LATEST NEWS & INSIGHTS 24 febbraio 2023

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MODA E ANIMALI: IL SORPRENDENTE LEGAME CREATO DAGLI NFT TRA UNA BORSA BIRKIN E UNA SCIMMIA ANNOIATA.

 

È stata emessa una sentenza di primo grado che conferma il successo di Hermès nella causa intentata negli Stati Uniti contro Mason Rothschild per l’uso di “MetaBirkin” in relazione agli NFT. La storica decisione costituisce un precedente per la tutela dei diritti IP nel metaverso, fornendo principi destinati a trovare molteplici applicazioni giurisprudenziali, proprio come nel caso “Yuga”, pendente dinanzi alla U.S. District Court for the Central District of California.

 

Lo scorso 24 giugno 2022, infatti, la società Yuga Labs Inc. (Yuga), specializzata nello sviluppo di asset da collezione digitali, ha citato in giudizio l’artista concettuale Ryder Ripps (Ripps, sostenendo illecite condotte per contraffazione di marchio, concorrenza sleale, pubblicità ingannevole, cybersquatting, poste in essere attraverso l’illecito utilizzo del marchio “BORED APE YACHT CLUB” e, in generale, dei segni distintivi dell’omonima collezione NFT di 10.000 scimmie annoiate (Marchi BAYC) nel contesto delle attività di creazione, promozione e commercializzazione di una collezione concorrente di NFT dal titolo “Ryder Ripps Bored Ape Yacht Club” (RR/BAYC), ottenuta servendosi delle stesse immagini ideate da Yuga nonché degli indirizzi URL incorporati all’interno degli smart contracts relativi alla collezione.

 

Costituitosi in giudizio, Ripps si è difeso descrivendo RR/BAYC come un esempio di “appropriation art” e, come tale, qualificabile come “protected speech” ai sensi di quanto stabilito nel precedente “Rogers v. Grimaldi” (Rogers v. Grimaldi – 875 F.2d 994 (2d Cir. 1989)), secondo cui il Primo Emendamento della Costituzione statunitense tutela le opere espressive incorporanti un segno distintivo altrui qualora (i) il marchio sia artisticamente rilevante per l’opera e (ii) l’opera non sia espressamente fuorviante quanto alla fonte di provenienza e/o il relativo contenuto.

 

Quanto all’utilizzo dei Marchi BAYC, Ripps ha inoltre argomentato come esso sia da ritenersi un “fair use” di natura descrittiva.

 

Respingendo integralmente le difese di Ripps, la Corte ha stabilito, in primis, l’inapplicabilità del c.d. “Rogers Test”, sul presupposto che gli NFT RR/BAYC non siano espressivi di un’idea o di un punto di vista, limitandosi a “puntare alle stesse immagini digitali online associate alla collezione BAYC” e descrivendo l’agire della convenuta alla stregua di “attività commerciali finalizzate alla vendita di prodotti contraffatti” pertanto scevre di qualunque connotazione artistica, al pari “della vendita di una borsa contraffatta” (trad.ne libera). In merito al “fair use” di natura descrittiva, infine, la Corte ne ha negato la sussistenza osservando i.a. come l’utilizzo dei Marchi BAYC da parte della convenuta avesse quale scopo precipuo la commercializzazione degli NFT RR/BAYC, in luogo della collezione BAYC di parte attrice.

 

Il procedimento è ancora pendente e vedremo come e se la pronuncia Hermès potrà avere un peso nella decisione di questo caso.

 

La collezione BAYC è stata, inoltre, protagonista di un’altra storica vicenda, decisa il 21 ottobre 2022, nell’ambito della quale il Tribunale di Singapore ha riconosciuto, per la prima volta nel continente asiatico, un vero e proprio diritto di proprietà relativo agli NFT, concedendo tutela cautelare contro un destinatario sconosciuto in “Janesh s/o Rajkumar v. Unknown Person” (Chefpierre). Il ricorrente, Janesh s/o Rajkumar appunto, nel caso di specie, era il titolare di un NFT BAYC utilizzato come garanzia per prestiti di criptovalute regolamentati, nella maggior parte dei casi, attraverso una previsione contrattuale che stabiliva che il concedente il prestito non potesse esercitare l’opzione di preclusione (foreclose option) senza aver previamente concesso a Janesh ragionevoli opportunità di rimborsare integralmente il prestito ottenuto.

