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COSA SONO LE SANZIONI ALLA RUSSIA?

 

L’Unione Europea ha adottato nel periodo tra il 23 febbraio e il 1 marzo 2022 un pacchetto di misure restrittive in relazione all’attacco all’integrità territoriale e alla sovranità ed indipendenza dell’Ucraina. Queste misure sono state attuate principalmente attraverso la modifica del regolamento (CE) n. 269/2014 (concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina) e la modifica del Regolamento (CE) n. 833/2014 (concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina).

 

In particolare, l’art. 2 del Regolamento (CE) n.269/2014 dispone, da un lato, il congelamento di tutti i fondi e delle risorse economiche appartenenti a, posseduti, detenuti o controllati, da qualsiasi persona fisica o giuridica, entità o organismo, o da qualsiasi delle persone fisiche o giuridiche, delle entità o degli organismi a essa associati elencati nell’allegato I a detto regolamento e, dall’altro, il divieto di mettere, direttamente o indirettamente, fondi o risorse economiche a disposizione dei soggetti inclusi nell’elenco di cui all’allegato I a detto regolamento, o destinarli a loro vantaggio. In concreto, ad esempio, tale divieto non impedisce agli enti finanziari o creditizi l’accredito sui conti congelati di fondi trasferiti da terzi verso i conti di una persona fisica o giuridica, di un’entità o di un organismo che figura nell’elenco, purché tali versamenti siano anch’essi congelati ed impone all’ente finanziario o creditizio di informare senza indugio l’autorità competente in merito a tali transazioni.

 

Inoltre, il Regolamento (CE) n. 833/2014 stabilisce, tra l’altro,

 

– il divieto di vendita, fornitura, esportazione (anche indiretta) di beni e tecnologie a duplice uso, anche non originari dell’Unione, a qualsiasi persona fisica o giuridica, entità od organismo in Russia, o per un uso in Russia, se i prodotti in questione sono o possono essere destinati, in tutto o in parte, a un uso militare ovvero a un utilizzatore finale militare. Il divieto include, tra l’altro anche l’assistenza tecnica, servizi di intermediazione, il divieto di fornire, direttamente o indirettamente, finanziamenti o assistenza finanziaria in relazione ai beni e alle tecnologie vietati;

 

– il divieto di acquisto, la vendita, la prestazione di servizi d’investimento e l’assistenza all’emissione, diretti o indiretti, o qualunque altra negoziazione su valori mobiliari e strumenti del mercato monetario dagli enti specificamente indicati in un allegato al Regolamento o sotto il controllo o influenza di tali enti o relativi a una persona giuridica, un’entità o un organismo stabiliti in Russia prevalentemente impegnati e con importanti attività nell’ideazione, produzione, vendita o esportazione di materiale o servizi militari;

 

– il divieto a qualsiasi aeromobile operato da vettori russi, a qualsiasi aeromobile immatricolato in Russia ovvero a qualsiasi aeromobile non immatricolato in Russia ma posseduto, noleggiato o altrimenti controllato da persona fisica o giuridica, entità o organismo russi, di atterrare nel territorio dell’Unione Europea, di decollare dal territorio dell’Unione Europea o di sorvolare il territorio dell’Unione Europea, salvo situazioni di emergenza.

 

In Italia la base normativa per l’adozione di misure restrittive è costituita dal D.lgs. n.109/2007 (“Misure per prevenire, contrastare e reprimere il finanziamento del terrorismo e l’attività dei Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale, in attuazione della direttiva 2005/60/CE”).

 

Ai sensi dell’art.2 di detto decreto sono individuate le “misure per prevenire l’uso del sistema finanziario a scopo di finanziamento del terrorismo e del finanziamento della proliferazione delle armi di distruzione di massa e per attuare il congelamento dei fondi e delle risorse economiche per il contrasto del finanziamento del terrorismo, del finanziamento della proliferazione e dell’attività di Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale disposte in base alle risoluzioni delle Nazioni unite, alle deliberazioni dell’Unione europea e a livello nazionale dal Ministro dell’economia e delle finanze”.

