LATEST NEWS & INSIGHTS 2 LUGLIO 2021

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La partecipazione alle gare pubbliche da parte di una società che ha presentato domanda di concordato in bianco o con riserva, integra una causa di esclusione automatica ex artt. 80 e 110 del D.lgs. n. 50/2016? La Plenaria risponde con la sentenza del 27 maggio 2021, n. 11.

 

La Sez. V del Consiglio di Stato, con ordinanza dell’8 gennaio 2021, n. 313 ha posto le seguenti domande all’Adunanza Plenaria:

 

a) se la presentazione di un’istanza di concordato in bianco ex art. 161, comma 6, legge fallimentare (r.d. n. 267 del 1942) debba ritenersi causa di automatica esclusione dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali, ovvero se la presentazione di detta istanza non inibisca la partecipazione alle procedure per l’affidamento di commesse pubbliche, quanto meno nell’ipotesi in cui essa contenga una domanda prenotativa per la continuità aziendale;

 

b) se la partecipazione alle gare pubbliche debba ritenersi atto di straordinaria amministrazione e, dunque, possa consentirsi alle imprese che abbiano presentato domanda di concordato preventivo c.d. in bianco la partecipazione alle stesse gare, soltanto previa autorizzazione giudiziale nei casi urgenti, ovvero se detta autorizzazione debba ritenersi mera condizione integrativa dell’efficacia dell’aggiudicazione;

 

c) in quale fase della procedura di affidamento l’autorizzazione giudiziale di ammissione alla continuità aziendale debba intervenire onde ritenersi tempestiva ai fini della legittimità della partecipazione alla procedura e dell’aggiudicazione della gara.

 

Ebbene, l’Alto Consesso, rispondendo ai suddetti quesiti, ha chiarito che in epoca più recente le precedenti distonie che caratterizzavano il rapporto tra il codice dei contratti e la legge fallimentare sono andate via via riducendosi.

 

Ed invero, l’art. 80, comma 5, lett. b) del D.lgs. n. 50/2016 fa ora testuale rinvio all’art. 186 bis della legge fallimentare (come già prima era avvenuto con l’art. 38 del vecchio codice) e quindi anche al suo comma 4; ed inoltre l’art. 110 è stato riscritto in occasione dell’adozione proprio del codice della crisi d’impresa (ad opera dell’art. 372 di tale codice), prevedendosi che alle imprese che hanno depositato domanda di concordato con riserva si applichi l’art. 186 bis della legge fallimentare e che per la partecipazione alle gare, tra il momento di tale domanda e quello del decreto di ammissione, sia sempre necessario l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto. Il primo periodo, nel fare rinvio all’art. 186 bis, ha una valenza di chiarimento o di interpretazione autentica; ed invece il secondo periodo ha carattere innovativo, introducendo – per l’avvenire – un elemento di ulteriore garanzia che si aggiunge al controllo giudiziale.

 

L’Adunanza plenaria ritiene quindi che, sulla scorta dell’art. 186 bis, comma 4, della legge fallimentare, la presentazione di una domanda di concordato in bianco o con riserva non possa considerarsi causa di automatica esclusione né inibisca la partecipazione alle procedure per l’affidamento di contratti pubblici.

 

In particolare, non si può ritenere che la presentazione di una tale domanda comporti per ciò solo la perdita dei requisiti generali di partecipazione. Bisogna a questo proposito valutare la ratio dell’art. 186 bis, che ha una funzione protettiva dell’istituto del concordato con riserva che da strumento di tutela non può tradursi nel suo contrario, ossia in un ostacolo alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale in quanto proprio tale prospettiva postula che resti consentito, per quanto “vigilato”, l’accesso al mercato dei contratti pubblici.

 

Questa conclusione, che subordina la partecipazione alle procedure di gara al prudente apprezzamento del tribunale, vale sia per l’ipotesi che l’impresa abbia già assunto la qualità di debitore concordatario nel momento in cui è indetta la (nuova) procedura ad evidenza pubblica, che per il caso in cui, all’inverso, la domanda di concordato segua temporalmente quella già presentata di partecipazione alla gara. In questo senso la formula “partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici”, contenuta nell’art. 186 bis, comma 4 (e da ultimo all’art. 110, comma 4, del codice dei contratti), deve essere letta nel suo significato più pieno e più coerente con quella esigenza di controllo giudiziale ab initio che, realizzandosi sin dal momento in cui si costituisce il rapporto processuale con il giudice fallimentare, rappresenta il punto di equilibrio tra la tutela del debitore e quella dei terzi.