 

A seguito del sopravvenuto inadempimento del ricorrente Janesh nell’ambito di un rapporto di prestito stipulato con l’utente Chefpierre.eth, alle condizioni sopra descritte, quest’ultimo ha esercitato l’opzione “foreclose” senza concedere a Janesh l’opportunità di rimborsare il prestito, il che ha comportato il trasferimento del NFT all’interno del portafoglio di criptovalute di Chefpierre.eth.

 

Su tali premesse, Janesh ha depositato un ricorso in via d’urgenza dinanzi all’Alta Corte di Singapore al fine di poter rientrare nel legittimo possesso del NFT illecitamente sottratto da Chefpierre.

 

Accogliendo le ragioni di parte ricorrente la Corte, in primis, ha stabilito la propria giurisdizione nonostante la natura decentralizzata delle blockchain, sul presupposto della residenza di parte ricorrente, società operante proprio a Singapore.

 

Nel merito, la Corte ha concesso la tutela invocata definendo gli NFT come un vero e proprio oggetto di proprietà, in applicazione dei requisiti cumulativi previsti dal precedente “Ainsworth” (National Provincial Bank Ltd v. Ainsworth [1965] AC 1175) in quanto:

 

– il diritto deve essere definibile, per cui il bene deve poter essere isolato da altri beni dello stesso tipo o di altro tipo e quindi identificato;

– il bene deve avere un proprietario in grado di essere riconosciuto come tale da terzi;

– il diritto deve poter essere acquisito da terzi; ciò comporta a sua volta due aspetti: a) i terzi devono rispettare i diritti del proprietario del bene, e b) il bene deve essere potenzialmente appetibile;

– il bene deve avere un certo grado di consistenza o stabilità.

 

L’importanza, nel giudizio asiatico, della definizione di NFT quale oggetto di proprietà ha come diretta conseguenza che anche gli asset crittografici potranno essere tutelati per il tramite di provvedimenti di natura d’urgenza, quali il sequestro e/o l’inibitoria, in grado di fornire un crescente livello di tutela a beneficio dei titolari di NFT nella fase di enforcement delle proprie risorse digitali.

 

Da ultimo, ma non meno importante, degno di nota risulta essere l’ulteriore risvolto procedurale nella fattispecie in commento, concernente la possibilità riconosciuta in favore del ricorrente vittorioso, di poter notificare il provvedimento al resistente a mezzo Twitter e/o piattaforme equivalenti (e.g. Discord), ivi inclusa la funzione di messaggistica del portafoglio di criptovalute nella titolarità del soccombente.

 

Le due decisioni, Hermès e Janesh, sono destinate ad influenzare particolarmente – e profondamente – le successive vicende giudiziali in materia di NFT e criptovalute a livello mondiale. Continueremo a seguire da vicino il caso Yuga pendente ed altri casi analoghi nel prossimo futuro. Stay tuned!

 

 

m.baccarelli@macchi-gangemi.com
m.lonero@macchi-gangemi.com
c.bonino@macchi-gangemi.com
a.torchia@macchi-gangemi.com

 

 

 

LA RESPONSABILITÀ DELL’AMMINISTRATORE NON COMPORTA AUTOMATICAMENTE UNA CONDANNA DELL’ENTE.

 

Con la sentenza n. 570 dell’11 novembre 2022 (link), la Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata in tema di responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001 confermando che i Giudici di merito, nel valutare la colpa in organizzazione dell’ente, debbano tenere ben distinte la responsabilità dell’amministratore da quella della persona fisica imputata per il reato.

 

Nel caso specifico, in un cantiere adibito alla realizzazione di lavori sulla tangenziale est di Milano, un lavoratore, mentre si trovava su un ponteggio, è stato colpito da un asse di contenimento della gettata di cemento ed è caduto rovinosamente a terra, perdendo la vita.

