LATEST NEWS & INSIGHTS 24 SETTEMBRE 2021

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Decreto Semplificazioni “bis”: le modifiche al Codice degli Appalti e all’istituto del Subappalto.

 

Attraverso l’analisi del Decreto semplificazioni 2021, nella parte relativa alle gare pubbliche (non solo quelle finanziate dal PNRR), è possibile osservare come esso abbia modificato funditus alcuni istituti disciplinati dal Codice degli appalti (d.lgs. n. 50/2016), incidendo sostanzialmente sul regime “ordinario” dei contratti pubblici.

 

Nella newsletter del 2 agosto 2021 si è data notizia del Decreto-legge n. 77/2021 (c.d. Decreto semplificazioni 2021) avente ad oggetto la “Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazioni e snellimento delle procedure”, convertito in legge n. 108 del 29 luglio 2021 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana il 30 luglio 2021 ed entrata in vigore il giorno successivo, il 31 luglio 2021).

 

Come evidenziato nel precedente contributo, il corpus di norme destinato alla materia degli appalti può essere suddiviso in tre aree: a) norme applicabili a tutte le gare; b) norme applicabili agli interventi finanziati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (il cd. PNRR) e dal Fondo complementare (PNC); c) norme applicabili alla realizzazione di 10 opere ritenute prioritarie e strategiche per il Paese secondo un iter più celere.

 

In questa prospettiva, con riferimento alle norme applicabili a tutte le gare pubbliche, giova evidenziare che la “nuova” disciplina stabilisce che:

 

i. tutte le deroghe per gli appalti sottosoglia, già previste dal primo Decreto Semplificazioni (D.ls. n. 76/2020), sono prorogate fino al 30 giugno 2023 e non scadranno dunque a fine anno;

 

ii. nei contratti di servizi e forniture, è innalzata la soglia per l’affidamento diretto che viene fissata a 139.000 €, ivi inclusi i servizi di ingegneria e architettura e l’attività di progettazione;

 

iii. nei contratti di lavori, si riduce il numero di operatori economici da consultare nell’ambito della procedura negoziata senza bando. In particolare, il Decreto Semplificazioni bis introduce una nuova soglia – compresa tra 150.000 € ed 1.000.000 di € – nella quale è sufficiente consultare 5 operatori (andandosi a sostituire la precedente, compresa tra 150.000 € e 350.000 €) e prevede altresì che, per i contratti sopra 1.000.000 € e sino alla soglia comunitaria di 5.350.000 € prevista dall’art. 35 del D.lgs. n. 50/2016, sia sufficiente invitare 10 operatori in luogo dei 15 precedentemente previsti.

 

Ciò detto, l’istituto che maggiormente ha beneficiato dell’intervento del Governo è senz’altro quello del subappalto, ex art. 105 del D.lgs. n. 50/2016 (così come modificato dall’art. 49 del Decreto Semplificazioni bis).

 

Ed infatti, l’art. 49 del D.l. n. 77/2021 “Modifiche alla disciplina del subappalto”, pone in atto il processo di liberalizzazione già inaugurato con le pronunzie della Corte di Giustizia (decisioni 26 settembre 2019-C63/18; 27 novembre 2019-C402; 30 gennaio 2020, C395/18) che hanno sancito l’incompatibilità con il diritto eurounitario dei limiti massimi di possibile ricorso al subappalto.

 

Anche per queste ragioni, il D.l. n. 77/2021 introduce un regime temporaneo che abroga quello introdotto dal D.l. n. 32/2019 (conv. con modificazioni dalla l. n. 55/2019) in forza del quale si prevedeva che il subappalto non potesse superare la soglia del 40 % del valore complessivo dell’appalto, lasciando scegliere alle stazioni appaltanti la percentuale esatta. Ora, invece, e solo fino al 31 ottobre 2021, il subappalto sarà elevato al 50%.

 

In seguito, e quindi dal 1° novembre 2021, inizierà il processo di liberalizzazione diretto a rimuovere ogni limite quantitativo generale e predeterminato al subappalto e ciò con la modifica del comma 2 dell’art. 105 del d.lgs. n. 50/2016.