 

Si tratta sostanzialmente delle misure restrittive di congelamento dei fondi e di congelamento delle risorse economiche detenute da persone fisiche e giuridiche, gruppi ed entità individuate dalle Nazioni Unite, dall’Unione Europea e dal Ministro dell’Economia e delle finanze e di un apparato sanzionatorio in caso di violazioni.

 

Il d.lgs. n. 109/2007 si preoccupa di fornire, in linea con il Regolamento (CE) 269/2007, la definizione (ampissima) di “fondi”: si intendono le attività ed utilità finanziarie di qualsiasi natura, possedute anche per interposta persona fisica o giuridica, compresi a titolo meramente esemplificativo: 1) i contanti, gli assegni, i crediti pecuniari, le cambiali, gli ordini di pagamento e altri strumenti di pagamento; 2) i depositi presso enti finanziari o altri soggetti, i saldi sui conti, i crediti e le obbligazioni di qualsiasi natura; 3) i titoli negoziabili a livello pubblico e privato nonché gli strumenti finanziari; 4) gli interessi, i dividendi o altri redditi ed incrementi di valore generati dalle attività; 5) il credito, il diritto di compensazione, le garanzie di qualsiasi tipo, le cauzioni e gli altri impegni finanziari; 6) le lettere di credito, le polizze di carico e gli altri titoli rappresentativi di merci; 7) i documenti da cui risulti una partecipazione in fondi o risorse finanziarie; 8) tutti gli altri strumenti di finanziamento delle esportazioni; 9) le polizze assicurative concernenti i rami vita.

 

Molto ampia è anche la definizione di “risorse economiche” per il d.lgs. 109/2007: sono le attività di qualsiasi tipo, materiali o immateriali e i beni, mobili o immobili, ivi compresi gli accessori, le pertinenze e i frutti, che non sono fondi ma che possono essere utilizzate per ottenere fondi, beni o servizi, possedute, detenute o controllate, anche parzialmente, direttamente o indirettamente, ovvero per interposta persona fisica o giuridica, da parte di soggetti designati, ovvero da parte di persone fisiche o giuridiche che agiscono per conto o sotto la direzione di questi ultimi.

 

Per “soggetti designati” si intendono le persone fisiche, le persone giuridiche, i gruppi e le entità designati come destinatari del congelamento sulla base dei regolamenti comunitari e della normativa nazionale.

 

Il congelamento di fondi consiste nel divieto, in virtù dei regolamenti comunitari e della normativa nazionale, di movimentazione, trasferimento, modifica, utilizzo o gestione dei fondi o di accesso ad essi, così da modificarne il volume, l’importo, la collocazione, la proprietà, il possesso, la natura, la destinazione o qualsiasi altro cambiamento che consente l’uso dei fondi, compresa la gestione di portafoglio;

 

Il congelamento di risorse economiche consiste nel divieto, in virtù dei regolamenti comunitari e della normativa nazionale, di trasferimento, disposizione o, al fine di ottenere in qualsiasi modo fondi, beni o servizi, utilizzo delle risorse economiche, compresi, a titolo meramente esemplificativo, la vendita, la locazione, l’affitto o la costituzione di diritti reali di garanzia.

 

Quindi, i fondi e le risorse economiche sottoposti a congelamento non possono costituire oggetto di alcun atto di trasferimento, disposizione o utilizzo e gli eventuali atti posti in essere in violazione dei divieti sono affetti da nullità. È altresì vietata la partecipazione consapevole e deliberata ad attività aventi l’obiettivo o il risultato, diretto o indiretto, di aggirare le misure di congelamento.

 

Il congelamento di fondi e risorse economiche è efficace dalla data di entrata in vigore dei regolamenti comunitari ovvero dal giorno successivo alla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana dei decreti del MEF.

