Il Tribunale penale di Milano, con sentenza n. 3314/2023, ha accertato la responsabilità di Johnson & Johnson Medical S.p.a. per l’inidoneità e l’attuazione inefficace del modello organizzativo condannando l’ente ai sensi degli artt. 5, comma 1, lett. b, 7 e 25, comma 2, del d.lgs. 231/2001.
La fattispecie ha fornito al Tribunale l’opportunità di chiarire i criteri sulla base dei quali accertare l’idoneità e l’efficacia di attuazione del modello di organizzazione, gestione e controllo (di seguito anche solo “Modello”), a seconda che l’autore del reato presupposto sia un soggetto apicale o un sottoposto.
In particolare, nella sentenza in questione, il Tribunale ha voluto ricordare, in via preliminare, come, ai sensi degli articoli 6 e 7 del d.lgs. 231/01, il Modello non sia obbligatorio poiché “il sistema 231 costituisce, per le imprese, un onere (opportunità, in un certo senso), ma non un obbligo”, e di conseguenza “la colpa di organizzazione – ontologicamente impersonale – può anche consistere in un’intenzionale disorganizzazione: l’ente, deliberatamente, sceglie di non adottare il modello organizzativo”.
Tuttavia, se l’ente decide di adottare il Modello, come avvenuto nel caso in oggetto, tali obblighi devono ritenersi “inglobati” e formalizzati nel Modello stesso e la loro corretta ed efficace attuazione, prima della commissione del reato è, anzi, causa di esclusione di responsabilità dell’ente.
Su tale punto il Tribunale ha ritenuto di dover specificare come non sussistano significative differenze – in tema di valutazione di idoneità e di efficace attuazione del Modello – tra il regime previsto dall’art. 6 in relazione alla responsabilità per fatto degli apicali e quello dettato dall’art. 7 in relazione al reato commesso dai soggetti sottoposti.
Successivamente, il Tribunale ha specificato come “ la culpa in vigilando, che integra l’elemento di connessione tra reato ed ente rispetto ai reati commessi dai non apicali, non passa necessariamente attraverso la condotta “colposa” di una persona fisica controllore, ma è (e resta comunque) incardinata nella strutturale colpa in organizzazione, che è una forma di “colpevolezza impersonale” propria della societas e direttamente riferita all’organizzazione collettiva, anche se innervata – come si è riscontrato anche in questo caso e come si ribadirà in seguito in appresso – di condotte inadeguate di individui sovraordinati ai sottoposti a cui è ascritto il reato”.
Per valutare la responsabilità dell’ente da reato occorrerà calarsi nella prospettiva dell’ente al momento dei fatti, valutando la condotta dei soggetti sottoposti ad altrui direzione sulla base degli elementi conosciuti e conoscibili all’epoca.
In particolare, è necessario verificare se: i) i dipendenti (o comunque in altro modo sottoposti) abbiano correttamente inquadrato l’attività a rischio e rispettato i protocolli e le procedure stabiliti nel Modello in relazione a tale attività; e ii) in caso contrario, se sia stata rilevata, e quindi corretta, la disfunzione rispetto al Modello.
Applicando i principi sopra enucleati, l’ente è stato condannato in base all’esito di una complessa istruttoria che ha accertato carenze organizzative, nel sistema dei controlli e la sistematica disapplicazione del sistema sanzionatorio.
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