 

Le stazioni appaltanti, tuttavia, potranno indicare nei documenti di gara, previa adeguata motivazione nella determina a contrarre, eventualmente avvalendosi del parere delle Prefetture competenti, le prestazioni o le lavorazioni oggetto del contratto di appalto da eseguire a cura dell’aggiudicatario in ragione: i) delle specifiche caratteristiche dell’appalto, ivi comprese quelle delle categorie super specialistiche di opere (di cui all’articolo 89, comma 11 del codice dei contratti pubblici); ii) dell’esigenza di rafforzare il controllo delle attività di cantiere e più in generale dei luoghi di lavoro e di garantire una più intensa tutela delle condizioni di lavoro e della salute e sicurezza dei lavoratori, tenuto conto della natura o della complessità delle prestazioni o delle lavorazioni da effettuare; iii) dell’esigenza di prevenire il rischio di infiltrazioni criminali, a meno che i subappaltatori siano iscritti nelle c.d. “white list” (ex comma 52 dell’art. 1 della legge 6 novembre 2012, n. 190), ovvero nell’anagrafe antimafia (ex art. 30 del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189, convertito in legge 15 dicembre 2016, n. 229).

 

Un’ulteriore importante novità in tema di subappalto concerne l’abrogazione, a partire dal 1° novembre 2021, del comma 5 dell’art. 105 del Codice degli appalti, così non vi sarà più il limite del 30% per gli affidamenti delle opere super-specialistiche, ed il divieto di suddividere l’appalto senza ragioni obiettive espresse. Inoltre, si afferma, sempre a partire dal 1° novembre 2021, la responsabilità in solido del contraente principale e del subappaltatore nei confronti della stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto del contratto di subappalto (modifica del comma 8, dell’art. 105 del Codice dei contratti pubblici).

 

Dal canto suo, la legge di conversione ha introdotto un nuovo emendamento al comma 7 dell’art. 105 del Codice dei contratti pubblici, disciplinando in modo più puntuale la presentazione della dichiarazione del subappaltatore dell’assenza dei motivi di esclusione e quella relativa al possesso dei requisiti richiesti per l’esecuzione del subappalto e la loro verifica da parte della stazione appaltante, prevedendo che, al momento del deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante, l’affidatario trasmetta la dichiarazione del subappaltatore attestante l’assenza dei motivi di esclusione di cui all’articolo 80 del Codice degli appalti e il possesso dei requisiti speciali di cui agli articoli 83 (Criteri di selezione e soccorso istruttorio) e 84 (Sistema unico di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici) del medesimo Codice degli appalti. La stazione appaltante, a sua volta, dovrà verificare le dichiarazioni tramite la Banca dati nazionale dei contratti pubblici prevista dall’art. 81 dello stesso Codice degli appalti.

 

È di tutta evidenza che la nuova normativa introdotta dal Decreto semplificazioni bis (e la sua legge di conversione n. 108/2021) si pone in linea con gli ultimi interventi del Legislatore in materia di appalti pubblici, spostando sempre più il regime dei contratti pubblici al di fuori dell’alveo ordinario (e legittimo) del Codice dei contratti pubblici.

 

Ebbene, questo “giro” di deroghe, rinvii e nuovi innesti di regole pone e porrà, come ovvio, problemi di interpretazione agli operatori del diritto, in attesa che finalmente arrivi una riforma il più possibile organica della materia attraverso l’annunciata revisione del Codice degli appalti.

 

n.digiandomenico@macchi-gangemi.com

 

 

 

Il decreto di recepimento della direttiva UE su rinnovabili all’esame del Parlamento.

 

Lo schema di decreto per la promozione degli impianti FER contiene importanti novità in tema di procedure autorizzative, autoconsumo, comunità energetiche rinnovabili, sistemi di rete e di trasporti, necessarie per implementare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

 

L’attività di settembre del Parlamento si concentra anche sull’esame, in sede consultiva, degli schemi di decreto legislativo di recepimento delle norme UE relative al mercato dell’energia elettrica (UE) 2019/944, alla promozione delle fonti rinnovabili (UE) 2018/2001 e alla riduzione dell’impatto dei rifiuti plastici (UE) 2019/904, approvati il 6 agosto dal Consiglio dei ministri di cui sono in calendario in questi giorni le audizioni informali.