 

Ad attuare nel concreto il congelamento sono, tra gli altri, i soggetti obbligati ai sensi del decreto legislativo n. 231/2007 (si tratta quindi di quei soggetti già impegnati a segnalare le operazioni sospette a fini antiriciclaggio, quindi un lungo elenco che va dagli intermediari finanziari e assicurativi ai notai, avvocati e commercialisti etc.) che devono comunicare alla UIF, le misure applicate ai sensi del presente decreto, indicando i soggetti coinvolti, l’ammontare e la natura dei fondi o delle risorse economiche. La UIF cura il controllo dell’attuazione delle sanzioni finanziarie a carico dei soggetti designati. Per il congelamento delle risorse economiche la comunicazione va fatta anche alla Guardia di Finanza.

 

Dunque, in caso di operazioni cui prendono parte nominativi destinatari delle misure di congelamento, anche per interposta persona, occorre segnalare l’operazione alla UIF. Infine, giova ricordare che gli obblighi di comunicazione di cui al d.lgs. n.109/2007 sono autonomi rispetto a quelli delle segnalazioni ai fini di riciclaggio.

 

 

s.dellatti@macchi-gangemi.com

 

 

 

IL DEBITORE PUÒ ESSERE DICHIARATO FALLITO SENZA PRIMA RISOLVERE IL CONCORDATO CUI ERA STATO AMMESSO? LE SEZIONI UNITE FANNO CHIAREZZA.

 

Le Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, con sentenza pubblicata il 14 febbraio 2022 n. 4696, chiamate a pronunciarsi su una questione lungamente dibattuta e di particolare importanza, hanno confermato l’indirizzo giurisprudenziale, criticato da autorevole dottrina, secondo cui, nella disciplina della legge fallimentare risultante dalle modificazioni apportate dal d.lgs. n. 5 del 2006 e dal d.lgs. n. 169 del 2007, il debitore ammesso al concordato preventivo omologato, che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari, può essere dichiarato fallito, su istanza dei creditori, del PM o sua propria, anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione del concordato ex art. 186 L. Fall..

 

Con sentenza n. 4696 del 14 febbraio 2022, le Sezioni Unite Civili della Cassazione hanno accolto il ricorso della curatela fallimentare avverso la sentenza n. 394/2016 con la quale la Corte di Appello di Campobasso, in accoglimento del reclamo proposto ex art. 18 L. Fall. dalla società debitrice – già ammessa a procedura di concordato preventivo in continuità aziendale, omologato nel 2013 – aveva revocato la sentenza n. 12/2016 con cui il Tribunale di Campobasso ne aveva dichiarato, su istanza del Pubblico Ministero, il fallimento.

 

Il Tribunale aveva considerato la società incapace di far fronte alle obbligazioni assunte con il concordato preventivo omologato, dichiarandola fallita. Decisione, ad avviso della Corte d’Appello, adottata senza porsi il problema della necessità di risolvere prima il concordato in esecuzione come previsto dall’art. 186 L. Fall., che prevede, tra l’altro, che “ciascuno dei creditori può richiedere la risoluzione del concordato per inadempimento” e che “Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal concordato”.

 

Investite dalla Prima Sezione sulla “questione dell’ammissibilità dell’istanza di fallimento ex artt. 6 e 7 L.F. nei confronti di impresa già ammessa al concordato preventivo, poi omologato, a prescindere dall’intervenuta risoluzione del concordato, quale questione di massima importanza”, le Sezioni Unite affermano il principio di diritto secondo cui “nella disciplina della legge fallimentare risultante dalle modificazioni apportate dal D.lgs. n. 5/2006 e dal D.lgs. n. 169/2007, il debitore ammesso al concordato preventivo omologato che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari può essere dichiarato fallito, su istanza dei creditori, del PM o sua propria, anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione del concordato ex art. 186 L. Fall”.