 

Infine, se un’impresa presenta la domanda di concordato dopo avere già presentato la domanda di partecipazione alla gara, dovrà chiedere al tribunale di essere autorizzata a (continuare a) partecipare alla procedura (in tal senso già Cons. St, sez. V, n.6272/2013). Sebbene la legge non indichi un termine ad hoc per la presentazione di una tale istanza (di autorizzazione), l’Adunanza Plenaria conclude evidenziando come sia del tutto ragionevole, secondo l’elementare canone di buona fede in senso oggettivo, che l’istanza debba essere presentata senza indugio, anche per acquisire quanto prima l’autorizzazione ed essere nella condizione utile di poterla trasmettere alla stazione appaltante con la procedura ad evidenza pubblica ancora in corso.

 

 

n.digiandomenico@macchi-gangemi.com

 

 

 

La responsabilità dell’appaltatore: portata e limiti.

 

Una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. 22.06.2021, n. 17819) è ritornata sul tema della responsabilità dell’appaltatore, analizzandone la portata e i limiti, con specifico riferimento al suo ruolo nei confronti del progettista e del direttore dei lavori: ove vi siano errori da parte del progettista o della direzione lavori o dello stesso committente, l’appaltatore ha l’obbligo di individuarli e di denunciarli. Se non lo fa, risponde dei vizi dell’opera che ne derivino, senza neppure la possibilità di invocare il concorso di colpa del progettista, della direzione lavori o dello stesso committente.

 

Il ragionamento della Suprema Corte è abbastanza schematico:

 

– la prestazione dell’appaltatore è un’obbligazione di risultato: deve consegnare l’opera richiesta conformemente alle previsioni contrattuali ed eseguita a regola d’arte;

 

– nell’esecuzione della propria prestazione, l’appaltatore è tenuto alla diligenza specifica richiesta ai sensi dell’art. 1176, comma 2 c.c. e, pertanto, deve conformarsi alle conoscenze tecnico-scientifiche relative al settore di attività, con specifico riferimento alla sicurezza, alla stabilità, all’utilizzo dei materiali e alla tutela dell’ambiente;

 

– l’appaltatore deve essere in grado, pertanto, di riconoscere eventuali vizi o errori nel progetto;

 

– laddove il risultato sia viziato, l’appaltatore è quindi tenuto a risponderne.

 

Il fatto che l’appaltatore si sia attenuto scrupolosamente al progetto o alle istruzioni dello stesso committente, ed abbia quindi realizzato un’opera conforme alle previsioni contrattuali, non lo libera da responsabilità. In altre parole, l’obbligo di eseguire un’opera a regola d’arte prevale sull’obbligo di eseguire l’opera conformemente all’incarico commissionato laddove questo sia affetto da vizi.

 

L’unico modo che l’appaltatore ha di andare esente da responsabilità, dunque, è quello di segnalare e denunciare vizi ed errori al committente.

 

In questo caso si pongono tre possibilità: (i) il committente può prenderne atto, e far modificare il progetto; (ii) il committente può insistere perché – nonostante i rilievi e le obiezioni dell’appaltatore, si prosegua nel progetto originale e l’appaltatore vi si conformi; (iii) la terza evenienza, non considerata dalla sentenza in esame ma astrattamente ipotizzabile, è che il committente insista nell’esecuzione del progetto originale, ma l’appaltatore si rifiuti di eseguirlo. Ne sorgerà probabilmente un contenzioso, nel quale l’appaltatore dovrà dimostrare e far valere il proprio diritto a sciogliersi dal contratto o addirittura contestarne la stessa validità, ove i problemi di progettazione configurino una violazione di norme imperative.

 

Ora, il ragionamento della Suprema Corte, nella sua linearità, pone a carico dell’appaltatore un obbligo molto oneroso. Nel caso pratico esaminato nel giudizio in questione, in effetti, i lavori oggetto dell’appalto non erano particolarmente complessi (si trattava di un progetto per eliminare le barriere architettoniche in una palazzina) e, al contempo, gli errori in sede di progettazione e di direzione dei lavori erano palesi, e sono stati evidenziati in maniera molto netta dal CTU in fase istruttoria.