 

Per l’attuazione della direttiva UE 2018/2001, la cosiddetta “Red II”, lo schema di decreto per la promozione delle fonti rinnovabili persegue il dichiarato obiettivo del governo di accelerare la transizione dai combustibili tradizionali alle fonti rinnovabili, in coerenza con il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC). Attualmente, prevede sette titoli.

 

Dopo aver definito, al Titolo I (articoli 1-3), le finalità, le definizioni e gli obiettivi nazionali, al Titolo II (articoli 4-17), il decreto regola i regimi di sostegno e degli strumenti di promozione.

 

Il primo strumento utilizzato per conseguire gli obbiettivi è quindi la semplificazione degli iter – rispetto ai regimi passati – a partire dagli incentivi. L’art. 5 definisce le caratteristiche generali dei meccanismi di incentivazione e, in ottica di semplificazione, per i cosiddetti impianti di piccola taglia (potenza inferiore a 1 MW) che abbiano costi di generazione vicini alla competitività di mercato si propone un accesso diretto, mentre i grandi impianti di potenza superiore al MW e per piccoli impianti innovativi o con costi di generazione elevati opereranno con aste e registri.

 

Al Titolo III (articoli 18-29) vengono invece considerate le procedure autorizzative, i codici e regolamentazione tecnica. Il primo obiettivo è accelerare il rilascio delle autorizzazioni, innanzitutto attraverso la ridistribuzione della competenza al livello amministrativo più adeguato in base alle dimensioni e tipologie di impianto. Prosegue poi l’articolo 19 che prevede la definizione di uno sportello unico digitale per le energie rinnovabili (SUDER), cui spetta il coordinamento e la digitalizzazione di tutti gli adempimenti richiesti per il rilascio delle autorizzazioni e l’approvazione modelli unici digitali. Saranno poi necessari i decreti ministeriali attuativi per definire la competenza rispetto allo sportello unico delle attività produttive (SUAP). L’articolo 20 disciplina l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili, demandando a decreti del Ministro della transizione ecologica di concerto con il Ministro della cultura, e il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, che dovranno assicurare il rispetto delle esigenze di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio.

 

Lo schema prevede poi al Titolo IV (articoli 30-38) la disciplina per l’autoconsumo e le comunità energetiche rinnovabili. L’articolo 32 definisce le modalità di interazione con il sistema energetico per gli autoconsumatori (singoli, associati o comunità energetiche), che mantengono in ogni caso i loro diritti di clienti finali.

 

Lo stesso titolo disciplina i sistemi di rete e all’articolo 36 prevede l’adozione da parte di ARERA di uno o più provvedimenti per individuare le modalità con le quali il GSE eroghi gli incentivi nel settore elettrico, con riferimento ai nuovi impianti e a quelli già in esercizio prevedendo la creazione di una piattaforma elettronica.

 

Lo schema prosegue poi con il Titolo V (articoli 39-45) che contiene la disciplina dell’energia rinnovabile nel settore dei trasporti e criteri di sostenibilità per biocarburanti, bioliquidi e combustibili di massa, anche introducendo limiti di utilizzo di quelli ottenuti da colture alimentari e foraggere; il Titolo VI (articoli 46-47) relativo a informazione, formazione e garanzie di origine; il Titolo VII (articoli 48-50) con le disposizioni finali.

 

Il decreto in esame e il “Decreto Semplificazioni bis”, approvato definitivamente ad inizio agosto, si intersecano strettamente con l’attuazione dei progetti e delle riforme in materia di energia FER previsti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per riuscire ad accelerare la diffusione delle rinnovabili nel nostro paese. Per rispettare gli ambiziosi obiettivi Ue, l’Italia deve installare annualmente impianti per almeno 7 GW, fino al 2030, ma negli ultimi anni, con gli attuali tempi di autorizzazione, la media è stata di meno di 1 giga annuo.

 

 

f.bogoni@macchi-gangemi.com
m.rigo@macchi-gangemi.com
m.peretti@macchi-gangemi.com

 

 

 

Un brindisi ad una più ampia tutela delle DOP?