 

Non viene, dunque, disatteso l’indirizzo interpretativo espresso dalla Corte di Cassazione con le sentenze nn. 17703/2017, 29632/2017 e 12085/2020, in tema di fallimento dichiarabile anche in assenza dell’avvenuta risoluzione del concordato. Indirizzo, si ricorda, non condiviso da una parte autorevole della dottrina, secondo cui la possibilità di fallimento omisso medio troverebbe invece ostacolo, tra le altre, nella specialità della disciplina concordataria (segnatamente dell’art. 186 L. Fall.) rispetto alla regola generale ex art. 6 L. Fall. e nel fatto che, poiché l’effetto esdebitatorio del concordato omologato elimina l’insolvenza e determina il ritorno in bonis del debitore, allora quella insolvenza non può dar luogo ad un fallimento successivo se non dopo che, nei modi della risoluzione dell’1rt. 186 L. Fall., l’effetto sia stato eliminato.

 

Nella loro argomentazione le Sezioni Unite affermano, di contro, che è la stessa disciplina della L. Fall., così come modificata dal D. Lgs. n. 5/2006 e dal D. Lgs. n. 169/2007, a prevedere il principio per cui laddove il debitore non sia riuscito a realizzare ricavi sufficienti per eseguire il piano in continuità aziendale, o qualora la liquidazione degli assets aziendali non abbia consentito il raggiungimento della percentuali di soddisfacimento assicurate, l’inadempimento del patto concordatario è soggetto alle comuni regole in tema di responsabilità e, pertanto, legittima i creditori ad agire nei confronti del proprio debitore, potendo anche chiederne il fallimento omisso medio.

 

La sentenza è particolarmente interessante perché, nelle motivazioni, le Sezioni Unite ripercorrono ciascuna delle suggestive argomentazioni elaborate dalla dottrina, secondo cui la fallibilità sarebbe preclusa senza la previa risoluzione del concordato: ogni tesi viene illustrata in dettaglio e poi confutata o con riferimento agli assunti di partenza (ad esempio la presunta “specialità” dell’art. 186 L. Fall. rispetto alle norme che presiedono agli istituti della fallibilità), o in relazione alle conclusioni che la dottrina ne ha tratte (la sentenza della Corte Costituzionale n. 106/2004 non consente, secondo la Cassazione, di trarre alcuna conclusione di segno contrario a quella della possibilità del fallimento omisso medio). La tesi del “fallimento senza risoluzione” ne esce molto rafforzata e ancor più persuasiva di quanto già fosse.

 

Al di là dell’avvicendarsi delle riforme, la Cassazione sottolinea che il tema centrale è rappresentato dalla regola generale della fallibilità dell’imprenditore commerciale insolvente: ebbene, quando risulti – anche senza necessità di accertamento giudiziale dei presupposti della risoluzione – che il concordato omologato non è attuabile perché il debitore non lo può adempiere, ed anzi si trova in una situazione in tutto assimilabile a quella dell’insolvenza, debbono riprendere forza nella loro interezza le ragioni di tutela pubblicistica proprie del fallimento.

 

Peraltro, ricorda la Cassazione, lo stato di insolvenza eventualmente radicato e riscontrabile nell’inadempimento di uno o più contratti, in via generale, determina il fallimento senza mai richiedere né presupporre che quei contratti vengano prima formalmente risolti.

 

Quanto ai rapporti tra le due procedure, se è vero che con l’omologazione lo stato di insolvenza viene “definitivamente e irrevocabilmente assegnato alla ristrutturazione debitoria concordata”, questo non significa che la dichiarazione di fallimento debba essere preclusa ogni volta che le modalità satisfattive previste nella proposta di concordato risultino (attenzione: non in pendenza della procedura di concordato ma nella fase di adempimento dell’accordo raggiunto) non attuabili, cosa che attesta lo stato di insolvenza pur dopo la vicenda concordataria. La conseguenza è che l’inadempimento dell’accordo configura un “fatto sopravvenuto” (che si aggiunge ai casi di risoluzione e annullamento) in presenza del quale la presentazione dell’istanza di fallimento deve essere considerata ammissibile.

 

In definitiva, “l’avvenuta omologazione, la chiusura della procedura concordataria e l’accesso del debitore alla fase esecutiva dell’accordo comportano comunque l’applicazione dei principi generali di responsabilità, compresa, se dalla mancata esecuzione dell’accordo si debbano trarre elementi di insolvenza, la dichiarazione di fallimento”.