 

Maggiori problemi si pongono, però, in caso di opere ben più complesse, che comportino una fase di progettazione articolata e sofisticata. È lecito pretendere, anche in questi casi, che l’appaltatore vada a scrutinare il progetto per metterne in evidenza eventuali vizi?

 

La risposta può essere ricercata nelle stesse parole della Suprema Corte, laddove si riferisce all’obbligo di diligenza sopra descritto: “…se egli [l’appaltatore] non abbia rilevato i vizi, pur potendo e dovendo riconoscerli in relazione alla perizia ed alla capacità tecnica da lui esigibili nel caso concreto”, e ancora ”l’appaltatore è tenuto non solo ad eseguire a regola d’arte il progetto, ma anche a controllare, con la diligenza richiesta dal caso concreto e nei limiti delle cognizioni tecniche da lui esigibili, la congruità e la completezza del progetto stesso e della direzione dei lavori”.

 

L’obbligo di diligenza dell’appaltatore, pur sottolineato con forza dai giudici, trova cioè un limite nel grado di difficoltà e di complessità della progettazione, da valutare – nello specifico – con riferimento al singolo caso concreto. Laddove, dunque, le cognizioni tecniche richieste siano particolarmente elevate, queste non sono esigibili in capo all’appaltatore, il quale non ha – legittimamente – gli strumenti per valutare e giudicare il progetto.

 

Resta, in conclusione, il principio di un’ampia responsabilità in capo all’appaltatore, che non può limitarsi ad eseguire pedissequamente ed acriticamente il progetto e le istruzioni a lui impartite, anche se queste provengono dalla committenza. Sussiste, tuttavia, un limite all’obbligo, posto sempre in capo all’appaltatore, di rilevare e di denunciare eventuali vizi ed errori del progettista o della direzione lavori: questo è rappresentato dalla complessità della materia o dalle conoscenze tecniche tanto avanzate da esulare dal bagaglio di preparazione che si può pretendere dall’appaltatore.

 

 

a.gangemi@macchi-gangemi.com

 

 

 

Giurisdizione nei contratti derivati: è valida la proroga di giurisdizione a favore del giudice inglese anche se non sottoscritta?

 

Qualche settimana fa le SS. UU. sono intervenute sul tema della giurisdizione in favore del giudice di uno Stato Membro dell’Unione Europea (Cass. SS. UU. n. 16491/2021) ritenendo la legittimità della proroga giurisdizionale a favore del giudice inglese in ragione del chiaro e preciso riferimento operato dal contratto derivato al Master Agreement ISDA che non poteva passare inosservata all’attenzione del cliente della banca straniera, tanto più se, come nel caso di specie, la controparte era un operatore professionale che già in passato aveva concluso operazioni simili.

 

Con la pronuncia citata, la Suprema Corte afferma il principio per cui la necessità della forma scritta della clausola di proroga della giurisdizione, richiesta dall’art. 23 del Regolamento CE n. 44/2001, (analogo all’art. 17 della Convenzione del 1968 e all’attuale art. art. 25 Regolamento UE n. 1215/2012) contenuta in un contratto derivato, è soddisfatta anche quando essa non è contenuta nel contratto sottoscritto dalle parti, ma sia inserita in altro documento o formulario, al quale il contratto rinvia.

 

Il caso riguarda un contratto Total Return Swap, concluso da un investitore professionale italiano con una banca straniera per il tramite di una SIM italiana. Tale contratto derivato conteneva un esplicito rinvio all’ISDA Master Agreement il quale attribuiva la giurisdizione al giudice inglese. Sulla scia delle precedenti pronunce (Cass. SS. UU. n. 3693/2012 e n. 8895/2017), la pronuncia esclude che sia necessaria una espressa pattuizione nel contratto derivato sottoscritto dalle parti.

 

Le SS. UU. ribadiscono, inoltre il principio per cui la clausola di giurisdizione copre tutte le domande promosse, tanto la domanda principale (nel caso di specie di nullità del contratto) quanto la subordinata domanda di risarcimento del danno per violazione degli obblighi comportamentali gravanti sulla banca. Ciò sulla base dell’orientamento delle SS. UU. per cui nel caso di un convenuto straniero nei confronti del quale siano proposte due domande, la seconda delle quali subordinata alla prima, il giudice, avanti al quale sia eccepito il difetto di giurisdizione, deve sciogliere tale interrogativo solo con riferimento alla domanda proposta in via principale (Cass. SS. UU. n. 7822/2020 e n. 3841/2007).