 

A seguito di una domanda di rinvio pregiudiziale presentata nell’ambito di una controversia afferente l’uso della denominazione “Champanillo” come nome commerciale per servizi di ristorazione, che vedeva contrapposte il Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne, organismo per la tutela degli interessi dei produttori di champagne ed un ristoratore spagnolo che utilizzava detta espressione per designare e promuovere i propri locali, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata in tema di “evocazione”, concetto autonomo e distinto rispetto a quello di «uso» di una denominazione di origine, ovvero di una indicazione geografica, ai sensi dell’articolo 103, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 1308/2013.

 

Così dispone la norma citata: “2. Le denominazioni di origine protette e le indicazioni geografiche protette e i vini che usano tali denominazioni protette in conformità con il relativo disciplinare sono protette contro:..b) qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto o servizio è indicata o se il nome protetto è una traduzione, una trascrizione o una traslitterazione o è accompagnato da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione”, “gusto”, “come” o espressioni simili;”.

 

Ripercorrendo, a tal proposito, le conclusioni formulate dall’Avvocato Generale Pitruzzella, le condotte in oggetto sono state ritenute dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”) come sussumibili all’interno del dettato normativo di cui al successivo articolo 103, paragrafo 2, lettera b) del Regolamento (UE) n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli (“Regolamento”).

 

La CGUE ha in primis ribadito l’applicabilità esclusivamente della normativa europea da parte del Giudice del rinvio ed ha poi svolto una attenta disamina della norma sopracitata.

 

In primo luogo il Giudice comunitario ha escluso l’applicabilità, nel caso di specie, della condotta illecita relativa all’uso della DOP (come disciplinato dall’articolo 103, paragrafo 2, lettera a), del Regolamento) concentrando quindi l’analisi solo sulla condotta illecita relativa all’evocazione, sussistente in un richiamo, anche in termini di suggestione, della denominazione protetta, di tal che il consumatore sarà indotto a stabilire “un sufficiente nesso di vicinanza con detta denominazione” (cfr. par. 39 Sentenza citata).

 

In aggiunta, la CGUE ha osservato come la norma citata preveda che una DOP sia meritevole di protezione contro qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se è indicata l’origine vera del prodotto «o servizio». in altre parole, la protezione della DOP copre non solo prodotti ma anche servizi “evocativi”. Il Giudice ha ritenuto, a nostro avviso a ragione, una simile interpretazione perfettamente in linea rispetto agli obiettivi primari del Legislatore Comunitario, volti alla istituzione di un regime di tutela “ad ampio raggio” destinata ad estendersi a tutti gli usi che sfruttano la notorietà associata ai prodotti contraddistinti da una indicazione geografica protetta nell’ottica di garantire, da un lato, i consumatori circa il nesso intercorrente tra la qualità dei prodotti interessati e la loro provenienza geografica e di consentire, dall’altro, “agli operatori agricoli che abbiano compiuto effettivi sforzi qualitativi di ottenere in contropartita migliori redditi e di impedire che terzi si avvantaggino abusivamente della notorietà discendente dalla qualità di tali prodotti” (cfr. par. 49 sentenza citata).

 

La CGUE ha poi evidenziato che la nozione di «evocazione» non esige, quale presupposto, che il prodotto protetto dalla DOP e il prodotto o il servizio contrassegnato dalla denominazione contestata risultino identici o simili (par. 61 Sentenza citata). Al contrario, il concetto di evocazione sussisterebbe, a giudizio della Corte, in tutte le ipotesi in cui l’uso di una denominazione produce, nella mente di un consumatore europeo medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, un nesso “sufficientemente diretto e univoco” tra tale denominazione e la DOP, potendo tale nesso risultare da diversi fattori quali l’incorporazione parziale della denominazione protetta, l’affinità fonetica e visiva tra le due denominazioni, la “vicinanza concettuale” tra la DOP e la denominazione contestata o ancora una somiglianza tra i prodotti protetti da una DOP e i prodotti o servizi contrassegnati da tale medesima denominazione, specificando che spetterà al giudice del rinvio prendere in considerazione tutti i fattori pertinenti e connessi all’uso della denominazione di cui trattasi, al fine di valutare la sussistenza o meno di una condotta in violazione della denominazione protetta.