 

Le Sezioni Unite si sono peraltro chieste se sia attribuibile una valenza interpretativa, ai fini della decisione, all’art. 119 del Codice della Crisi. La norma, sebbene non ancora in vigore, prevede che il Tribunale possa dichiarare aperta la liquidazione giudiziale (salvo che lo stato di insolvenza non sia la conseguenza di debiti sorti dopo il deposito della domanda di apertura del concordato preventivo) solo a seguito della risoluzione del concordato. Le Sezioni Unite hanno negato che il citato art. 119 possa avere un’influenza nella questione su cui sono state chiamate ad esprimersi, sulla base del principio per cui, per avere un’utilità interpretativa, la norma del Codice della Crisi e quella del corpus normativo vigente debbono avere un ambito di continuità che, sul tema in discussione, la Cassazione ha negato vi sia. Uno dei punti di discontinuità tra i due regimi normativi riguarda, ad esempio, il differente ruolo del commissario, che nella nuova disciplina della risoluzione del concordato è legittimato a chiederla, assieme ai creditori, seppure su istanza di uno o più creditori. Nell’assetto vigente della fase esecutiva del concordato, invece, il commissario non ha alcuna legittimazione all’azione, ma è investito solo di funzioni di vigilanza e segnalazione. Nel Codice della Crisi, l’innovazione segna una discontinuità che è stata ritenuta necessaria per imprimere una svolta ad uno stato di cose –nel quale la risoluzione ex art. 186 L. Fall. viene dai creditori percepita come rimedio giudiziale inutilmente defatigante e dispendioso in un quadro di già conclamata insoddisfazione – caratterizzato dalla presenza di un numero elevatissimo di concordati dormienti; cioè di “procedure concordatarie che si prolungano per anni ineseguite i quanto i creditori spesso scoraggiati dall’andamento della procedura e preoccupati dei costi per l’avvio di un procedimento giudiziale, non si vogliono assumere l’onere di chiedere giudizialmente la risoluzione”.

 

 

s.rossi@macchi-gangemi.com
g.bonfante@macchi-gangemi.com

 

 

 

LE SEZIONI UNITE CON LA SENTENZA N. 41994/2021 CONFERMANO LA TUTELA DIRETTA DEL CONTRAENTE A VALLE DI UN’INTESA ANTICONCORRENZIALE DICHIARATA NULLA DALL’AGCM.

 

La recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 41994 del 30.12.2021 ha composto un contrasto in giurisprudenza in merito alla validità delle fideiussioni omnibus a garanzia di operazioni bancarie, emesse sulla base dello schema standard predisposto nel 2002 dall’Associazione Banche Italiane (ABI) che contiene alcune clausole la cui contrarietà al diritto della concorrenza è stata accertata nel 2005 dalla Banca d’Italia quale Autorità Antitrust.

 

Tale pronuncia desta particolare interesse in quanto i principi da essa sanciti non sono applicabili soltanto alle fideiussioni conformi allo schema ABI, ma in generale a tutti i contratti stipulati a valle di intese tra imprese dichiarate nulle dall’AGCM per contrarietà alla normativa antitrust.

 

Com’è noto, la Legge Antitrust (L. 287/1990, art. 2) vieta le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante. La stessa legge precisa che “Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”.

 

Analoga disposizione è presente anche nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (art. 101) per il mercato europeo.

 

Spetta all’AGCM accertare e sanzionare gli illeciti antitrust, con controllo giurisdizionale dei relativi provvedimenti da parte del giudice amministrativo. È altresì prevista una tutela civilistica, autonoma e concorrente rispetto alle funzioni esercitate dall’AGCM, consistente nell’azione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale e nell’azione risarcitoria da promuovere dinanzi alla sezione specializzata in materia di impresa competente per territorio (art. 33, co. 2 Legge Antitrust), in precedenza dinanzi alla Corte d’Appello.

 

Il provvedimento di accertamento dell’illecito antitrust dell’AGCM, laddove divenuto definitivo, ha efficacia vincolante nel giudizio civile risarcitorio (art. 7 del D.lgs. 3/2017).