 

Non ha rilievo, invece, il diverso orientamento delle SS.UU. (Cass. SS. UU. n. 2926/2012, n. 29107/2020; n. 1311/2017; n. 19675/2014, sempre in merito alla negoziazione in derivati conclusi su moduli ISDA), perché nei casi citati la domanda proposta in via principale dall’attore era intesa a far accertare la responsabilità extra-contrattuale delle banche convenute, per la quale non operava la proroga di giurisdizione disposta dall’art. 13 del Master ISDA il quale fa espresso riferimento alle cause relative al contratto (“relating to this agreement”).

 

Le SS. UU. negano, tuttavia, che la clausola di giurisdizione possa avere alcun effetto nei confronti di soggetti estranei al rapporto contrattuale nel quale la clausola è contenuta, in base all’orientamento unionale per cui “una clausola attributiva di competenza contenuta in un contratto può, in linea di principio, esplicare i suoi effetti soltanto nei rapporti tra le parti che hanno prestato il loro accordo alla stipula di tale contratto” (Corte giust., 18/11/2020, C-519/19, Ryanair DAC; Corte giust., 8/03/2018, C-64/17, Saey Home & Garden NV/SA; Corte giust., 28/06/2017, C-436/16, Leventis e Vafeias).

 

Nel caso di specie, difatti, la proroga di giurisdizione a favore del giudice inglese dispiega i propri effetti nel rapporto tra il cliente italiano e la banca inglese, ma non può estendersi all’intermediario per il tramite del quale è stato concluso il contratto derivato (i.e. la SIM italiana estranea al contratto derivato). Tale rapporto era regolato da un accordo separato che individuava, peraltro, quale giudice competente il Foro di Bologna. Secondo le SS. UU., non può riconoscersi ad una clausola di proroga di giurisdizione la capacità di coinvolgere un soggetto ed una controversia estranei all’accordo stesso, nonostante i due rapporti siano indubbiamente collegati fra loro.

 

 

m.divincenzo@macchi-gangemi.com

 

 

 

Privacy: la vostra attività di marketing è conforme al GDPR?

 

Il Garante per la protezione dei dati personali (“Garante Privacy”) ha recentemente sanzionato Iren Mercato S.p.A. (“Iren”) per 3 milioni di euro. La sanzione è derivata dalla ormai nota, ma purtroppo sottovalutata, gestione dei consensi per attività di marketing.

 

Le caratteristiche fondamentali che deve avere un consenso prestato in ambito privacy, incluse le attività di marketing, è l’essere rilasciato per una finalità specifica e previa comunicazione delle opportune informazioni al soggetto interessato.

 

Il consenso dovrà dunque essere correttamente acquisito e gestito dalla società interessata.

 

Le caratteristiche prima descritte del consenso impediscono trasferimenti indiscriminati dei dati di soggetti interessati da una società ad un’altra. Ogni passaggio, come più volte ribadito dal Garante Privacy, deve essere supportato da un apposito e singolo consenso del soggetto interessato.

 

Iren, società che opera nel settore energetico, ha utilizzato dati di interessati senza verificare che il trasferimento o il passaggio degli stessi, tra i diversi titolari del trattamento, fosse supportato da un apposito consenso.

 

Qualsiasi società che effettua attività di marketing ed acquisisce dati di soggetti interessati, conformemente alle recenti prenunce del Garante Privacy, deve sempre verificare la presenza dei dovuti consensi, pena la comminazione di pesantissime sanzioni pecuniari e rilevanti danni di immagine e reputazionali.

 

Nel caso in esame, l’importo della sanzione, 3 milioni di euro, è stato determinato tenendo in considerazione che le liste oggetto del procedimento riguardavano milioni di persone.

 

L’attività del Garante Privacy è stata avviata, come ormai accade sempre più di frequente, in risposta all’invio di alcuni reclami di soggetti interessati.

 

In conclusione, la continua diffusione della cultura privacy tra i cittadini ed i consumatori e la rilevanza delle sanzioni, impongono ormai a tutti i titolari del trattamento di conformarsi quanto prima alle disposizioni in materia di protezione dei dati personali.

 

Ed il vostro impianto privacy societario è conforme?

 

Per qualsiasi dubbio non esitate a contattarci.