 

Da ultimo, la CGUE ha avuto modo di concludere come il concetto di evocazione debba essere inteso come autonomo rispetto alla eventuale sussistenza, nel caso di specie, di qualsiasi atto di concorrenza sleale, dal momento che l’articolo 103, paragrafo 2, lettera b), del Regolamento è volto ad istituire una protezione specifica e propria per le denominazioni d’origine, tale da trovare applicazione indipendentemente dalle disposizioni di diritto nazionale in materia di concorrenza sleale, non escludendo quindi una tutela cumulativa delle due normative.

 

In conclusione, tale pronuncia ha individuato con dovizia e in modo molto puntuale, i singoli elementi di valutazione cui le Corti nazionali dovranno uniformarsi per individuare le condotte evocative illecite. Ma soprattutto, la CGUE ha inteso confermare la ratio del legislatore europeo, volta a garantire una tutela ad ampio raggio alle DOP. Questa decisione avrà un forte e positivo impatto sulle numerose aziende vinicole italiane oltre che, naturalmente, sulle aziende francesi. La CGUE conferma un’ampia tutela alle DPO, denominazioni d’origine protetta e poiché l’Italia è il paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari a denominazione di origine protetta di cui per la maggior parte vini, questa decisione del giudice europeo aprirà maggiori tutele ai nostri prodotti di eccellenza e ovviamente a tutti i prodotti europei degni di tale tutela.

 

m.baccarelli@macchi-gangemi.com
m.lonero@macchi-gangemi.com

 

 

 

Esibizione di documentazione bancaria: la parola alle Sezioni Unite?

 

La Suprema Corte è ritornata recentemente (Cass. 13.09.2021 n. 24641) sul dibattuto tema dell’obbligo per le banche di consegnare al cliente la documentazione relativa al rapporto contrattuale. E lo ha fatto ribaltando l’orientamento sinora dominante e richiamando un precedente assai risalente (Cass. 4.04.2016 n. 6511; ma cfr. anche più recentemente Cass. 2.05.2019 n. 11543). Non si può parlare, dunque, di un semplice revirement, ma di due posizioni contrapposte che forse, adesso, renderebbero opportuno rimettere la questione alle Sezioni Unite.

 

Come noto, l’art. 119, comma 4, TUB prevede che: “Il cliente, colui che gli succede a qualunque titolo e colui che subentra nell’amministrazione dei suoi beni hanno diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni”.

 

Tale disposizione è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza in modo ampio, come presidio di trasparenza e di tutela del correntista. In particolare, è ormai pacifico che la richiesta di documentazione possa avere ad oggetto anche gli estratti conto periodici, e ciò anche se la banca li abbia comunicati regolarmente al cliente in ottemperanza all’obbligo previsto dai commi 1 e 2 del medesimo art. 119 TUB.

 

Ora, il punto centrale – nell’ottica di un contenzioso massivo che si è sviluppato negli ultimi anni volto alla contestazione delle poste passive applicate dalla banca – è stabilire se il cliente possa richiedere la documentazione bancaria per la prima volta direttamente in giudizio oppure se gravi su di lui l’onere di avanzare la richiesta prima di introdurre il giudizio e, solo nel caso di risposta mancata o incompleta, questa possa essere reiterata in giudizio.

 

Le implicazioni non sono di poco conto. Nel primo caso, infatti, il cliente potrebbe instaurare una causa nei confronti della banca anche senza produrre la relativa documentazione a supporto, e richiedendo poi, in sede istruttoria ai sensi dell’art. 210 c.p.c., che sia l’istituto convenuto a depositarla. Di conseguenza la domanda iniziale – in assenza di un quadro completo – potrebbe essere anche meramente ipotetica o fondata in buona parte su congetture.

 

Sinora la posizione della Suprema Corte si è orientata prevalentemente in questo senso. L’argomento si fonda sulla considerazione che la norma dell’art. 119, comma 4 TUB non prevede alcuna specificazione o limitazione e che, al contrario, se tale diritto esiste in generale a maggior ragione deve essere riconosciuto in giudizio (cfr. Cass. 11.05.2017 n. 11554; Cass. 8.02.2019 n. 3875; Cass. 4.12.2019 n. 31650; Cass. 30.10.2020 n. 24181). Si è data, per così dire, un’impostazione incentrata sul diritto sostanziale.