 

Nel corso degli anni la giurisprudenza non ha fornito soluzioni univoche in merito agli effetti che la nullità di un’intesa tra imprese per violazione della normativa antitrust produce sui contratti stipulati a valle di tale intesa e in relazione alle tutele a disposizione dei soggetti che hanno sottoscritto tali contratti.

 

Dopo un primo orientamento della Corte di Cassazione (Cass. Civ. 09.12.2002, n. 17475) con cui si negava la legittimazione attiva del consumatore a proporre l’azione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale e l’azione risarcitoria previste dall’art. 33 della Legge Antitrust, nel 2005 le Sezioni Unite (Cass. Civ. SSUU 04.02.2005, n. 2207), chiamate a pronunciarsi sulla questione riguardante l’individuazione del giudice competente in ordine all’azione di restituzione del maggior premio versato per una polizza RCA stipulata in conformità delle condizioni stabilite dal cd. cartello delle compagnie assicuratrici, affermavano la spettanza della controversia alla corte d’appello (ai tempi competente ai sensi dell’art. 33 della Legge Antitrust) e, a differenza del precedente caso, riconoscevano anche al consumatore la legittimazione a proporre l’azione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale e l’azione di risarcimento ex art. 33 Legge Antitrust. Non chiariva, però, se il privato potesse anche proporre azione di nullità del contratto a valle stipulato tra lo stesso e la compagnia di assicurazione.

 

Con l’emissione, nel medesimo anno, del sopracitato provvedimento della Banca d’Italia e con il conseguente proliferare delle azioni di nullità promosse dai fideiussori che avevano prestato garanzia mediante contratti redatti in conformità allo schema ABI, le Sezioni Unite venivano nuovamente chiamate a chiarire se la coincidenza totale o parziale con siffatto schema giustificava la dichiarazione di nullità della fideiussione o legittimava esclusivamente l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno e, nel primo caso, se si trattava di nullità totale oppure parziale della fideiussione.

 

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 41994 del 30.12.2021, hanno definitivamente chiarito che “Sono parzialmente nulli i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate in parte nulle dall’Authority perché in contrasto con le norme antitrust interne e dell’Unione europea. Trattasi di nullità limitata alle singole clausole che riproducono lo schema unilaterale che costituisce l’intesa vietata, salvo che dal contratto sia possibile desumere, o sia altrimenti provata, una diversa volontà delle parti”.

 

Questa decisione, oltre ad avere un notevole impatto sulle molte fideiussioni conformi allo Schema ABI, sancisce importanti principi applicabili in tutte le ipotesi di contratti stipulati a valle di intese restrittive della concorrenza, offrendo così una tutela diretta, quale azione di nullità e risarcimento del danno, a tutti quei soggetti che, pur non essendo operatori del mercato di riferimento, subiscono le conseguenze negative dell’intesa illecita.

 

Sulla base di questi principi, è pertanto possibile aspettarsi che aumentino i contenziosi promossi dai contraenti a valle in caso di accertamento di cartelli restrittivi della concorrenza.

 

 

s.lazzeretti@macchi-gangemi.com
s.mavelli@macchi-gangemi.com

 

 

 

PER LA CASSAZIONE E’ BENEFICIARIO EFFETTIVO LA CONTROLLATA UE CHE RICEVE INTERESSI ESENTI DA RITENUTA DALLA CONTROLLANTE ITALIANA E LI RIPAGA INTEGRALMENTE IN ESENZIONE A INVESTITORI EXTRA UE.

 

Una buona notizia dalla Cassazione in merito alle ritenute sui pagamenti effettuati da società italiane a consociate residenti nell’Unione Europea in esenzione da ritenuta in base alle direttive comunitarie e da queste riversati a soggetti extra UE.

 

Nella recente ordinanza n. 3380 del 3 febbraio scorso la Corte di Cassazione si è pronunciata in senso favorevole al contribuente in relazione al requisito del beneficiario effettivo previsto dalla direttiva interessi e royalties e al tema dell’abuso della direttiva già oggetto della sentenza nei Casi Danesi della Corte di Giustizia del 2019.