 

In seguito a tale incidente, l’Ente è stato imputato per la violazione dell’art. 25-septies, comma 3, del d.lgs. 231/2001, e, successivamente, condannato in entrambi i Giudizi di merito perché ritenuto responsabile del vantaggio derivante dall’impiego di lavoratori, solo formalmente, dipendenti da un’altra società e per non avere dotato gli stessi di adeguati strumenti di protezione individuale.

 

In sede di Giudizio di legittimità però la Suprema Corte, ha evidenziato come la sentenza impugnata «offre un percorso argomentativo carente in punto di responsabilità dell’ente, per certi versi sovrapponendo e confondendo i profili di responsabilità da reato dell’amministratore/datore di lavoro dai profili di responsabilità da illecito amministrativo della società”, in altre parole entrambi i giudici di merito avrebbero condannato l’ente, senza provare l’effettività delle carenze organizzative contestate, basandosi esclusivamente sui profili colposi ascrivibili all’amministratore, quale datore di lavoro tenuto al rispetto delle norme prevenzionistiche, ma non per questo automaticamente addebitabili all’ente in quanto tale, nello specifico.

 

Tutto questo poiché, come ben argomentato sempre dal Giudice di legittimità, a pesare e a dovere essere adeguatamente motivate sono, non tanto le colpe ascrivibili individualmente, quanto piuttosto le carenze del modello organizzativo dell’ente; non può essere sufficiente fondare la responsabilità da reato dell’ente sulla genericità e inadeguatezza del modello organizzativo, senza tuttavia fornire una dimostrazione dell’esistenza di una colpa di organizzazione.

 

In questa prospettiva la Suprema Corte conclude spiegando che “l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica, quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo”.

 

Con il principio espresso in tale pronuncia, la Suprema Corte dà continuità ad un orientamento già applicato nelle pronunce n. 23401 dell’11 novembre 2021 e n. 18413 del 15 febbraio 2022.

 

In particolare, con la pronuncia n. 23401 dell’ 11 novembre 2021 la Suprema Corte aveva specificato come ai fini di una responsabilità da reato dell’ente, sia necessaria la presenza di un nesso intercorrente fra colpa di organizzazione e commissione del reato presupposto, arrivando così ad escludere che il d.lgs. n. 231/2001 abbia delineato, per gli enti, un’ipotesi di responsabilità oggettiva, giacché, al mero dato oggettivo rappresentato dalla commissione di un illecito nell’interesse o a vantaggio della società, deve accompagnarsi una colpevolezza dell’ente consistente, per l’appunto, nel non aver provveduto alla predisposizione dei necessari accorgimenti preventivi idonei ad incidere, ridimensionandone la rilevanza, sul rischio del verificarsi di determinati illeciti.

 

In sintesi, al fine di condannare l’ente, il legislatore richiede una reazione penalistica, non a fronte di una qualsivoglia forma di disorganizzazione, ma solo in relazione a quelle scelte censurabili di strutturazione aziendale che abbiano una determinata connessione con l’illecito effettivamente verificatosi.

 

Infine, con la sentenza n. 18413 del 15 febbraio 2022, la Suprema Corte ha affermato che in tema di responsabilità degli enti da reato, “non sono “ex se” sufficienti la mancanza od inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione della “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo e che è distinta dalla colpa dei soggetti autori del reato.”.

 

 

m.divincenzo@macchi-gangemi.com
a.buttarelli@macchi-gangemi.com

 

 

 

L’INIBITORIA INNANZI AL GIUDICE D’APPELLO: QUALI SONO LE NUOVE REGOLE DELLA RIFORMA CARTABIA?

 

Dal 1 marzo 2023 la riforma Cartabia modificherà le regole dell’inibitoria in sede di impugnazione – Alcune novità supereranno gli orientamenti precedentemente formatisi sull’ammissibilità della relativa istanza.

 

Nel proporre appello, la parte soccombente in primo grado può chiedere la sospensione della provvisoria esecutorietà della decisione impugnata. L’istanza, contenuta nell’impugnazione principale o in quella incidentale, può essere oggetto di specifico ricorso qualora la parte chieda che il giudice del gravame si pronunci prima della prima udienza.