 

La pronuncia qui in esame, invece, prende le mosse da un’impostazione di diritto processuale. Se infatti – si dice – si ammette che l’attore possa introdurre il giudizio senza il relativo supporto documentale, addossandolo poi il relativo adempimento – attraverso l’istanza di esibizione ai sensi dell’art. 210 c.p.c. – sulla banca convenuta, si inverte così il riparto dell’onere probatorio stabilito dall’art. 2697 c.c. che pone in capo all’attore di dimostrare i fatti a fondamento della sua domanda.

 

Ed in quest’ottica si inserisce l’interpretazione dell’art. 210 c.p.c., che consente l’ordine di esibizione solo nei casi in cui la parte non possa, autonomamente, procurarsi i documenti di cui si chiede alla controparte o al terzo la produzione.

 

È questo un passaggio di notevole interesse, perché conferma un principio di diritto, in punto di ricerca della prova documentale, che travalica la materia settoriale del diritto bancario e si estende ad una portata generale della norma.

 

Allo stesso modo, la sentenza in esame ribadisce che ad un’eventuale carenza probatoria delle parti non può supplire il consulente tecnico di ufficio nel corso dell’espletamento delle attività peritali (sul punto ci si era già soffermati nelle Newsletter del 4.06.2021).

 

La sentenza è corposa e ben argomentata. Non resta che vedere se le sue motivazioni avranno una portata persuasiva sufficiente o se un altro collegio della Suprema Corte riterrà necessario l’intervento delle Sezioni Unite per dirimere il contrasto di orientamenti sopra illustrato.

 

a.gangemi@macchi-gangemi.com

 

 

 

Biogas e Biometano: quali novità nel Decreto Semplificazioni?

 

Il Decreto Semplificazioni (Decreto-legge n. 77/2021, convertito in Legge n. 108/2021) ha introdotto alcune modifiche in materia di produzione di biogas, che rappresenta la più rilevante tecnologia per la produzione di energia rinnovabile da parte delle aziende agricole; dal biogas, ove non destinato all’autoconsumo aziendale, si può ottenere il biometano. Il ricorso a questa tecnologia in Italia è minore rispetto ad altri paesi, soprattutto a causa dei costi elevati e del fatto che tali costi si riducono sensibilmente solo in ragione delle economie di scala, che mal si adattano alla realtà agro-zootecnica italiana, costituita da aziende di medio piccole dimensioni. Infatti, fino ad oggi questo settore ha visto l’esclusione di sinergie tra aziende ed investimenti esterni in ragione dei limiti normativi connessi alla provenienza della materia prima di alimentazione degli impianti ai fini del riconoscimento dell’incentivazione pubblica.

 

Le nuove disposizioni sono volte a semplificare per quanto possibile i processi di economia circolare relativi alle attività agricole e di allevamento ed alle filiere agroindustriali, riconoscendo espressamente la qualifica di biocarburante avanzato ai sottoprodotti utilizzati come materie prime per l’alimentazione degli impianti di biogas utilizzati al fine di produrre biometano (attraverso la purificazione del biogas).

 

Inoltre, si prevede che il procedimento di Autorizzazione Unica sia applicato anche a tutte le opere infrastrutturali necessarie all’immissione del biometano nella rete esistente di trasporto e di distribuzione del gas naturale, per le quali il provvedimento finale deve prevedere anche l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio dei beni in esso compresi, nonché la variazione degli strumenti urbanistici ai sensi di quanto previsto dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità.

 

Il Decreto Semplificazioni modifica inoltre le previsioni contenute nella legge di bilancio 2019 che recano una forma di incentivo per gli impianti di produzione di energia elettrica alimentati a biogas, con potenza elettrica non superiore a 300 kW e facenti parte del ciclo produttivo di una impresa agricola o di allevamento. In particolare, viene riconosciuta la possibilità di accesso agli incentivi, secondo le procedure, le modalità e le tariffe del D.M. 23/06/2016, a “gli impianti di produzione di energia elettrica alimentati a biogas, con potenza elettrica non superiore a 300 kW e facenti parte del ciclo produttivo di una impresa agricola, di allevamento, realizzati da imprenditori agricoli anche in forma consortile e la cui alimentazione deriva per almeno l’80 per cento da reflui e materie derivanti dalle aziende agricole realizzatrici e per il restante 20 per cento da loro colture di secondo raccolto“.