 

Un’importante società editrice italiana aveva fatto ricorso alle risorse di investitori statunitensi attraverso un finanziamento obbligazionario emesso da una società lussemburghese, sua controllata al 99%. La società lussemburghese a sua volta finanziava la controllante italiana a condizioni e termini equivalenti a quelli previsti nel prestito obbligazionario, senza trattenere alcun mark-up. Nessuna ritenuta era applicata né sugli interessi pagati dalla società italiana alla controllata lussemburghese in applicazione della direttiva interessi e royalties, né sugli interessi pagati da quest’ultima agli investitori statunitensi, in applicazione del trattato tra Lussemburgo e Stati Uniti.

 

Al momento dell’emissione del prestito obbligazionario lo statuto della società italiana (che è stato cambiato poco dopo) non consentiva l’emissione di prestiti obbligazionari. Qualora il prestito obbligazionario fosse stato emesso dalla società italiana gli interessi sarebbero stati soggetti alla ritenuta del 12,5%, eventualmente ridotta al 10% in applicazione del trattato tra Italia e Stati Uniti.

 

La Commissione Tributaria Regionale si era pronunciata a favore dell’Agenzia delle Entrate che contestava la natura di beneficiario effettivo in capo alla controllata lussemburghese, dal momento che questa non traeva alcuna utilità economica dall’operazione, poiché girava immediatamente e integralmente agli investitori americani gli interessi percepiti dalla società italiana. La Cassazione, invece, ha ritenuto che l’applicazione dell’esenzione da ritenuta prevista dall’art. 26-quater del d.p.R. 600/73 (attuativo della direttiva interessi e royalties) fosse legittima dal momento che la controllata lussemburghese era da considerarsi beneficiario effettivo degli interessi percepiti e immediatamente riversati ai sottoscrittori delle obbligazioni.

 

Secondo la Cassazione la circostanza che la società non ottenesse alcun beneficio economico dall’operazione (non trattenendo nessun mark-up) non era di per sé ostativa al riconoscimento della qualifica di beneficiario effettivo. Ciò che conta è, invece, l’esistenza di “autonomia imprenditoriale e responsabilità patrimoniale in capo alla società lussemburghese” dovuta all’assenza di limiti o condizionamenti che prevedano il trasferimento agli Stati Uniti di quanto percepito dall’Italia.

 

La sentenza esamina la fattispecie anche alla luce degli indizi di abuso evidenziati dalla Corte di Giustizia nei Casi Danesi. La conclusione, favorevole al contribuente, si basa sulle seguenti circostanze:

 

– la società lussemburghese esiste da più di cinquant’anni, ha una sua struttura operativa reale e “ha per oggetto sociale proprio la tenuta e compravendita di partecipazioni in società editrici” (nel caso di specie, tuttavia, finanziava la propria controllante);

– ha prodotto utili per oltre otto milioni di Euro nell’anno di imposta di cui si tratta;

– ha emesso il prestito obbligazionario sei mesi prima della società italiana quando questa non poteva farlo;

– gli interessi percepiti dalla controllante italiana sono stati iscritti nel bilancio della lussemburghese ed hanno concorso a formare il suo reddito (la sentenza nulla dice sulla circostanza che anche gli interessi passivi di identico importo dovuti ai sottoscrittori saranno stati dedotti);

– la società lussemburghese ha effettiva disponibilità delle somme, in assenza di obblighi contrattualmente fissati di diretto (ri)trasferimento;

– la società lussemburghese ha emesso titoli obbligazionari propri, scontandone la relativa disciplina, ponendo il proprio patrimonio a garanzia degli investitori americani.

 

La sentenza della Cassazione in commento si pone in linea con altri pronunciamenti a favore dei contribuenti in relazione agli interessi (Cass. 14756/2020 in un caso di interessi pagati alla controllante lussemburghese e da questa ripagati alla capogruppo extra UE trattenendo un mark-up) ma anche ai dividendi (Cass. 25490/2019).

