della prescrizione, la Cassazione ricorda, infine, che anche l’atteggiamento ed il contegno assunto dal soggetto obbligato possono contribuire all’interruzione della prescrizione, tutte le volte in cui l’obbligato riconosca come legittima la pretesa del creditore ovvero la sua condotta si sostanzi in un comportamento obiettivamente incompatibile con la volontà di disconoscerla.
Sotto tale ultimo aspetto è, però, bene rammentare che “verba volant, scripta manent”. Dunque, laddove il debitore non concretizzi la propria volontà di pronto adempimento in atti che rivestano la forma scritta, sarà sempre bene assumere l’iniziativa di interrompere il decorso della prescrizione con un atto interruttivo che abbia i requisiti ricordati dalla Cassazione.
Il Garante per la protezione dei dati personali ha irrogato una sanzione (da 2,6 milioni di euro) ad una società del gruppo Glovo per violazioni in materia di trattamento dei dati nel settore della consegna di cibo.
Il Garante per la protezione dei dati ha sanzionato la società Foodinho, controllata da Glovo, per violazioni nel trattamento dei dati dei riders, a seguito di un’attività ispettiva, di cui il Garante aveva dato notizia al mercato, delle società che operano nel settore della consegna di cibo.
In particolare, Foodinho è risultata non conforme agli obblighi previsti dal Regolamento 2016/679 (“GDPR”), nonché alle norme in materia di piattaforme digitali e allo Statuto dei Lavoratori.
Tra le violazioni rilevate in materia di protezione dei dati si annoverano l’assenza: (i) di adeguate informazioni ai lavoratori in merito al funzionamento dell’algoritmo di gestione delle consegne, (ii) di procedure volte a garantire la correttezza dei risultati generati dal predetto algoritmo, (iii) della possibilità di intervento umano volto a correggere i risultati dell’algoritmo. Inoltre il Garante ha ritenuto (iv) che il software adottato da Foodinho non consente di poter contestare i risultati prodotti dallo stesso.
In breve, l’organizzazione dell’attività lavorativa, da parte dell’imprenditore, tramite strumenti innovativi informativi, deve seguire i principi stabiliti dal GDPR, in particolare il principio di trasparenza.
Da segnalare che le attività ispettive del Garante hanno portato al coinvolgimento anche della corrispondente autorità spagnola (AEPD); a seguito della cooperazione delle due attività AEPD ha portato avanti corrispondenti verifiche nel territorio spagnolo dove, tra l’altro, operano altre società del gruppo Glovo.
Il Garante Privacy ha imposto alla società Foodinho di adottare misure a tutela dei propri lavoratori entro 60 giorni dalla data del provvedimento sanzionatorio, ed inoltre ha imposto alla medesima l’onere di adeguare l’algoritmo ai principi del GDPR entro 90 giorni.
Nel determinare l’ammontare della sanzione, pari a 2,6 milioni di euro, il Garante Privacy ha valutato, inter alia, anche la limitata collaborazione prestata dalla Società nel corso delle attività ispettive e l’elevato numero di soggetti interessati coinvolti (ben 19.000 riders).
Da questo provvedimento possono trarsi due ordini di considerazioni: è sempre opportuno verificare la conformità delle attività aziendali al GDPR, anche ove alcune attività (ed il connesso trattamento dei dati) siano svolti con l’ausilio di strumenti informatici; la cooperazione tra autorità porterà sempre più allo scambio di informazioni tra autorità così che saranno sempre più frequenti attività ispettive parallele in diversi Stati dell’Unione Europea.
r.demarco@macchi-gangemi.com
f.montanari@macchi-gangemi.com
Nuove regole IVA per l’e-commerce: cosa cambia a partire dal 1° luglio 2021?
Il 1° luglio 2021 sono entrate in vigore le modifiche alla Direttiva 2006/112/CE previste dal c.d. “VAT e-commerce package”, introdotte con l’obiettivo di semplificare gli obblighi IVA dei soggetti passivi comunitari che effettuano vendite di beni “a distanza” oppure prestazioni di servizi TTE a consumatori finali assoggettate all’IVA nello Stato membro di consumo.
La previgente disciplina prevedeva, per i soggetti passivi IVA che operano nel commercio elettronico indiretto intracomunitario/transfrontaliero (c.d. “vendite a distanza”) nei confronti di consumatori finali, l’assolvimento dell’IVA nello Stato di destinazione dei beni, se l’importo delle vendite effettuate in uno Stato era superiore a specifiche soglie annuali (comprese tra Euro 35.000 e Euro 100.000) stabilite da ciascuno Stato membro. In caso di non superamento di tale soglia, era possibile assolvere l’IVA nello Stato di partenza dei beni senza la necessità di identificarsi ai fini IVA nello Stato di destinazione dei beni ai fini dell’assolvimento dell’imposta.
A partire dal 1° luglio 2021, per effetto delle modifiche del c.d. “VAT e-commerce package” è stata fissata un’unica soglia, pari a Euro 10.000 complessivi, oltrepassata la quale le vendite in parola si considerano rilevanti nello Stato di destinazione dei beni a partire dalla data di superamento della soglia.
Le regole per verificare il superamento della soglia di Euro 10.000 sono individuate dal nuovo art. 59-quater della Direttiva 2006/112/CE, secondo cui tale importo deve tenere conto non soltanto delle vendite “a distanza” di beni, ma anche delle prestazioni di servizi TTE (secondo la definizione in italiano: servizi di telecomunicazione, teleradiodiffusione ed elettronici) effettuate verso privati in Stati membri diversi da quello di stabilimento del fornitore.
La definizione delle vendite “a distanza” intracomunitarie di beni è contenuta nel nuovo paragrafo 4 dell’art. 14 della Direttiva 2006/112/CE, mentre le prestazioni TTE sono individuate dagli artt. 6-bis, 6-ter e 7 del Regolamento (UE) 282/2011.
Contestualmente, sono state introdotte due nuove procedure di pagamento e riscossione dell’IVA che rappresentano un sistema europeo centralizzato e digitale per l’assolvimento dell’IVA, che di fatto ampliano il campo di applicazione del regime speciale MOSS (“Mini One Stop Shop”, precedentemente riservato soltanto ai servizi elettronici, di telecomunicazione e di teleradiodiffusione):
a) OSS (“One Stop Shop”) applicabile alla generalità delle prestazioni di servizi TTE rese nei confronti di privati consumatori (ambito B2C), nonché alle vendite “a distanza” intracomunitarie dei beni;
b) IOSS (“Import One Stop Shop”) per le vendite a consumatori finali di beni importati da Paesi terzi per un valore non superiore a Euro 150.
Ai fini dell’adesione ai nuovi regimi OSS/IOSS è necessario registrarsi sul sito web dell’Agenzia delle Entrate. I soggetti precedentemente iscritti al MOSS sono automaticamente registrati al nuovo sistema OSS con effetto dal 1° luglio 2021.
In data 15 giugno 2021 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Legislativo n. 83 del 25 maggio 2021 che recepisce le suddette novità in ambito nazionale.
Inoltre, per supportare gli operatori nell’adeguamento alla nuova disciplina, la Commissione Europea ha reso disponibili le Note esplicative sulle norme IVA nel commercio elettronico (settembre 2020) e la Guida allo Sportello unico per l’IVA (marzo 2021), entrambi disponibili sul sito web dell’Agenzia delle Entrate.
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