 

L’articolo in esame modifica in particolare, e significativamente, le condizioni di accesso agli incentivi anzidetti, specificando che le materie prime devono derivare “prevalentemente” (e quindi superando il principio di esclusività precedente) dalle aziende agricole realizzatrici “nel rispetto del principio di connessione ai sensi dell’articolo 2135 del codice civile”.

 

Il terzo comma dell’articolo 2135 del codice civile (regolante l’impresa agricola) definisce “connesse” all’attività agricola le attività esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità, come definite dalla legge.

 

Questa misura è di particolare rilevanza in quanto dovrebbe consentire lo sviluppo di sinergie territoriali, anche tra aziende vicine, e stimolare investimenti nel settore, valorizzando reflui e sottoprodotti che possono essere utilizzati per produrre energia rinnovabile.
m.patrignani@macchi-gangemi.com
m.peretti@macchi-gangemi.com

 

 

 

Il Consulente Tecnico d’Ufficio pigro, incapace o non imparziale può essere sostituito?

 

Il giudice può farsi assistere da uno o più consulenti “di particolare competenza tecnica” per il compimento dei singoli atti o per tutto il processo (art. 61 c.p.c.); un simile affiancamento è necessario al magistrato quando il thema decidendum travalica le mere questioni giuridiche e si richiede la risoluzione di specifiche questioni tecniche.

 

Una volta disposta la Consulenza Tecnica d’Ufficio, da ultimarsi entro un certo termine, l’indagine può comunque subire dei rallentamenti per fattori estranei alla volontà del perito (es. particolare complessità del quesito) o per l’incapacità del consulente di ultimare l’incarico affidato.

 

Purtroppo, i casi nella pratica non mancano: capita che il Consulente Tecnico d’Ufficio tardi senza ragioni ad avviare le operazioni peritali o che non comprenda affatto le questioni tecniche poste dal giudice; talvolta, il perito del tribunale è così sommerso di lavoro che, sebbene siano terminate le indagini nel contraddittorio di avvocati e consulenti di parte, passano poi mesi (nell’esperienza di chi scrive, anche anni) prima che l’elaborato venga depositato in cancelleria; altre volte ancora, la perizia non viene semplicemente ultimata.

 

Se la consulenza tecnica d’ufficio viene disposta nel corso di un giudizio ordinario di cognizione, di norma l’orizzonte temporale per il deposito dell’elaborato è scandito dall’udienza fissata per il suo esame, perciò in tale contesto il CTU è in qualche misura obbligato a rispettare i tempi del processo; il vero problema si pone invece nell’ambito dell’Accertamento Tecnico Preventivo (art. 696 e 696bis c.p.c.) dove il procedimento termina con il deposito in cancelleria della relazione peritale e, salve eccezioni o istanze di parte, non sono contemplate udienze innanzi al giudice per l’esame e/o valutazione dei risultati della perizia.

 

Cosa fare allora in caso di gravi ritardi nel deposito della relazione tecnica da parte del CTU?

 

Ebbene, posto che il giudice ha sempre la facoltà di disporre la rinnovazione delle indagini e, per gravi motivi, ha il potere di procedere con la sostituzione del consulente tecnico qualora ne ravvisi l’utilità (art. 196 c.p.c.), alla parte interessata non resta che interpellare il magistrato affinché convochi il CTU a chiarimenti anche al fine di valutare l’opportunità di sostituirlo con un altro perito.

 

Del tutto distinto è invece l’istituto dalla ricusazione del Consulente d’Ufficio che la parte può invocare allorché ritenga che il perito abbia un interesse nella causa e non possa svolgere l’incarico con l’imparzialità richiesta: in tale caso occorre proporre domanda di ricusazione al giudice “… almeno tre giorni prima dell’udienza di comparizione …” (art. 192 c.p.c.); va detto che il termine di tre giorni previsto dall’art. 192 c.p.c. è perentorio (Trib. Crotone 20.04.2021; sulla ricusazione del CTU per incompatibilità v. Cass. Civ. Sez. VI-3, 20.10.2015 n. 21220; Cass. Civ. Sez. Lav. 06/06/2014, n. 12822; Cass. Civi. Sez. Lav. 25.05.2009. n. 12004).