 

 

r.demarco@macchi-gangemi.com
f.montanari@macchi-gangemi.com

 

 

 

L’Amministrazione finanziaria può cumulare la sospensione IVA con altre procedure cautelari?

 

In caso di richiesta da parte di un contribuente di un rimborso IVA l’Amministrazione finanziaria che vanta un controcredito può sospendere il rimborso al contribuente che abbia già prestato idonea garanzia?

 

Sul punto, dopo anni di contrasti giurisprudenziali, è intervenuta lo scorso anno la Corte di Cassazione con una sentenza a Sezione Unite, stabilendo che se l’Erario vanta un controcredito, non può sospendere il rimborso al contribuente che abbia già prestato idonea garanzia (Cassazione civile, SS.UU., sentenza n. 2320/2020). In altri termini, in caso di richiesta di rimborso di un credito IVA, l’Amministrazione finanziaria, che abbia chiesto e ottenuto garanzia dal contribuente in base all’art. 38-bis, co 1, d.P.R. n. 633 del 1972, non può fare uso, durante il periodo di vigenza di detta garanzia, degli strumenti cautelari, rispetto ad essa alternativi, previsti dagli artt. 23, co 1, del D.lgs. n. 472 del 1997 e 69 del r.d. n. 2440 del 1923. E, nel caso in cui un atto di irrogazione delle sanzioni sia stato annullato in tutto o in parte con sentenza anche non definitiva cessa di avere efficacia il provvedimento di sospensione del pagamento del credito vantato dall’autore della violazione o dai soggetti obbligati in solido nei confronti dell’amministrazione finanziaria emesso ai sensi dell’art. 23, comma 1, d.lgs. n. 472 del 1997.

 

La pronuncia origina da una fattispecie in cui, nonostante il contribuente avesse richiesto il rimborso di un credito IVA, corredandola con apposita fideiussione prestata ai sensi dell’articolo 38-bis, l’operazione veniva sospesa ex articolo 23, D.Lgs. n. 472 del 1997, in forza dell’esistenza di un avviso di liquidazione per imposta di registro, e tale sospensione veniva mantenuta anche dopo l’annullamento dell’atto da parte del giudice di prime cure. In particolare, l’ordinanza interlocutoria aveva sottoposto all’esame delle Sezioni Unite i seguenti quesiti:

 

1. se, in caso di richiesta di rimborso di un credito IVA, l’Amministrazione Finanziaria che abbia chiesto e ottenuto fideiussione dal contribuente (ex art. 38 bis c. 1 DPR 633/1972), possa fare uso dello strumento cautelare ex art. 23 c. 1 d. lgs. 472/1997 (provvedimento di sospensione del rimborso) ovvero anche di quello previsto ex art. 69 R.D 2440/1923, ove contesti al creditore un controcredito derivante dall’irrogazione di sanzioni, nella specie conseguenti ad imposte non armonizzate;

 

2. se la sospensione (ex art. 23 c. 1 d. lgs. n. 472/1997) trovi applicazione in caso di atto di irrogazione delle sanzioni annullato non definitivamente.

 

Ebbene, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la citata sentenza n. 2320 del 2020, hanno affermato due importanti principi di diritto caratterizzati da una impostazione garantista, a proposito dei presupposti di legittimazione delle procedure di sospensione dei rimborsi previste dall’articolo 23 del D.Lgs. n. 472/1997 aventi a oggetto eccedenze detraibili IVA chieste a rimborso. Mentre la seconda massima era prevedibile, proseguendo sulla scia di un orientamento già espresso dalle stesse Sezioni Unite che, valorizzando l’immediata esecutività della sentenza della Commissione tributaria, ritiene venga meno l’efficacia delle misure cautelari basate su un atto impositivo annullato, la prima massima – secondo la quale la garanzia prestata per il rimborso IVA assorbe qualsiasi altra iniziativa cautelare – rappresenta una soluzione originale, non emersa in precedenza, che lascia tuttavia senza risposta la questione di fondo che le difese del contribuente ponevano, ossia quella di stabilire se un rimborso IVA possa essere oggetto di fermo, senza ledere i principi fondamentali del sistema IVA. Questione ancora aperta e sulla quale si auspica un ulteriore intervento chiarificatore. che dovrà in prossima occasione trovare soluzione.

 

 

g.sforzini@macchi-gangemi.com

 

 

DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.

 

 

 

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