 

La c.d. inibitoria è regolata dagli articoli 283 e 351 c.p.c., novellati anch’essi dalla riforma Cartabia.

 

La prima delle disposizioni ora citate (art. 283 – Provvedimenti sull’esecuzione provvisoria in appello) vede la riformulazione del primo comma e l’inserimento di un nuovo secondo comma; il terzo comma, invece, riproduce dettami già presenti anteriforma.

 

Queste le novità: innanzitutto, per ottenere la sospensione della decisione impugnata la norma non indica più come presupposto unico la presenza di “gravi e fondati motivi” (art. 283 c.p.c. precedente formulazione) ma prevede ora due condizioni alternative tra loro, ovvero che l’impugnazione sia manifestamente fondata oppure che dall’esecuzione della sentenza possa derivare un “pregiudizio grave e irreparabile”.

 

A tal proposito, va ricordato che l’orientamento giurisprudenziale formatosi sul vecchio testo dell’art. 283 c.p.c. prevedeva invece la necessità di cumulo tra fumus boni iuris e periculum in mora (v. Corte appello, Napoli , sez. I , 01/06/2018: “… Per l’adozione del provvedimento di inibitoria i presupposti del fumus boni Juris (in termini di prognosi favorevole all’appellante dell’esito del giudizio di appello) e del periculum in mora (in termini di pericolo di un grave pregiudizio derivante al soccombente dall’esecuzione della sentenza) debbono sempre ricorrere cumulativamente e non alternativamente …”.

 

Il novellato primo comma dell’art. 283 c.p.c. introduce anche una possibilità di inibitoria precedentemente negata da una parte della giurisprudenza delle Corti territoriali: l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva avverso sentenze di condanna aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro (negava una simile ipotesi App. Venezia, sez. III civ., 22 luglio 2021, ordinanza, in quanto il denaro è un bene fungibile e reintegrabile per equivalente – v. anche App. Venezia 14.01.2013).

 

Infine, l’inedito secondo comma della norma in commento prevede espressamente la possibilità di riproporre l’istanza per l’inibitoria nel corso del giudizio d’appello “… se si verificano mutamenti nelle circostanze …”, mutamenti da specificarsi in sede di ricorso a pena di inammissibilità (nuovo art. 283 co. 2 c.p.c.); da notare che in passato l’istanza dell’appellante per ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza non poteva essere riproposta una seconda volta se già oggetto di ricorso ex art. 351 c.p.c. (v. Corte App. Catania, 14.06.2002 – ordinanza – Corte App. Milano 22.07.1994).

 

Quanto alla nuova formulazione dell’art. 351 c.p.c. (Provvedimenti sull’esecuzione provvisoria), permane la continuità con il passato in relazione:

 

(i) al necessario deposito di apposito ricorso al Presidente del Collegio per le istanze innanzi alla Corte d’Appello;

(ii) alla natura non impugnabile dell’ordinanza con la quale il giudice provvede;

(iii) ai giusti motivi di urgenza da porre a fondamento della domanda;

(iv) alla competenza del Collegio ad esprimersi innanzi alla Corte d’Appello, e

(v) alla possibilità di provvedere con decisione a seguito di trattazione orale ex art. 281 sexies c.p.c., con una novità per quest’ultimo caso: innanzi alla Corte d’Appello, se l’udienza si è tenuta innanzi al giudice istruttore, il Collegio, con l’ordinanza con cui decide sull’inibitoria, fissa udienza davanti a sé per la precisazione delle conclusioni e la discussione orale della causa, assegnando alle parti un termine per note conclusionali (non vi sono più le comparse conclusionali e le memorie di replica).

 

Sembra dunque che la riforma Cartabia non abbia inciso in modo rilevante sulle regole già previste dal vecchio art. 351 c.p.c..

 

 

e.storari@macchi-gangemi.com

 

 

 

DEDUCIBILITÀ DEI COSTI “BLACK LIST”: TORNANO LE LIMITAZIONI CON LA LEGGE DI BILANCIO 2023.