 

Nella sentenza 3380/2022 c’è anche un’ulteriore affermazione del principio (già espresso nelle note sentenze 28 dicembre 2016, nn. 27112, 27113, 27115 e 27116) per cui la struttura e la sostanza di una holding devono essere valutate tenendo conto della specificità di questo tipo di società: “in caso di holding o subholding “pura”, quindi, non può farsi riferimento agli elementi caratteristici della società operativa, dando rilievo ai modesti crediti operativi, alla mancanza di dipendenti e di una struttura organizzativa adeguata, dovendosi, invece, apprezzare l’autonomia organizzativa e gestionale della società. Inoltre, la relazione di controllo tra capogruppo ed holding, o sub-holding, avente ad oggetto la pura detenzione di partecipazioni geografiche non esclude di per sé che quest’ultima sia dotata di autonomia organizzativa e gestionale”.

 

La sentenza in commento ha, inoltre, il pregio di aver espressamente affermato che in caso di pagamenti a cascata che coinvolgano una holding residente all’interno dell’Unione Europea l’assenza della qualità di beneficiario effettivo e la sussistenza dell’abuso non può essere automaticamente dedotta dall’assenza di benefici economici ottenuti dalla holding medesima e nemmeno dalla circostanza che i redditi percepiti vengano immediatamente rigirati ad un soggetto extra-UE.

 

Questa sentenza rappresenta, quindi, un parziale superamento dei Casi Danesi che avevano ritenuto costituire indici di abuso sia la circostanza che i flussi fossero ritrasferiti a un soggetto extra-UE “entro un lasso di tempo molto breve successivo al loro percepimento” sia la circostanza che dalla operazione una società ottenesse “un utile imponibile insignificante” e costituisce un precedente importante da utilizzare anche in relazione agli accertamenti sulle distribuzioni di dividendi a favore di controllanti intermedie UE che a loro volta ritrasferiscono i flussi alle capogruppo extra-UE.

 

 

b.pizzoni@macchi-gangemi.com

 

 

 

IL PIANO ISPETTIVO DEL GARANTE PRIVACY PER IL PRIMO SEMESTRE 2022.

 

Il Garante per la protezione dei dati personali (“Garante Privacy”), come da consuetudine, ha pubblicato i settori che saranno oggetto di attività ispettiva per il primo semestre di quest’anno.

 

Nello specifico, gli operatori economici che svolgono attività relativa a:

(i) smart toys
(ii) cookie
(iii) app che richiedono un elevato numero di dati personali
(iv) siti di incontri
(v) monetizzazione dei dati
(vi) videosorveglianza
(vii) database

saranno oggetto, con rilevante probabilità, di attività di verifica da parte del Garante privacy.

 

I settori oggetto di verifica, con esclusione dei siti di incontri e smart toys, possono riguardare una ingente quantità di operatori economici italiani, in particolare operatori di medie e grandi dimensioni.

 

Particolare attenzione, presumibilmente, sarà rivolta dal Garante Privacy alla verifica della corretta implementazione, da parte degli operatori economici, delle recenti linee guida in materia di cookie.

 

L’attività del Garante Privacy, come sempre, sarà svolta unitamente dal Nucleo speciale tutela privacy e frodi tecnologiche della Guardia di finanza.

 

L’attività ispettiva programmata da parte del Garante Privacy sarà svolta in aggiunta all’attività che deriva da segnalazioni o reclami, che ricordiamo essere fonte di notevole attività sanzionatoria dell’Autorità in Italia.

 

È dunque raccomandata la verifica di conformità dell’impianto privacy da parte di tutti i soggetti economici presenti nei settori elencati dal Garante Privacy, con particolare attenzione al recepimento delle disposizioni in materia di cookie, al fine di evitare ingenti sanzioni (fino a 20 milioni di euro o il 4% del fatturato globale) ed evitare inevitabili danni reputazionali.

 

 

r.demarco@macchi-gangemi.com
f.montanari@macchi-gangemi.com

 

 

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