 

Resta il dubbio di come agire qualora la condotta partigiana ed interessata del consulente d’ufficio si palesi nel corso delle operazioni peritali ovvero ben oltre i tre giorni che precedono l’udienza di comparizione per il giuramento; per la Suprema Corte, in tale evenienza l’unico rimedio esperibile torna ad essere il potere sostitutivo del giudice sancito dall’art. 196 c.p.c. (v. Cass. Civ. Sez. II, 19.11.2020, n. 26358).

 

In sintesi, se ricorrono i presupposti, è sempre possibile chiedere la sostituzione di un CTU pigro, incapace o non imparziale.

 

e.storari@macchi-gangemi.com
m.montanari@macchi-gangemi.com

 

 

 

L’IVA si applica agli accordi transattivi? La risposta dell’Agenzia delle Entrate.

 

Da quando l’IVA è stata istituita ci si è chiesti se possano rientrare nel concetto di prestazioni di servizi gli obblighi di vario genere previsti nelle transazioni. La risposta recentemente fornita dall’Agenzia delle Entrate al quesito in oggetto è SI. È noto a tutti che negli ultimi tempi si sono moltiplicate le risposte a interpello dell’Agenzia delle Entrate (cfr. n. 145, 179, 212, 356 e 401, tutte del 2021) nelle quali si è consolidato l’orientamento secondo cui i pagamenti posti in essere nel contesto di una transazione e correlati (anche) alle rinunce alla lite (in essere o minacciata) e a ogni altra pretesa costituiscono – in ogni caso – il corrispettivo di una obbligazione di fare (o non fare) ai sensi e per gli effetti dell’art. 3 del d.P.R. n. 633 del 1972.

 

In particolare, l’orientamento che si va formando tende a considerare in re ipsa gli obblighi assunti dalle parti in un contratto di transazione come delle prestazioni di servizi a favore delle controparti. La prestazione consisterebbe, di regola, nell’assunzione di un obbligo di fare o di non fare; più precisamente nell’impegno a non proseguire azioni contenziose già iniziate per ottenere giudizialmente il riconoscimento di diritti che si ritengono violati o, comunque, a non iniziare tali azioni o a rinunciarvi. Il “fare” o il “non fare” consisterebbe, in altri termini, nell’accettazione delle concessioni della controparte.

 

Tale posizione trova fondamento nel disposto dell’articolo 3, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972 il quale stabilisce che costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte, nonché in quella giurisprudenza comunitaria e nazionale che ha precisato che una prestazione è imponibile quando tra il prestatore e il destinatario intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni (anche) quando la stessa si risolva in un semplice non fare o in un permettere purché nell’ambito di un rapporto sinallagmatico (Causa C-463/14 e Cassazione n. 20233/2018).

 

Tale orientamento è stato fortemente criticato in dottrina, soprattutto per la “assolutezza” delle sue conclusioni. In linea di principio, infatti, rapporti giuridici modificati o creati con il contratto di transazione (articolo 1965 del codice civile) possono avere la natura più varia ed è proprio per questo che si rende necessaria una valutazione “caso per caso” della natura della prestazione resa (ad esempio corrispettivo per un servizio reso o mero risarcimento del danno). Non è mancato chi ha enfatizzato la natura di imposta di consumo dell’IVA valorizzando il concetto di “consumo” nell’accezione del sistema comunitario dell’IVA, o chi, ad esempio, ha concentrato la sua analisi distinguendo gli effetti fiscali in relazione alle ipotesi di transazione semplice e novativa.

 

In questo panorama così variegato è poi recentemente intervenuta la Corte di Cassazione con una ordinanza, che, seppure in materia di imposte sui redditi, assume notevole importanza, ponendosi anch’essa in una posizione contrastante con la prassi dell’Agenzia. Si tratta dell’ordinanza n. 20316 del 15 luglio 2021 con cui la Corte ha escluso che le somme pagate sulla base di una transazione per la rinuncia ad una pretesa giudiziale siano configurabili come corrispettivi per l’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere e siano quindi assoggettabili ad Irpef come redditi diversi.

 

È lecito auspicare che la posizione della Cassazione in questa materia non venga disattesa.

 

 

g.sforzini@macchi-gangemi.com

 

 

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