 

Ripristinata dalla Legge di Bilancio 2023 la normativa antielusiva in materia di costi c.d. “black-list”: la deducibilità delle spese e degli altri componenti negativi di reddito derivanti da operazioni intercorse con imprese e professionisti residenti ovvero localizzati in Paesi o territori non cooperativi ai fini fiscali è di nuovo soggetta a determinati limiti e condizioni.

 

L’art. 1, comma 84, della Legge n. 197 del 29 dicembre 2022 (“Legge di bilancio 2023”), al fine di garantire l’impegno politico assunto dal governo italiano nell’ambito dei lavori del Consiglio Ecofin nel 2019, ha (re)introdotto il regime di deducibilità dei costi black-list ai commi da 9-bis a 9-quinquies all’art. 110 del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 (“TUIR”), già emendato nel 2015 e soppresso nel 2016.

 

Le imprese residenti in Italia possono dedurre i costi derivanti da operazioni con imprese ovvero con professionisti residenti o localizzati in Paesi “non cooperativi” ai fini fiscali:

 

– integralmente, se questi non eccedono il valore normale (determinato ai sensi dell’art. 9 del TUIR); ovvero

 

nei limiti dell’eccedenza del valore normale, a condizione che l’impresa residente in Italia fornisca la prova che le operazioni realizzate rispondono a un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione.

 

La lista dei Paesi “non cooperativi” ai fini fiscali è individuata nell’allegato I alla Lista UE adottata dal Consiglio dell’Unione Europea (recentemente aggiornata con le conclusioni del Consiglio dell’Unione Europea del 14 febbraio 2023, documento n. 6375/23) e comprende: Anguilla, Bahamas, Costa Rica, Federazione Russa, Guam, Isole Fiji, Isole Marshall, Isole Turks and Caicos, Isole Vergini Britanniche, Isole Vergini Statunitensi, Palau, Panama, Samoa, Samoa americane, Trinidad and Tobago, Vanuatu.

 

Nell’assunzione che possano applicarsi i chiarimenti ufficiali pubblicati in passato con riferimento al previgente regime, l’effettivo interesse economico dovrebbe corrispondere ad una “valida giustificazione di tipo economico a beneficio della specifica attività imprenditoriale, avendo riguardo sia alla peculiarità del contesto nel quale essa è attuata sia alla praticabilità di soluzioni alternative a quella che vede come controparte dell’operazione un soggetto residente in un Paese a fiscalità privilegiata” (cfr. Agenzia delle Entrate, Circolare n. 1/E del 26 gennaio 2009).

 

Per espressa previsione di legge, tali limiti e condizioni non si applicano ai costi derivanti da operazioni intercorse con soggetti non residenti cui risulti applicabile il regime CFC previsto dall’art. 167 TUIR.

 

Le spese e gli altri componenti negativi di reddito dovranno essere indicati separatamente in dichiarazione, anche ove questi non superino il valore normale.

 

Opportunamente, i commi 85 e 86 dell’art.1 della Legge di Bilancio 2023 hanno aggiornato:

 

– il regime sanzionatorio di cui all’art. 8, comma 3-bis, del D.lgs. n. 471 del 1997, che, in caso di omessa o incompleta indicazione dei costi black-list in dichiarazione dei redditi, comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pari al 10% dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati, con un minimo di € 500 e un massimo di € 50,000;

 

– la disciplina sugli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale di cui all’art. 31-ter, comma 1, lett. a), d.P.R. 600 del 1973, ora estesa anche alla “preventiva definizione in contradditorio dei metodi di calcolo del valore normale delle operazione di cui al comma 9-bis dell’articolo 110 del TUIR”.

 

 

a.salvatore@macchi-gangemi.com
f.dicesare@macchi-gangemi.com

 

 

DISCLAIMER: Questa newsletter fornisce solo informazioni generali e non costituisce una consulenza legale da parte di Macchi di Cellere Gangemi. L’autore dell’articolo o il vostro contatto in studio sono a Vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.

 

 

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